AGOSTINO TRA PAGANESIMO E CRISTIANESIMO

   
 

Spirito di ricerca e dialettica di pensiero in Agostino. «Cerchiamo come se stessimo per trovare e troviamo come se stessimo per cercare. Infatti “quando l’uomo pensa di finire, allora comincia” (Siracide 18,6)». Con queste parole, tratte dal De Trinitate (IX 1,1), si potrebbe riassumere, a mo’ di epigrafe, l’esperienza umana, intellettuale e spirituale di Agostino, il pensatore che più di ogni altro ha lasciato la sua impronta non solo sul cristianesimo, ma sulla stessa forma mentis dell’Occidente. La sua riflessione, infatti, è frutto di una ininterrotta ricerca; anche dopo la tormentata adesione al cristianesimo, Agostino non abbandona né il senso della domanda né lo spirito della ricerca; anzi, introdurrà proprio questo spirito nel suo modo di intendere il cristianesimo, nella sua teologia e nella sua etica.

Il suo è un pensiero dialettico. Passando infatti attraverso la filosofia neoplatonica, con la sua concezione del Dio unico e trascendente, Agostino giunge a riconoscere come specifico del cristianesimo la dialettica, già paolina, tra la trascendenza di Dio e il suo contemporaneo abbassamento in Cristo, a cui corrisponde la dialettica tra la bontà della creazione e la sua ambiguità, tra il desiderare il bene e lo scegliere il male.

Distinguendo poi le due città (civitas Dei e civitas hominis), egli fornirà una risposta duratura al vuoto politico e culturale lasciato dalla caduta dell’impero. Mentre chiude i conti con l’antichità pagana e il suo enorme patrimonio, Agostino apre la strada a un nuovo cristianesimo. Per questo egli diventa il maestro dell’Occidente cristiano (il Medioevo lo chiamerà semplicemente Augustinus magister).

 

Il panorama religioso, politico e culturale in cui opera. La liberalizzazione del cristianesimo operata da Costantino e la sua erezione a religione ufficiale con Teodosio non coincisero con l’auspicata pacificazione religiosa e sociale: se infatti i cristiani non riuscivano a capire per quale motivo si potessero ancora tollerare le tracce, ben visibili, del culto pagano, i pagani, a loro volta, non potevano rassegnarsi a veder vilipeso un secolare patrimonio culturale da cui dipendeva la grandezza di Roma. Questo il quadro all’interno del quale si inserisce la figura di Agostino, il quale, quasi strappato a forza dalla sua intenzione di dedicarsi alla vita contemplativa, viene ordinato sacerdote e, nel 395, diventa vescovo di Ippona, in Africa.

La geografia non è un dettaglio. La provincia proconsolare d’Africa è stata infatti una delle regioni dell’impero romano in cui il cristianesimo ha attecchito più precocemente e ha prodotto personalità di spicco. Qui aveva preso vita la grande stagione dell’apologetica (Minucio Felice e Tertulliano), qui erano state gettate le basi della teologia (lo stesso Tertulliano), qui la comunità dei credenti si era data solide forme organizzative (Cipriano), qui il sangue dei martiri era stato versato tanto quanto l’inchiostro dei pensatori, qui il paganesimo era stato interlocutore assiduo. Visti i precedenti, Agostino si è probabilmente sentito come il proverbiale nano sopra le spalle dei giganti, finendo altresì per riassumere e superare i precursori sino a giganteggiare a sua volta.

Nel frattempo, comunque, il panorama era profondamente cambiato: da un lato, gli imperatori erano diventati cristiani, i provvedimenti legislativi contro i pagani rasentavano la discriminazione, i vescovi erano guide spirituali e punto di riferimento valoriale; dall’altro, il paganesimo continuava a rimanere il terreno da cui era spuntata la pianta cristiana, tanto che molti cristiani continuavano a pensare, ad agire e, in parte, a credere secondo schemi mentali e religiosi tipici della cultura ellenistico-romana. Non era infrequente, per esempio, vedere gli stessi cristiani partecipare alla liturgia e contemporaneamente agli spettacoli del circo.

