PAGANESIMO E CRISTIANESIMO TRA III E IV SECOLO |
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“Gli ottant’anni che sconvolsero il mondo!”. Così si potrebbe definire l’arco di tempo che va dal 303 (ultima grande persecuzione contro i cristiani ad opera di Diocleziano) al 380 (editto di Teodosio) e che segna il trionfo del cristianesimo su un paganesimo destinato a sfaldarsi come un castello di sabbia travolto dall’onda cristiana. Questa immagine, tuttavia, è stata dipinta con pennelli e con colori cristiani: le testimonianze cristiane, più che una storia, tracciano una teologia della storia, tesa a mostrare come il conflitto paganesimo-cristianesimo fosse una battaglia celeste (cioè cosmico-spirituale) prima ancora che umana (cioè socio-politica). Il dato storico è questo: a partire dal iv secolo, il cristianesimo si dota di una solida politica ecclesiastica, culturale e sociale. Dapprima denigrata socialmente e culturalmente, la nuova religione finisce per assumere su di sé quella dimensione universale che il paganesimo non era più in grado di svolgere. |
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1. Follia vs razionalità: la reazione pagana al cristianesimo | ||||
Dai pregiudizi popolari alla confutazione degli intellettuali pagani. «I Giudei chiedono un segno e i Greci cercano sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che è scandalo per i Giudei e follia per i Greci». Con queste parole si apre la Prima lettera ai Corinzi (1,22-23) dell’apostolo Paolo, il quale sembra cogliere precocemente la dialettica sapienza-follia, che sarà il tratto distintivo della polemica anticristiana. In effetti, il paganesimo schiera le sue menti migliori per dimostrare come la figura di Gesù e l’annuncio cristiano rientrino nella categoria della irragionevolezza. È soprattutto a partire dal iv secolo che il cristianesimo ormai trionfante rovescerà sul paganesimo le stesse accuse di cui era stato oggetto. Nel corso del ii secolo, le critiche anticristiane rientravano perlopiù nel quadro dei pregiudizi popolari, inutilmente ammantati da una patina di plausibilità: nel corso delle loro riunioni i cristiani si danno alla antropofagia e all’incesto, adorano una testa d’asino, si inchinano davanti ai genitali dei loro sacerdoti, provocano calamità naturali, compiono sortilegi di ogni sorta. A queste accuse, che spesso si traducevano in atti di aperta ostilità, rispondono gli esponenti della cosiddetta prima apologetica latina, Tertulliano e Minucio Felice, i quali dimostrano come le accuse mosse siano frutto di ignoranza e di malevolenza. A partire dal iii secolo la situazione cambia. Sebbene i pregiudizi continuino a trovare ampio credito negli ambienti meni colti, sono gli intellettuali, soprattutto filosofi neoplatonici, custodi dei valori più autentici della grande tradizione di pensiero ellenistico-romana, ad assumersi il “compito” di dimostrare l’assurdità del movimento cristiano e del suo sistema teologico. Essi colgono benissimo il pericolo costituito dai cristiani, i quali, rifiutandosi di aderire al culto imperiale, con tutto ciò che comportava, finiscono per introdurre nella compagine socio-politica un elemento disgregatore e antisociale. Tra le varie voci intervenute nella polemica, le più significative sono quelle di Celso e Porfirio. |
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Porfirio. Nel 448 gli imperatori cristiani Valentiniano III e Teodosio II emano un editto nel quale ordinano, tra l’altro, di bruciare «tutte le opere di Porfirio» (Codex Iustinianus I,1,3). Ciò la dice lunga su come il cristianesimo posteriore abbia colto la pericolosità del Contro i cristiani di Porfirio, tanto che l’opera venne confutata dalle migliori penne cristiane (Eusebio di Cesarea, Girolamo e Agostino, per non citare che i più noti). Effettivamente, questo allievo di Plotino, vissuto nella seconda metà del iii secolo, in una temperie caratterizzata da una profonda crisi che investe tanto le