ITALO SVEVO: IL CONTESTO CULTURALE
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Tra la fine dell'800 e i primi del 900 si assiste in Europa alla dissoluzione delle istanze positivistico-naturalistiche, in concomitanza con il processo involutivo che coinvolge la borghesia europea, con l'affermarsi in essa di quegli aspetti imperialistici che porteranno alla prima guerra mondiale. Nessuna strategia razionalistica sembra capace di trovare un "senso" all'"universo assurdo" in cui il mondo si è trasformato: il positivismo, con la sua pretesa di istituire dei rapporti precisi di causa-effetto, di ridurre l'esistenza al dato empirico, o il naturalismo con la sua volontà di attenersi al concreto, al verosimile, al reale per come appare, non possono reggere l'impatto con l'individualismo, il superomismo, lo spiritualismo che si diffondono. Disorientato, privo di certezze, l'uomo contemporaneo cerca conforto in un pensiero che lo proietti al di là della storia, in un'arte che appaghi il suo bisogno di fuga, di evasione, di una fede qualsiasi: è il momento di Nietsche, di Bergson, del neoidealismo inglese; è il momento in cui arriva dalla Francia la parola onirica, visionaria, ispirata di Rimbaud, Verlaine, Mallarmé, o quella estetizzante, raffinata di Huysmans; è il momento in cui D'Annunzio dà sfogo alla sua vena, Fogazzaro si abbandona la suo misticismo e Pascoli coltiva la sua poetica del "fanciullino". E' in questa situazione che dobbiamo collocare l'opera di Svevo e in una realtà particolare, quella della "frontiera" tra ovest ed est Europa. La situazione di "frontiera" è Trieste. Trieste è città di lunghe e consolidate tradizioni borghesi, dove la legge che governa è quella del profitto, dell'utile economico, dove al fervore dei traffici si accompagna il naturale edonismo di chi intende guadagnarsi, insieme all'agiatezza, anche il diritto a divertirsi. Ma è anche il luogo in cui appare più evidente la crisi che investe sul finire dell'800 l'intera borghesia europea, disorientata di fronte all'emergere di nuove forze, costretta a constatare i propri fallimenti, e segnata da un interiore irreversibile decadimento. Gli elementi peculiari della "triestinità" sono almeno quattro:
Nella categoria della triestinità un caso particolare è Italo Svevo (Ettore Schmitz) , per le sue origini e per il valore della sua opera. Ebreo, di origine tedesca, con una formazione culturale germanica e italiana, è un tipico esponente di quella borghesia mitteleuropea, che è senz'altro uno degli aspetti più interessanti della storia europea di questo secolo. Impiegato, industriale, con notevole successo negli affari e del tutto sconosciuto nel mondo delle lettere, dove pubblica a proprie spese le opere che va scrivendo e che non hanno alcun successo. Solo dopo la morte, sarà conosciuto, ma non sempre capito ed amato. Le sue opere sono tutte ambientate a Trieste, una Trieste intesa anche più come un luogo dell'anima, in una fascia di piccola e media borghesia comunque percorsa da mille pregiudizi. Sue originalità nel panorama triestino di quegli anni sono:
Il nucleo centrale della sua esperienza letteraria e forse umana è il contrasto tra professione sociale e professione letteraria. Questo conflitto irrisolto è conseguenza di due realtà contemporanee che Svevo sente profondamente:
Nella concezione "filosofica" che si evidenzia nelle sue opere appaiono chiare le derivazioni ideologiche su cui si è formato:
La critica ha visto l'attività letteraria sveviana in due modi diversi:
Tutta la sua opera cioè non è altro che un viaggio dentro l'uomo, di quell'uomo in particolare che non sa e non può entrare in sintonia con quanto lo circonda. Disadattato, l'inetto sveviano appare a sé e agli altri come un "diverso", nella duplice condizione di una diversità vista come una sventura, una menomazione o come un difficile, oscuro privilegio che permette di conoscere e di vivere in più. I protagonisti delle sue opere sono "inetti", vittime cioè del proprio modo di essere, "sognatori" e il modello di vita che conducono, il modo di essere loro è la "malattia", una complessa condizione esistenziale, irresistibile vocazione interiore a non reagire agli avvenimenti, a lasciarsi trasportare dagli eventi. Svevo cioè, che pure avverte tra i primi il disagio di un'età difficile, di una stagione inquieta, anziché inseguire dei miti o inventarsi alternative, affonda piuttosto il coltello nella piaga dell'esistenza moderna, analizza l'uomo in crisi, lo inchioda ad un'immagine di sé in cui non è gradevole specchiarsi. Problematici, scomodi, i suoi personaggi sono l'antitesi di quelli che il lettore voleva incontrare, di quelli in cui amava identificarsi o che invece, al contrario, lo aiutavano a dimenticare: all'opposto del "santo" di Fogazzaro, del "superuomo" dannunziano e del "fanciullino" pascoliano, l'inetto sveviano denuncia dall'interno, impietosamente, le contraddizioni e i conflitti di ognuno, costringe a pensare, a verificarsi, a entrare in diretto confronto con se stessi e la realtà. |
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