Un'infanzia malata

 

Il sole e le luci declinavano verso la loro dolcezza, allorché il figlio discese da Simposio, o forse dalle Leggi, e, senza preveder, aprì la porta di sala. Vi vide la mamma, con gli occhi arrossati dalle lacrime, tener crocchio: all'impiedi: e intorno, come una congiura che tenga finalmente la sua vittima, Peppa, Beppina, Poronga, polli, peone, la vecchia emiplegica del venerdì, la moglie nana e ingobbita dell'affossamorti, nera come una blatta, e il gatto, e la gatta tirati dal fiuto del pesce: ma fissavano il cagnolino del Poronga, lercio, che ora tremava e dava segni, il vile, d'aver paura dei due gatti, dopo aver annusato a lungo e libidinoso le scarpe di tutti e anche pisciato sotto la tavola. Ma il filo della piscia aveva poi progredito per suo conto verso il camino. E sul piatto il pesce morto, fetente. Era enorme, giallo, con gli occhi molli e cianotici dopo l'impudicizia e la nudità; con la bocca rotondo-aperta pareva gli avessero dato a suggere, per finirlo, il tubo del gas. E nel cestello i funghi dall'odor di piedi; per aria mosche e anzi alcuni mosconi, due calabroni, una o forse due vespe, un farfallone impazzito contro la specchiera: e, computò subito, stringendo i denti, un adeguato contigente di pulci. La rabbia, una rabbia infernale, non alterò tuttavia la sua faccia. Aveva una speciale capacità d'odio senza alterazioni fisiognomiche. Era, forse, un timido. Ma più frequentemente veniva ritenuto un imbecille. Si sentì mortificato, stanco. L'antica ossessione della folla: l'orrore de' compagni di scuola, dei loro piedi, della loro refezione di croconsuelo; il fetore della «ricreazione», il diavolìo sciocco; le lunghe processioni verso gli orinatoi intasati, in ordine, due a due; la imperativa maestra che diceva basta a chi la faceva troppo lunga: alcuni rimandavano dunque il saldo a un tempo migliore. Il disgusto che lo aveva tenuto fanciullo, per tutti gli anni di scuola, il disprezzo che nei mesi dopo guerra aveva rivolto alle voci dei cosiddetti uomini: per le vie di Pastrufazio s'era veduto cacciare, come fosse una belva, dalla loro carità inferocita, di uomini: di consorzio, di mille. Egli era uno.

[...]

La turpe invasione della folla… Gli zoccoli, i piedi: nella casa che avrebbe dovuto esser sua… I calcagni color fianta, i diti, divisibili per 10, con le unghie… e la piscia del cane vile, pulcioso, con occhio destro pieno di marmellata, dentro cui sguazzavano cicìk e ciciàk le piante quadrupedanti di quegli zoccoli. Un rutto enorme, inutilità gli parvero gli anni, dopo le scempiaggini di cui s' erano infarciti i suoi maggiori…

Il naso, certo, adesso valeva di più dell'anima.

Le percezioni olfattive gli avevano bruttato gli anni, gli autunni, i mesi di scuola La collettività; gli altri; il plurale maschile… L'interminabile processione verso la piscia… Dai condotti intasati di croste di croconsuelo si diversava sulle scale di beola nerastre. «Di beola, di beola», urlò dal terrazzo, verso i campi. I capimastri, gli uomini pratici, avevano imbeolato città simpliciana, la industre e laboriosa Pastrufazio.

Il Marchese padre, amorosamente, ogni mattino, gli preparava lui stesso la refezione: nel cestello scemo, ch'era la deliza aereata e purtuttavia parallelepipeda degli igienisti e dei genitori dell'epoca. Una fetta di bue lesso, detto spagnolescamente mannso, cioè creatura ammansita, stopposa come una cima di canape frusta che perda i trèfoli, con sopravi un pizzichetto di sale di cucina: sale serruchonese e pastrufaziao: un panino. Non mai un frutto né un dolce, dacché il Marchese padre era preocupatissimo d'ogni possibile indigestione del figlio, e anche soltanto immaginata. E il bottiglino dell'acqua e vino. Col turacciolo. Guai se il bimbo avesse smarrito il turacciolo. Ore di angoscia, in certi giorni tristi, per il ricupero del turacciolo: sullo smarrito sughero severità sibilante della maestra, che entrava allora con sopraccigli sollevati, in uno stato di tensione sadica, bavando internamente. La pedagogia di Pastrufazio non ammetteva repliche. Le implorazioni del bimbo riuscirono vane. Guai se il turacciolo fosse rotolato sotto l'ultimo banco dell'ultimo quartiere, dopo aver traversato leggero, leggero, tutta la classe tra l'odore e lo scàlpito degli 82 piedi. «Io sono il tuo turacciolo e tu non avrai altro turacciolo avanti di me » .[ ...]