realtà materiali quanto quelle immateriali, si assume un compito ambizioso: abbattere il cristianesimo dalle fondamenta dimostrandone l’intrinseca irrazionalità. Volendo assumere una terminologia moderna, si potrebbe dire che in Porfirio, forse per la prima volta, viene messo a tema il contrasto tra fede (pístis) e ragione (lógos). Esiste una chiara incompatibilità –dice Porfirio– tra l’irrazionalità del messaggio cristiano, per via del carattere popolare del suo apparato dottrinario che spinge ad una superficiale credulità e per via della mancanza di tradizione, e la ragionevolezza della filosofia antica. Oltretutto, i cristiani sono atei in quanto rifiutano il culto tradizionale. Si chiede infatti Porfirio: «Come potrebbero non essere empi e atei coloro che hanno abbandonato i patrii costumi, dai quali tutta la stirpe e tutto lo stato sono tenuti uniti? […] Di quale indulgenza dovranno essere ritenuti degni coloro che da sempre, presso ogni popolo, greco o barbaro, nelle città e nelle campagne, si sono tenuti lontani da templi, iniziazioni e misteri?» (fr. 1). |
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2. Fu vera persecuzione? | ||||
Per quale motivo i Romani, notoriamente tolleranti in campo religioso, perseguitarono i cristiani? Sulla base di quale fondamento giuridico? Sistematicamente o sporadicamente? Per rispondere a queste domande sono stati versati i proverbiali fiumi di inchiostro e non è possibile in questa sede dare conto di tutte le voci che sono intervenute nel dibattito. Ci si limiterà dunque ad alcune puntualizzazioni. Anzitutto, bisogna sottolineare come il rapporto cristiani-pagani fino al iv secolo non possa essere ridotto ad una storia di persecuzioni, le quali peraltro non furono sistematiche né cronologicamente né geograficamente. L’immagine dei cristiani che vengono inviati a frotte in pasto alle fiere appartiene più a certe rappresentazioni cinematografiche o letterarie che non alla realtà storica. Ciò che invece emerge dalla ricerca storica degli ultimi anni è una dinamica complessa: le persecuzioni vanno inserite all’interno del contesto più generale e più sfaccettato dell’incontro-scontro tra paganesimo e cristianesimo. È importante chiedersi, in secondo luogo, se i cristiani venissero perseguitati sulla base di motivazioni religiose o politiche. Del cristianesimo i romani percepivano la valenza religiosa o quella politco-sociale? La domanda, che pure ha visto dividersi gli studiosi, è malposta, dal momento che, secondo la mentalità romana, religione e politica formavano un tutt’uno indissolubile: la persecuzione è stata sia religiosa sia politica, cioè politica in quanto religiosa. Non a caso, gli imperatori che si dimostrarono maggiormente ostili nei confronti dei cristiani furono quelli che, richiamandosi al mos maiorum, perseguivano un rinnovamento politico della compagine imperiale (Traiano, Adriano, Marco Aurelio, Diocleziano). C’è poi la questione dei fondamenti giuridici delle persecuzioni, ancor più importante laddove si consideri che il diritto romano non emetteva condanne a cuor leggero. Anche in questo caso, sono state avanzate diverse ipotesi: c’è chi ha parlato dell’esistenza di una legge speciale (non confermata però dalle fonti), chi di operazioni fondate sul potere di coërcitio del magistrato, chi infine del fatto che i cristiani venivano condannati per reati comuni. Ciò che emerge con maggiore insistenza dalle fonti, e su cui concorda la maggior parte degli studi più recenti, è che i cristiani venivano denunciati (e spesso condannati) per il crimen nominis christiani, accusa con la quale qualche magistrato zelante cercava di rispondere ad un diffuso senso di disagio dell’opinione pubblica che vedeva nel modus vivendi dei cristiani (rifiuto dell’impegno politico, della religio tradizionale e del culto imperiale) una minaccia costante alla unità sociale, istituzionale e morale dell’impero. Quella che si mette in moto è in sostanza la classica dinamica del capro espiatorio, come capisce bene la penna più arguta e corrosiva dell’apologetica latina, quel Tertulliano che afferma: «Se il Tevere straripa in città, se il Nilo non straripa nelle campagne, se il cielo è rimasto fermo, se la terra ha tremato, se c’è una sventura, un’epidemia, subito si grida “Christianos ad leonem”. Tanti cristiani per un solo leone? Io vi domando: prima di Tiberio, cioè prima della venuta di Cristo, quante disgrazie hanno colpito il mondo e la città?» (Apologeticum 40,1). |