Di fronte a tutto ciò, Agostino prende atto e rilancia. Sulla scia di un Tertulliano (ma senza il suo impeto), egli è apologeta, ma anche costruttore di nuove sintesi teologiche, accusatore implacabile del paganesimo (da lui assorbito in tutte le sue componenti), ma anche consapevole dell’eredità culturale che esso stava lasciando. Il furore iconoclasta dei cristiani lo infastidiva tanto quanto la cecità dei pagani. È come se Agostino si fosse reso conto che non è possibile costruire il futuro senza fare i conti con il passato. La sua polemica si svolge quindi su due versanti, uno interno e uno esterno.

 

La polemica sul fronte interno. Sul fronte interno, Agostino viene a contatto con le componenti eterodosse del cristianesimo con cui si pone in decisa opposizione. Innanzitutto, deve combattere un cristianesimo, soprattutto di marca popolare, ancora imbevuto di superstizione, di culti locali che risentono del sincretismo e dei resti paganeggianti.

Ma c’è anche il cristianesimo rigorista dei seguaci del vescovo cartaginese Donato (270-355ca.), che, dietro una posizione di intransigenza dottrinale e disciplinare, faticavano a dissimulare una miscela di nazionalismo punico e ansia di riscatto sociale per le classi umili. C’è il cristianesimo estremista e violento dei circoncellioni (da  circum cellas, in quanto essi sostavano spesso intorno alle tombe), il braccio armato dei donatisti, gruppi di fanatici che si erano resi responsabili di scorrerie all’interno di chiese e dell’uccisione di preti.

C’è infine il cristianesimo pelagiano (eresia che deriva il suo nome dal monaco britannico Pelagio, nato nel 354 ca. e morto dopo il 418) che rivendicava l’importanza della libertà umana nel raggiungimento della salvezza con conseguente svalutazione della Grazia divina. Contro tutti questi ‘cristianesimi’ Agostino farà sentire il peso il peso della propria autorità episcopale e la raffinatezza del proprio pensiero (si veda in particolare De baptismo e De gratia Christi et de peccato originali).

 

La polemica sul fronte esterno. Sul fronte esterno, Agostino deve respingere accuse vecchie e nuove. Le prime vertono sulla presunta incompatibilità tra cristianesimo e i valori socio-politici della romanità. Su questo terreno si era già cimentato Tertulliano, il quale aveva liquidato la questione con un perentorio nec ulla magis res aliena quam publica («nessuna cosa ci è più estranea della cosa pubblica») (Apologeticum 38).

A differenza del suo conterraneo, Agostino toglie il cristianesimo dalla sua marginalità e lo pone al centro della scena: non è più il paganesimo che definisce il cristianesimo, ma quest’ultimo che, in certo senso, indica la corretta chiave di lettura dell’altro. Se Tertulliano rifiuta la civitas, Agostino non si sottrae al confronto e la inserisce anzi in un progetto di rinnovamento etico.

Le nuove accuse sembrano anticipare la nota tesi di Edward Gibbon (espressa nella sua celebre opera History of the Decline and Fall of the Roman Empire, pubblicata a Londra tra il 1776 e il 1788): se l’edificio imperiale sta crollando, la colpa non può che essere del cristianesimo. Agostino prende sul serio l’imputazione, leggendovi in filigrana lo scontro tra politeismo pagano – di fatto un monoteismo sincretistico, come si è detto – e monoteismo cristiano: l’impero crolla, sostiene Agostino, perché il pantheon romano è il regno della frammentarietà, del disordine religioso e morale. Sancendo l’esaurimento della cultura pagana, se ne sottolinea però anche la sua funzione anticipatoria; in questo senso, la civitas hominis non è antitetica alla civitas Dei, ma una sua preparazione.

Prima ancora che il De civitate Dei, sono le Confessiones il testo in cui Agostino, alla luce della rivelazione, riesamina il proprio passato pagano, denunciandone i limiti, ma, al tempo stesso, facendo trasparire tra le righe il debito di riconoscenza per aver fornito gli strumenti espressivi (vale a dire il patrimonio stilistico-retorico della latinità) alla sua evoluzione umana e spirituale.