IL TEATRO ROMANO

 
 

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  1. Il teatro romano delle origini  
 

Preistoria contadina: i fescennini. Il teatro latino è nato nelle campagne laziali parecchi secoli prima che si possa parlare di una vera e propria attività teatrale in Roma stessa (che avvenne solo verso la metà del IV secolo a.C.).

Analogamente a quanto era avvenuto o avveniva in molte altre culture della penisola italica, i contadini, in occasione di importanti ricorrenze del calendario agricolo, quali l'aratura o la mietitura, concludevano le loro fatiche celebrando delle feste, cioè dei ludi. Il termine ludi riassume in sé l'insieme delle processioni, dei sacrifici, delle gare, equestri o atletiche, e di ogni altra azione rituale compiuta in onore degli dèi e per divertimento degli uomini nel corso di una determinata festa. Tra le azioni rituali che completavano il cerimoniale c'era molto spesso ­una rudimentale forma di teatro.

Che si trattasse di feste poste all'inizio del lavoro dei campi o della cura delle vigne, oppure di feste poste a conclusione del ciclo (mietitura, vendemmia), il rituale era comunque interamente ­incentrato sul tema della fecondità. Dal momento in cui il seme comincia la sua vita nel grembo della terra sino a quando i mietitori non ripongono il raccolto nei granai, è necessario tenere lontana ogni specie di calamità: maltempo, piante nocive, parassiti, animali ostili in genere (come il capro per la vite). Tale compito, che si usa definire con parola greca «apotropaico» (letteral­mente «che allontana i mali»), non è svolto unicamente da sacrifici di animali, da libagioni o offerte di fiori alla divinità, ma anche da ogni altro evento incluso nel tempo della festa.

Per meglio inquadrare gli scambi fescennini della preistoria teatrale latina è necessario inte­grare ciò che conosciamo delle feste contadine moderne con la componente mimica. Gli antichi non distinguevano la mimica dalla danza: la mimica era una forma di danza, ludere significa anche danzare e l'interprete del pantomimo sarà detto in età imperiale ludius (o ludio). Negli ­scambi fescennini delle origini vi erano dunque, seppure ad uno stadio ancora elementare e privo disciplina artistica, tutti gli elementi essenziali del teatro.

La stessa oscenità, del resto, che dovette essere tra le componenti più vistose dei fescennini, è comune a tutte le forme conosciute di teatro primitivo. La sua funzione sembra essere ovunque la stessa: quella di allontanare gli influssi maligni che potrebbero ostacolare la fertilità della donna, o della terra, o di entrambe.

La stessa oscenità, del resto, che dovette essere tra le componenti più vistose dei fescennini, è comune a tutte le forme conosciute di teatro primitivo. La sua funzione sembra essere ovunque la stessa: quella di allontanare gli influssi maligni che potrebbero ostacolare la fertilità della donna, o della terra, o di entrambe. Negli orti e nei giardini si usava collocare statue del dio Priapo: il suo membro gigantesco, si cre­deva, avrebbe tenuto lontani ladri e malintenzionati. L'immagine del fallo era appunto considerata il primo e miglior rimedio contro il malocchio: e, proprio come il malocchio, era chiamata fascinum.

Il carattere apotropaico dei fescennini era talmente evidente da far pensare, già in antico, che, ­accanto alla più probabile dipendenza etimologica del termine da Fescennia (città del Lazio set­tentrionale, di cultura affine a quella dei Latini), il termine «fescennino» derivasse proprio da fascinum: «quia fascinum putabantur arcere, Festo).

Di natura fescennina, o molto simile ad essa, sembra fossero anche i canti e gli scherzi (anche molto pesanti) indirizzati da una parte dei soldati al proprio comandante durante la processione trionfale. Tali carmina triurnphalia miravano a evitare che i troppi elogi e il clima di esalta­zione collettiva non facessero dimenticare al trionfatore di essere un uomo come gli altri, ma anche a stornare da lui la malasorte.

L'origine contadina della comicità rituale ci aiuta a cogliere una caratteristica essenziale della festa antica. Essa era infatti - e continua ad esserlo per le culture d'interesse etnografico - un momento (o periodo) di distacco dal quotidiano, un'attività che l'uomo dedicava non già a su stesso, bensì al dio (o agli dei). Nel tempo speciale della festa l'uomo "lavorava" per il dio, tutto ciò che faceva lo faceva per la divinità: ivi compreso il lasciarsi andare senza freno allo sfogo del represso, vale a dire di tutti quegli elementi che il comportamento "civile" tende normalmente a rimuovere dalla prassi quotidiana. Il sesso e le funzioni corporali, in particolare, nell'occasione festiva riemergono potentemente, e alla loro esibizione si attribuisce non solo il potere liberatorio di destare il riso e l'allegria, ma anche quello di riallacciare i legami con il mondo della fertilità naturale.