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3. Cristianizzazione del mondo e mondanizzazione del cristianesimo | ||||
Come è stato possibile che il cristianesimo, tacciato di insensatezza, abbia finito, nel giro di breve tempo, per decretare la “morte” del paganesimo, morte avvenuta non per effetto di un omicidio, ma per consunzione interna? Certo grazie alla capillare opera di predicazione, di apostolato, di testimonianza e, soprattutto, di inculturazione; ma l’elemento decisivo è da rintracciare nel fatto che il cristianesimo fornisce le risposte giuste ad un mondo che stava perdendo i suoi tradizionali punti di riferimento, religiosi e politici. |
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La risposta religiosa. Sul piano religioso, il cristianesimo sembra rispondere in modo più efficace rispetto al paganesimo alla domanda di sacro che, a partire dalla crisi del iii secolo, si fa sempre più pressante. Al proposito, è scorretto porre la questione in termini di scontro tra politeismo e monoteismo. La dialettica è piuttosto tra due tipologie di monoteismi: quello sincretista dei pagani e quello assoluto dei cristiani. E’ quest’ultimo che, sia pure attraverso i meandri della coscienza umana, finisce raccogliere i maggiori consensi. Più che di conversione al cristianesimo, si deve dunque parlare di una naturale evoluzione religiosa del paganesimo stesso verso un monoteismo esclusivista. Il capovolgimento dei rapporti operato da Costantino, che vede nel monoteismo assoluto dei cristiani l’adeguato fondamento della sua traballante monarchia, rientra in questo ambito. |
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4. La "svolta" di Costantino | ||||
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Il cristianesimo a fondamento dell'ideologia imperiale. La svolta costantiniana conclude e al tempo stesso apre una nuova fase di quel lento processo che ha condotto il cristianesimo da una posizione critica nei confronti della commistione tra politica e religione (all’insegna del a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio) a una posizione di garante delle scelte politiche, le quali hanno senso in quanto ispirate dall’alto. Comincia a farsi strada, come si diceva in apertura, una vera e propria teologia della storia. La riflessione cristiana, infatti, vede in Costantino la confluenza di due storie: quella sacra e quella profana. Non è il cristianesimo che si assoggetta al saeculum, ma il saeculum che riconosce il cristianesimo, che cioè accoglie Cristo come signore della storia. Si può quindi dire che, mentre l’impero entra nella storia della salvezza, il cristianesimo entra nell’ideologia imperiale, prendendo il posto di quella religio che garantisce l’unità e la sopravvivenza dell’impero stesso. Non a caso, sarà proprio Costantino a superare la tetrarchia dioclezianea e a ricomporre l’unità imperiale. Il monoteismo assoluto si sposa con la monarchia assoluta. Il fatto poi che la tradizione cristiana (Lattanzio ed Eusebio) insista sulla autenticità della conversione di Costantino, collocandola alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio (28 ottobre 312), mentre quella pagana (Eutropio) ponga l’accento sulla sua strumentalità, collegandola alla vittoria su Licinio (324), non cambia i termini del problema, che si potrebbe così riassumere: Costantino assume il cristianesimo come collante dell’impero e il cristianesimo assume Costantino come testimone della propria verità. I rischi del cesaropapismo (che è poi il contrario della teocrazia) sono già evidenti: esso troverà terreno fertile soprattutto in Oriente, mentre in Occidente cominciano a svilupparsi gli anticorpi dell’opposizione ecclesiastica al potere imperiale, che si esprimono attraverso due forme di contestazione: il monachesimo (rifiuto del saeculum) e il ruolo sempre crescente del vescovo, come dimostra lo scontro tra Ambrogio e Teodosio. |
