Firenze

1833 (?)

XXVII

Amore e morte

Canzone leopardiana

 

 

 

 

Muor giovane colui ch'al cielo è caro

Menandro

 

Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte

Ingenerò la sorte.

Cose quaggiù sì belle

Altre il mondo non ha, non han le stelle.

Nasce dall'uno il bene,

Nasce il piacer maggiore

Che per lo mar dell'essere si trova;

L'altra ogni gran dolore,

Ogni gran male annulla.

Bellissima fanciulla,

Dolce a veder, non quale

La si dipinge la codarda gente,

Gode il fanciullo Amore

Accompagnar sovente;

E sorvolano insiem la via mortale,

Primi conforti d'ogni saggio core.

Né cor fu mai più saggio

Che percosso d'amor, né mai più forte

Sprezzò l'infausta vita,

Né per altro signore

Come per questo a perigliar fu pronto:

Ch'ove tu porgi aita,

Amor, nasce il coraggio,

O si ridesta; e sapiente in opre,

Non in pensiero invan, siccome suole,

Divien l'umana prole.

Quando novellamente

Nasce nel cor profondo

Un amoroso affetto,

Languido e stanco insiem con esso in petto

Un desiderio di morir si sente:

Come, non so: ma tale

D'amor vero e possente è il primo effetto.

Forse gli occhi spaura

Allor questo deserto: a sé la terra

Forse il mortale inabitabil fatta

Vede omai senza quella

Nova, sola, infinita

Felicità che il suo pensier figura:

Ma per cagion di lei grave procella

Presentendo in suo cor, brama quiete,

Brama raccorsi in porto

Dinanzi al fier disio,

Che già, rugghiando, intorno intorno oscura.

Poi, quando tutto avvolge

La formidabil possa,

E fulmina nel cor l'invitta cura,

Quante volte implorata

Con desiderio intenso,

Morte, sei tu dall'affannoso amante!

Quante la sera, e quante,

Abbandonando all'alba il corpo stanco,

Sé beato chiamò s'indi giammai

Non rilevasse il fianco,

Né tornasse a veder l'amara luce!

E spesso al suon della funebre squilla,

Al canto che conduce

La gente morta al sempiterno obblio,

Con più sospiri ardenti

Dall'imo petto invidiò colui

Che tra gli spenti ad abitar sen giva.

Fin la negletta plebe,

L'uom della villa, ignaro

D'ogni virtù che da saper deriva,

Fin la donzella timidetta e schiva,

Che già di morte al nome

Sentì rizzar le chiome,

Osa alla tomba, alle funeree bende

Fermar lo sguardo di costanza pieno,

Osa ferro e veleno

Meditar lungamente,

E nell'indotta mente

La gentilezza del morir comprende.

Tanto alla morte inclina

D'amor la disciplina. Anco sovente,

A tal venuto il gran travaglio interno

Che sostener nol può forza mortale,

O cede il corpo frale

Ai terribili moti, e in questa forma

Pel fraterno poter Morte prevale;

O così sprona Amor là nel profondo,

Che da se stessi il villanello ignaro,

La tenera donzella

Con la man violenta

Pongon le membra giovanili in terra.

Ride ai lor casi il mondo,

A cui pace e vecchiezza il ciel consenta.

Ai fervidi, ai felici,

Agli animosi ingegni

L'uno o l'altro di voi conceda il fato,

Dolci signori, amici

All'umana famiglia,

Al cui poter nessun poter somiglia

Nell'immenso universo, e non l'avanza,

Se non quella del fato, altra possanza.

E tu, cui già dal cominciar degli anni

Sempre onorata invoco,

Bella Morte, pietosa

Tu sola al mondo dei terreni affanni,

Se celebrata mai

Fosti da me, s'al tuo divino stato

L'onte del volgo ingrato

Ricompensar tentai,

Non tardar più, t'inchina

A disusati preghi,

Chiudi alla luce omai

Questi occhi tristi, o dell'età reina.

Me certo troverai, qual si sia l'ora

Che tu le penne al mio pregar dispieghi,

Erta la fronte, armato,

E renitente al fato,

La man che flagellando si colora

Nel mio sangue innocente

Non ricolmar di lode,

Non benedir, com'usa

Per antica viltà l'umana gente;

Ogni vana speranza onde consola

Se coi fanciulli il mondo,

Ogni conforto stolto

Gittar da me; null'altro in alcun tempo

Sperar, se non te sola;

Solo aspettar sereno

Quel dì ch'io pieghi addormentato il volto

Nel tuo virgineo seno.