Ciò significa, tra l'altro, che non vi è alcuna sostanziale differenza tra la comicità (scurrile, vol­gare, aggressiva, grottesca) che caratterizza molte cerimonie del rituale festivo e la comicità (altrettanto scurrile, volgare, aggressiva e grottesca) delle prime rozze forme di teatro: sono entrambe rituali, entrambe sacre, e, a differenza della nostra esperienza - totalmente laica - del teatro, non avrebbero avuto alcun senso al di fuori del tempo festivo. Nei villaggi più sperduti dell'antico Lazio come nella Roma repubblicana, lo spettacolo teatrale era e continuò ad essere un atto essenzialmente religioso.

 

Il periodo sperimentale: la satura. L'evento decisivo per l'introduzione ufficiale delle rappresentazioni teatrali nelle feste (dette, come sappiamo, ludi) a Roma cade, secondo la tradizione annalistica, nel settembre del 365 a.C.

In quell'anno - racconta lo storico Tito Livio (VII, 2) - era scoppiata in città una violentissima pestilenza. Per scongiurare un'ira divina che pareva implacabile, si fece ricorso, in un primo tempo, alla cerimonia del lectisternium, che consi­steva nell'imbandire un sontuoso banchetto agli dèi maggiori, i quali, in figura di statue o simbo­li equivalenti, «si sdraiavano», o meglio «venivano fatti sdraiare sui letti [da tavola]» a loro desti­nati. Tale cerimonia era giudicata così solenne ed efficace, che era stata celebrata, in precedenza (cioè dalla fondazione di Roma fino a quel momento), solo altre due volte. Ma questo non servì a placare la violenza dell'epidemia, e si dovette ricorrere - come era sempre accaduto e come si sarebbe ancora fatto nei momenti di più grave emergenza - a forme rituali straniere. Così si fecero venire dall'Etruria dei ballerini (ludiones), i quali, muovendosi al suono del flau­to, eseguirono «con somma grazia» (come si tramandava) una danza di purificazione: ancora un esempio di performance mimico-musicale utilizzata in una circostanza religiosa a difesa della comunità, questa volta per riottenere dagli dèi una benevolenza temporaneamente perduta. Neppu­re questo dovette però riuscire efficace, se è vero che la pestilenza continuò anche l'anno seguente. Ma a qualcosa quella dama etrusca era comunque servita. Si tramanda infatti che i giovani romani, sino ad allora dediti a private quanto estemporanee improvvisazioni fescennine, avessero preso ad imitare i ballerini etruschi. E, unendo ai propri rudimentali versi alterni e alla propria mimica l'abilità ed eleganza di movimenti (accompagnati dalla musica) di cui quegli stranieri ave­vano dato l'esempio, si diceva che avessero creato un nuovo genere di spettacolo, detto satura, che in breve s'impose ai gusti del pubblico e fu ufficialmente accolto nell'ambito dei ludi.

Et hoc et insequenti anno C. Sulpicio Petico C. Licinio Stolone consulibus pestilentia fuit. Eo nihil dignum memoria actum, nisi quod pacis deum exposcendae causa tertio tum post conditam urbem lectisternium fuit. Et cum uis morbi nec humanis consiliis nec ope diuina leuaretur, uictis superstitione animis ludi quoque scenici, noua res bellicoso populo—nam circi modo spectaculum fuerat—inter alia caelestis irae placamina instituti dicuntur; ceterum parua quoque, ut ferme principia omnia, et ea ipsa peregrina res fuit. Sine carmine ullo, sine imitandorum carminum actu ludiones ex Etruria acciti, ad tibicinis modos saltantes, haud indecoros motus more Tusco dabant. Imitari deinde eos iuuentus, simul inconditis inter se iocularia fundentes uersibus, coepere; nec absoni a uoce motus erant. Accepta itaque res saepiusque usurpando excitata. Vernaculis artificibus, quia ister Tusco uerbo ludio uocabatur, nomen histrionibus inditum; qui non, sicut ante, Fescennino uersu similem incompositum temere ac rudem alternis iaciebant sed impletas modis saturas descripto iam ad tibicinem cantu motuque congruenti peragebant. Liuius post aliquot annis, qui ab saturis ausus est primus argumento fabulam serere, idem scilicet—id quod omnes tum erant—suorum carminum actor, dicitur, cum saepius reuocatus uocem obtudisset, uenia petita puerum ad canendum ante tibicinem cum statuisset, canticum egisse aliquanto magis uigente motu quia nihil uocis usus impediebat. Inde ad manum cantari histrionibus coeptum diuerbiaque tantum ipsorum uoci relicta. Postquam lege hac fabularum ab risu ac soluto ioco res auocabatur et ludus in artem paulatim uerterat, iuuentus histrionibus fabellarum actu relicto ipsa inter se more antiquo ridicula intexta uersibus iactitare coepit; unde exorta quae exodia postea appellata consertaque fabellis potissimum Atellanis sunt; quod genus ludorum ab Oscis acceptum tenuit iuuentus nec ab histrionibus pollui passa est; eo institutum manet, ut actores Atellanarum nec tribu moueantur et stipendia, tamquam expertes artis ludicrae, faciant. Inter aliarum parua principia rerum ludorum quoque prima origo ponenda uisa est, ut appareret quam ab sano initio res in hanc uix opulentis regnis tolerabilem insaniam uenerit.