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5. Tolleranza e libertà religiosa | ||||
Esclusivismo cristiano e sincretismo pagano. Come è noto, una volta che fosse garantita la pax deorum e la pax pubbica, i Romani non avevano problemi ad accogliere culti ed espressioni religiose diverse. Del resto, anche il riconoscimento del cristianesimo rientra in questo quadro. È importante tenerlo presente per evitare il rischio di definire tolleranza (concetto moderno, non certo antico) ciò che è invece sincretismo. In questo senso, i Romani erano “tolleranti” in quanto sincretisti. Ma cosa avviene allorché l’esclusivismo monoteistico cristiano si scontra con il sincretismo pagano? Poteva il cristianesimo accettare di essere posto sullo stesso piano di altre forme religiose, rischio tutt’altro che remoto a seguito del suo riconoscimento da parte dell’establishment politico in forza dell’editto di Costantino? Il dato è infatti incontrovertibile: se, fino al iii secolo, il cristianesimo, ancora minoritario e messo ai margini, rivendica la libertà, a partire dal iv, esso, divenuto maggioritario e accettato, rivendica la verità. In questa nuova situazione, la verità può dare spazio alla tolleranza? E come praticare la tolleranza senza svendere la verità? In breve: come conciliare libertà e verità? Ecco allora che lo scontro fu epocale. La querelle relativa all’Altare della Vittoria ne è chiara testimonianza. |
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La posizione di Simmaco. Nel 382 l’imperatore Graziano, cristiano, decide di far rimuovere dall’aula della Curia romana uno dei simboli più antichi ed solenni del paganesimo, cioè l’Altare della Vittoria fatto collocare nel lontano 29 a.C. da Ottaviano Augusto. Due anni dopo, Simmaco (lo stesso che aveva raccomandato Agostino ad Ambrogio per l’incarico di insegnante di retorica a Milano: Confessioni V,13,23), in qualità di praefectus urbis Romae, indirizza al nuovo imperatore, l’appena dodicenne Valentiniano II, una accorata supplica (Relatio tertia) nella quale chiede il ripristino del monumento. La diatriba, appassionante e feroce come tutte le battaglie in difesa di simboli identitari, è efficace indice del clima che si respirava all’epoca, con i perseguitati di ieri che sembravano essere diventati i persecutori di oggi. Il ragionamento di Simmaco si potrebbe racchiudere in una sua celebre affermazione: «Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum» (Relatio III,10). Se letta in modo superficiale, la frase potrebbe essere vista come una modernissima espressione di tolleranza religiosa: in forza del principio per cui la verità si può raggiungere attraverso strade diverse, i cristiani non possono pretendere di aver l’esclusiva della vera religione e dei simboli che la rappresentano. In realtà – e non può essere diversamente – Simmaco continua a ragionare da buon romano e da buon neoplatonico: del primo, condivide l’ideale della pax deorum, per cui privare la religione tradizionale di uno dei suoi simboli significa attentare alla compattezza politica dell’impero e attirarsi l’ira divina sottoforma di calamità varie (il tema è tradizionale); del secondo, condivide l’idea che la verità si raggiunge solo attraverso strade diverse, cioè attraverso il sincretismo religioso. Ebbene, ad un cristiano abituato a sentir proclamare il principio dell’«Io sono la via, la verità, la vita» (Giovanni 14,6), tutto ciò non poteva che apparire inaccettabile. |
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