LETTURA EBRAICA E LETTURA CRISTIANA

I problemi cui abbiamo accennato hanno origini molto antiche e la loro vicenda trova il suo momento più drammatico -e in certo senso il suo nodo esemplare- nel confronto fra Gesù di Nazareth, che affermava di essere il Messia, e i Farisei (i fedelissimi della tradizione), che ritenevano questa pretesa scandalosa e assurda.

Quasi tutti i dibattiti a tema biblico presenti nel Vangelo seguono il medesimo schema.

I Farisei sono presentati come coloro che tendono a mettere in dubbio le capacità inter­pretative di Gesù di Nazareth (che pure era un Rabbi, ossia un interprete biblico ufficial­mente riconosciuto) ponendogli questioni molto precise di critica testuale, in una forma che ricalca, passo per passo, quella ancora in uso nelle scuole rabbiniche più prestigiose.

Tali questioni risultano tutte impostate secondo la logica che segue.

  • Nella Legge (cioè nel testo biblico) si dice questo; tu fai il contrario di quello che lì viene detto.

  • Tu affermi di essere il Messia; ma se ti comporti al contrario di come si dovrebbe comportare il Messia vuol dire che sei un impostore.

Anche la risposta dell'interessato segue sempre il medesimo schema.

  • Poniamo la questione alla rovescia: facciamo l'ipotesi che io sia il Messia.

  • Se assumete questa ipotesi, vi accorgerete che:

  1. il brano che voi avete citato non ha il significato che gli date voi, ma tutt'altro;

  2. il mio comportamento è perfettamente coerente rispetto a quel brano che, se letto in quest'ottica, risulta addirittura più chiaro e comprensibile.

E dato che, letto in questo modo - ossia, a ritroso (da ora a prima), o dal Messia alla Legge (o ai Profeti) e non viceversa- il brano risultava effettivamente più chiaro e più comprensibile, e quasi inequivocabile, i Farisei si trovavano sotto scacco proprio sul loro terreno. Questo, almeno, è quel che mostrano i Vangeli.

Lo schema interpretativo del Messia non è del tutto nuovo. La grandezza dei profeti biblici, e soprattutto la grandezza dei due massimi poeti ebraici - il Re David e suo figlio Salomone -, non sta, infatti, tanto nell'aver predetto il futuro (che per gli Ebrei non si è ancora avverato) quanto nell'aver riletto in modo nuovo e più vero la storia passata alla luce del loro presente.

Forniamo un esempio di questa rilettura su un episodio, tra l'altro, molto caro a Dante.

È noto che, fuggendo dall'Egitto per tornare nella loro terra, gli Ebrei dovettero attraversare il Mar Rosso. Il cinema ha offerto spettacolari ricostruzioni di questa scena, ma la lettura del testo permette di capire che le cose andarono in modo molto più semplice, senza effetti speciali. L'effetto davvero speciale di quell'attraversamento di una zona umida - come la si direbbe oggi - fu un altro.

Il libro dei Nomi (o Esodo), infatti, mostra in maniera piuttosto chiara che quella popolazione, numericamente quasi insignificante, che cercava di tornare a casa, non aveva altra coscienza di quello che stava facendo se non quella di trovare una situazione più vivibile rispetto a quella lasciata alle spalle e spesso anche rimpianta.

Ben diversa, però, era la coscienza dei suoi capi: lì stava nascendo un popolo da cui sarebbe venuta la salvezza del mondo, promessa da Dio stesso al capostipite della popolazione, Abramo, che per primo aveva portato le sue greggi sulla Terra verso cui, ora, si stavano dirigendo. In vista del compimento di questa promessa si potevano sopportare, dunque, i disagi del viaggio. Ma la gente comune, lo ripetiamo, aveva un'altra visione della situazione: non vedeva che sassi, serpenti e scor­pioni e dubitava, erroneamente, di arrivare a una soluzione.

Qualche secolo dopo, insediatosi felicemente sulla terra promessa e costruita la città di Gerusalemme nel luogo stesso in cui il patriarca Abramo aveva obbedito al Signore fino al sacrificio del figlio Isacco (sacrificio evitato solo all'ultimo momento), il re Davide scrisse quello che oggi è noto come il Salmo 113: Quando Israele uscì dall'Egitto..., nel quale si mostra come il famoso passaggio attraverso il mare significa che gli uomini sono destinati a trovare la libertà e la felicità (la Terra Promessa) se seguono le indicazioni di Dio: egli vuole che essi si lascino alle spalle il paese della schiavitù, ossia la tendenza a farsi complici, e quindi a lasciarsi opprimere, dalle proposte interessate di chi detiene il potere (l'Egitto).

È questa la ragione per la quale gli Ebrei ricordano ogni anno quel passaggio come l'inizio del loro popolo, fondato sulla consapevolezza della bontà di Dio nei loro confronti. Egli, infatti, li ha sottratti dalle mani del Faraone, ha mantenuto la promessa fatta ai loro padri, ha dato loro una terra in cui scorrono latte e miele. È la festa conosciuta come Pasqua, che significa, appunto, passaggio.

Visto dalla parte di Davide, dunque, il significato di quella lontana avventura risulta molto diverso da quello datogli dai diretti protagonisti, eccezion fatta per i capi, che, soli, ne intravidero il senso ultimo, cioè quello che si comprende adesso, alla luce di tutto quello che è successo dopo e che ne chiarisce la verità.