II termine satura indicava senza dubbio uno spettacolo caratterizzato dalla giustapposizione di "pezzi" non legati tra loro da una trama comune, e neppure dello stesso genere: brevi sketch di attualità cittadina, canzoni, giochi di destrezza, scenette di vita contadina e provinciale, e simili. Il termine moderno «varietà» è realmente un equivalente di satura. Possiamo dedurlo da espressioni come lanx satura, che, secondo il tardo grammatico Diomede, era un «piatto» (offerto annualmente a Cerere) colmo, o farcito (da satur), di frutti «d'ogni sorta»; o dall'espressione tecnica lex satura, ovvero lex per saturam, che indicava l’approvazione in blocco, cioè mediante un'unica votazione, di leggi concernenti le questioni più varie e disparate.

L'avvento della satura, propiziato dai danzatori etruschi, segnò a Roma l'inizio di un teatro non improvvisato, favorì il formarsi di una scuola di attori, ma anche di musicisti (Tito Livio sot­tolinea che si trattava di spettacoli «ricchi di melodie») e, si deve supporre, di autori: non si può infatti escludere che, per quanto brevi, i numeri della satura non ricorressero talvolta al sostegno di testi anche solo parzialmente scritti. Fu comunque nell'ambito della satura che i Romani cominciarono a prendere confidenza con la passione ellenistica per gli spettacoli musicali e, se non con tutti, almeno con alcuni dei metri drammatici greci.

Tutto questo fu determinante anche per gli sviluppi successivi del teatro romano. Quando, a conclusione della prima guerra punica, si decise di introdurre nel calendario dei ludi alcune rap­presentazioni «greche», cioè dei riadattamenti latini di tragedie e commedie del celebre reperto­rio ateniese, il teatro romano, soprattutto grazie all'esperienza legata alla satura, si dimostrò all'altezza dell'impresa, e anzi fu in grado di dare un'impronta felicemente caratterizzata alla pro­pria produzione: sia sul piano letterario che su quello dell'allestimento e della rappresentazione.

 
     
  2. Dalla satura  all'exodium Atellanicum  
 

Con l'avvento dei teatro "alla greca", la satura, intesa come forma portante del teatro ufficiale latino, fu condannata al declino; ma non scomparve del tutto, se è vero che, non meno di cinquant'anni dopo Ennio fu in grado di riprenderne il nome e la struttura a contenuto miscellaneo, trasformandola da genere teatrale semimprovvisato in genere letterario interamente scritto. Ma altrettanto interessante e storicamente importante è che non scomparve affatto, trovando anzi nuovi ed efficacissimi punti d'applicazione, il tipo di comicità di cui la satura era stata sino ad allora principale garante.

A Roma, la condizione e ancor prima l'attività dell'attore a tempo pieno erano considerate indegne di un libero cittadino: non era invece stato così nel caso di quegli scambi fescenni improvvisati, prima nella piazza del villaggio, poi nel circo o accanto a un tempio nelle feste cit­tadine. Questo tipo di rappresentazione aveva infatti avuto il doppio pregio della spontaneità (intesa come espressione, anche, di autentica religiosità) e del decoro, dal momento che si esau­riva all'interno dei ludi, senza togliere tempo prezioso al lavoro dei campi o alla milizia.

