Pisa

7-13 aprile 1828

XX

Il risorgimento

Doppie quartine di settenari

 

 

 

 

 Credei ch'al tutto fossero

In me, sul fior degli anni,

Mancati i dolci affanni

Della mia prima età:

 I dolci affanni, i teneri

Moti del cor profondo,

Qualunque cosa al mondo

Grato il sentir ci fa.

 Quante querele e lacrime

Sparsi nel novo stato,

Quando al mio cor gelato

Prima il dolor mancò!

 Mancàr gli usati palpiti,

L'amor mi venne meno,

E irrigidito il seno

Di sospirar cessò!

 Piansi spogliata, esanime

Fatta per me la vita

La terra inaridita,

Chiusa in eterno gel;

 Deserto il dì; la tacita

Notte più sola e bruna;

Spenta per me la luna,

Spente le stelle in ciel.

 Pur di quel pianto origine

Era l'antico affetto:

Nell'intimo del petto

Ancor viveva il cor.

 Chiedea l'usate immagini

La stanca fantasia;

E la tristezza mia

Era dolore ancor.

 Fra poco in me quell'ultimo

Dolore anco fu spento,

E di più far lamento

Valor non mi restò.

 Giacqui: insensato, attonito,

Non dimandai conforto:

Quasi perduto e morto,

Il cor s'abbandonò.

 Qual fui! quanto dissimile

Da quel che tanto ardore,

Che sì beato errore

Nutrii nell'alma un dì!

 La rondinella vigile,

Alle finestre intorno

Cantando al novo giorno,

Il cor non mi ferì:

 Non all'autunno pallido

In solitaria villa,

La vespertina squilla,

Il fuggitivo Sol.

 Invan brillare il vespero

Vidi per muto calle,

Invan sonò la valle

Del flebile usignol.

 E voi, pupille tenere,

Sguardi furtivi, erranti,

Voi de' gentili amanti

Primo, immortale amor,

 Ed alla mano offertami

Candida ignuda mano,

Foste voi pure invano

Al duro mio sopor.

 D'ogni dolcezza vedovo,

Tristo; ma non turbato,

Ma placido il mio stato,

Il volto era seren.

 Desiderato il termine

Avrei del viver mio;

Ma spento era il desio

Nello spossato sen.

 Qual dell'età decrepita

L'avanzo ignudo e vile,

Io conducea l'aprile

Degli anni miei così:

 Così quegl'ineffabili

Giorni, o mio cor, traevi,

Che sì fugaci e brevi

Il cielo a noi sortì.

 Chi dalla grave, immemore

Quiete or mi ridesta?

Che virtù nova è questa,

Questa che sento in me?

 Moti soavi, immagini,

Palpiti, error beato,

Per sempre a voi negato

Questo mio cor non è?

 Siete pur voi quell'unica

Luce de' giorni miei?

Gli affetti ch'io perdei

Nella novella età?

 Se al ciel, s'ai verdi margini,

Ovunque il guardo mira,

Tutto un dolor mi spira,

Tutto un piacer mi dà.

 Meco ritorna a vivere

La piaggia, il bosco, il monte;

Parla al mio core il fonte,

Meco favella il mar.

 Chi mi ridona il piangere

Dopo cotanto obblio?

E come al guardo mio

Cangiato il mondo appar?

 Forse la speme, o povero

Mio cor, ti volse un riso?

Ahi della speme il viso

Io non vedrò mai più.

 Proprii mi diede i palpiti,

Natura, e i dolci inganni.

Sopiro in me gli affanni

L'ingenita virtù;

 Non l'annullàr: non vinsela

Il fato e la sventura;

Non con la vista impura

L'infausta verità.

 Dalle mie vaghe immagini

So ben ch'ella discorda:

So che natura è sorda,

Che miserar non sa.

 Che non del ben sollecita

Fu, ma dell'esser solo:

Purché ci serbi al duolo,

Or d'altro a lei non cal.

 So che pietà fra gli uomini

Il misero non trova;

Che lui, fuggendo, a prova

Schernisce ogni mortal.

 Che ignora il tristo secolo

Gl'ingegni e le virtudi;

Che manca ai degni studi

L'ignuda gloria ancor.

 E voi, pupille tremule,

Voi, raggio sovrumano,

So che splendete invano,

Che in voi non brilla amor.

 Nessuno ignoto ed intimo

Affetto in voi non brilla:

Non chiude una favilla

Quel bianco petto in sé.

 Anzi d'altrui le tenere

Cure suol porre in gioco;

E d'un celeste foco

Disprezzo è la mercè.

 Pur sento in me rivivere

Gl'inganni aperti e noti;

E, de' suoi proprii moti

Si maraviglia il sen.

 Da te, mio cor, quest'ultimo

Spirto, e l'ardor natio,

Ogni conforto mio

Solo da te mi vien.

 Mancano, il sento, all'anima

Alta, gentile e pura,

La sorte, la natura,

Il mondo e la beltà.

 Ma se tu vivi, o misero,

Se non concedi al fato,

Non chiamerò spietato

Chi lo spirar mi dà.