Anche il bottiglino dell'acqua e vino, anche il turacciolo, al Signorino. Mentre molti poveri esseri vagabondavano soli, o a branchi, nei prati, laceri, allegri, con via il culo dei calzoni, senza il bottiglino, senza il turacciolo… E tiravano sassi col tirasassi, zànchete, ai passerotti, al parco. E piantano, sotto ai ponti, merde mandorlate, e sulle rovine dei fortilizi spagnoli… sgretolate come torroni secchi, imbibite come babà… Li rincorre il vigile; con quali risultati! l' Autorevole…

E, per il futuro pere: peri di spalliera, che portano, aiutando San Carlo, pere butirro. La bava delle più garrule gazze e vivaci e loquaci cornacchie di Pastrufazio, invitate a cena, si eserciterà sulla polpa burrosa delle butirro: così staranno zitte un cinque minuti, o almeno sperasi. Che polta butirrosa, le butirro sulla lingua-croconsuelo delle

vecchie cornacchie, adorna di 3 vocaboli, fra 3 denti. Il sostantivo-omnibus è un retaggio brevettato della stirpe serruchonese. Un Elisio di pere butirro era, secondo il Marchese, il futuro… L'umanità, senza dubbio, sotto i dorati raggi dell'autunno tendeva alle butirro…

Il figlio, dal terrazzo, rivide quegli anni: la gente: alberi e monti, campane arrovesciate a menare il torrone della gloria. Donde sacre onde nei timpani, come acqua lustrale secondo l'opinione poetica dell'abate Zanella; e gli parve impossibile che la sua vita fosse venuta filmandosi di un simile schiocchezzaio. Gli parve impossibile che le cariche nercissiche de' suoi generanti si fossero risolte nelle butirro, nei José, nel campanile di Lukones, quando avevano due creature, nel Serruchòn a denti di sega. «Talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di sulle mura di Pastrufazio…».

Oh! non ringalluzzitevi: si tratta del Serruchòn, beninteso. E le mura erano i bastioni con pennacchi al moderno secolo di verdi ippocastani sopra le maglie de' trasvolanti ciclisti, con pioggia di fiori bianchi nei capelli notturni delle scarmigliate… Cen, cen. E i caroselli e le magie fruste dei bastioni spagnoleschi, di carnevale, erano disagio e onta tra i soprusi della folla, nella nuvolaglia triviale dei coriandoli. Un disagio, un'angoscia, riducevano il bimbo impaurito al collasso, dopo gli sperati e poi svaniti tortelli dell'inutile San Giuseppe… Troppo cari, per i Marchesi di Lukones, impegnati nella battaglia delle butirro, i tortelli di San Giuseppe.

Il bimbo implorava da Dio la fine dell'allegrezza. Manate di farina di gesso negli occhi, se l'allegrezza doveva essere quella, la rifiutava.

Rimbambiti cavalli giravano, dondolando, a tondo, afferrati per le corna da cavalcatrici con le gambe divaricate, con sdrucite mutande, non sapeva se pizzi o strappi, pezzi di pelle certo Una musichetta nasale veniva fuori dal perno del macchinone, secoli di musica e bisognava fare onore alla tradizione musicale, come se la Miseria avesse preso il raffreddore. Più tardi negli anni quella musica celestiale gli ritornò con gocci di luna tersissime, ed era la Norma. Ma allora dalla giostra, gli pareva la musica del cenciume, del naso brodoso, della rivolta, dei torroni, dei colpi di gomito, delle frittelle, delle arachidi brustolite che precipitano il mal di pancia alle merde.

Il poema sperato con una fanciulla rosa in cima al trapezio, che invia baci, anche al bimbo, a lui, a lui, gli naufragava nell'odore dei mandorlati scadenti nella chiara d'ova mucillaginosa… beh! che schifo. [...]

Ma nulla si salvava dal lezzo, dal dialetto orribile, dalla braveria… dai coriandoli, dai gusci d'arachide e di castagne arrosto, dalle bucce di naranza, dette pelli. Mandorlati rosa, croccanti, e ragazze si inturpivano, agli occhi del bimbo, nello svanire d'ogni gentilezza…

Quella, che il bimbo pativa, non era la festa di una gente, ma il berciare d'una muta di diavoli, pazzi, sozzi, in una inutile, bestiale diavoleria… Si trattava certamente, pensò adesso di sé il figlio, di una infanzia malata. L'uomo tentò di riprendersi da quel delirio. Consentì ad aggiudicarsi un ritardo nello sviluppo, una sensitività morbosa, abnorme: decise di esser stato un ragazzo malato e di essere un deficiente. Così soltanto poteva stabilire una relazione tra sé e i suoi concittadini.

E d'altronde, ai lumi di psichiatria queste fobie del fanciullo rispetto alla pluralità dei corpi e degli impeti, sono, oggi interamente dichiarate.

 

(Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Einaudi, Torino 1970)