Fu così che i giovani cittadini romani, lasciata la cura dei generi teatrali maggiori ad attori professionisti (e di dubbia onorabilità), tornarono ai fescennini di un tempo: «Poiché il diverti­mento s'era a poco a poco trasformato in arte, la gioventù riprese, secondo fuso antico, a scam­biarsi buffonate espresse in versi» (Tito Livio VII,2,11). Ne nacque una nuova forma, seppur molto "minore", di teatro: una breve farsa modellata su un genere farsesco importato nel frattempo dalla cittadina osca di Atella (in Campania, non distante dall'odierna Aversa), la cosid­detta fabula Atellana; e poiché tale farsa era posta solitamente a conclusione di una tragedia o di una commedia alla greca, fu detta anche exodium («spettacolo di uscita») Atellanicum.

L'atellana finirà anch'essa per diventare un genere letterario vero e proprio: verso la fine del II secolo a.C., quando ormai la fortuna della commedia alla greca si sarà di fatto esaurita. I brevi frammenti pervenutici rivelano una notevole dipendenza dal linguaggio della commedia alla greca, ma dai titoli di cui c'è giunta notizia è lecito inferire che, sin dall'originaria farsa osca e poi nello stesso exodium Atellanicum improvvisato, i semplicis­simi intrecci prevedessero alcune maschere fisse che comparivano a turno o insieme: Maccus (il Matto, lo Sciocco), Bucco (Mascellone, grasso e scemo), Pappus (il Nonnetto, vecchio, avaro e libidinoso) e Dossennus (forse il Gobbo, astuto, avido, turpe e arcigoloso, detto anche Manducus).

Maccus

Pappus

Buccus

Dossenus

L'exodiun Atellanicum, che in qualche misura fu il più diretto erede del fescennino e della satura, dovette esser caratterizzato da espedienti quali la volgare aggressività verbale bolla­ta poi da Orazio (Saturae I,7,32) come Italum acetum, oscenità d'ogni ordine e grado, gagliarde bastonature. Da notare che i cittadini romani continuarono, da allora, a ritenere la farsa di tipo atellanico loro prerogativa esclusiva: quanti tra loro, da attori dilettanti, la praticava­no, non venivano per questo rimossi dalla tribù (non perdevano cioè il diritto di voto) o esentati dal servizio militare, come sarebbe invece accaduto se fossero stati considerati attori professionisti.

 
     
  3. La commedia e i suoi primi autori  
 

 La commedia romana sembra sostanzialmente non discostarsi dalla "commedia nuova" greca, se non che per poche innovazioni: l’eliminazione del coro (ripristinato solo successivamente dagli editori); l’introduzione dell’accompagnamento musicale, peraltro probabile retaggio della tradizione etrusca [per musica e coro vd. oltre]. Questo tipo di commedia veniva definita fabula palliata (così chiamata dal mantello che indossavano gli attori, che riproduceva l'analogo mantello greco: si trattava, quindi, di commedie d'ambientazione appunto greca). Accanto a questa, ne esisteva anche un'altra, di contenuto e ambientazione romana, detta fabula togata (dalla toga, abito nazionale italico) e/o tabernaria(dalla taberna, casa degli umili). Primi, fondamentali autori di commedie furono: Plauto, Terenzio, Titinio, Afranio, Atta.

 
     
  4. La tragedia e i suoi primi autori  
 

Il genere della tragedia, molto presto assai apprezzato dal pubblico, fu completamente ripreso dai modelli greci e definito dai romani fabula cothurnata (per le particolari calzature, i cothurni, indossate dagli attori) se di temi e ambientazione greca; mentre, se di temi ed ambientazione più specificamente romani (con soventi allusioni all'attuale clima politico), erano dette praetextae (in quanto gli attori vestivano la toga praetexta, orlata di porpora, ch'era l'abito distintivo dei magistrati). Gli unici autori di cui si abbia memoria (ma non i testi) sono Ennio, Pacuvio ed Accio. Accanto a questa produzione, che potremmo definire "aulica", si mantenne una produzione "minore", oltre ai consueti spettacoli romani: le corse dei carri, i combattimenti dei gladiatori, venationes e naumachie. Le tragedie romane, che ci sono pervenute, risalgono ad un periodo decisamente successivo, compreso tra il 30 e il 60 d.C., per lo più opera di Seneca (a cui, anzi, dobbiamo anche l'unica "pretesta" giuntaci, l' "Octavia").

 
 

tratto da: M. Bettini (cur.), Nemora. Letteratura e antropologia di Roma antica, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 2005