Elio Gioanola, Regressione e rimozione nella poesia del Pascoli

 

La poesia pascoliana migliore, quella cioè di Myricae (1891), dei Poemetti (1807), dei Canti di Castelvecchio (1897), di alcuni dei Poemi conviviali (1904), appare dominata, al di là delle superficiali apparenze del sentimentalismo e del piccolo realismo campestre, da una sostanziale, per quanto spesso inconsapevole, vocazione simbolistica. Né, a proposito del simbolismo pascoliano, ci si deve limitare alla considerazione di quel molto  vago «senso del mistero» che viene rintracciato nelle poesie «cosmiche», e nemmeno all’operazione allegorica spesso adottata dal poeta per significare attraverso figure particolari («La picozza» per esempio o «Il libro») alcuni concetti esistenziali o di poetica. Il simbolismo pascoliano che veramente interessa è quello di tipo onirico che introduce direttamente agli strati psichici inconsci e permette un discorso apertamente antinaturalistico, malgrado le prime apparenze di una poesia che, proprio nelle raccolte citate, è gremita di figure direttamente attinte ad un preciso ambiente campestre e contadino. Occorre anzi aggiungere che la natura del simbolismo pascoliano è strettamente psicologica, e questo mentre tutte le apparenze farebbero pensare ad un naturalismo appena velato di intonazioni sentimentali. Il fatto è che la poesia pascoliana rappresenta un caso forse unico di compromesso tra spinte inconsce fortissime ed ineliminabili ed una censura altrettanto rigorosa, anche se, forse, del tutto inconsapevole, per cui il risultato è quello di una presenza costante di elementi «innocentemente» realistici ma innescati al di sotto da cariche molto robuste di significazioni simboliche. Esattamente come avviene nei sogni di persone dotate di forte autodominio moralistico, o nelle manifestazioni di soggetti nevrotici dominati da un super-io intransigente, quando il materiale degli impulsi istintuali inconsci è costretto a manifestarsi in forme apparentemente innocenti, capaci di sfuggire alla censura. E per il poeta Pascoli la censura è costituita dal suo abito di letterato all'italiana, dall'ossequio carducciano e classicista, al provincialismo acuto di tutta la nostra cultura particolarmente in quel tempo: oltre che, sul piano dell’esistenza privata, da una chiara situazione nevrotica faticosamente sublimata in dedizione al nido familiare e al lavoro letterario. A differenza di un Rimbaud, che volutamente si addentra sul terreno dell'inconscio alla ricerca di terre poeticamente inesplorate, il Pascoli seppellisce le pulsioni profonde sotto cumuli di letterarietà, di idillismo campestre, di sentimentalità: ma proprio per questo sforzo di rimozione continua il suo simbolismo risulta tanto più profondo e significativo e le sue figure, oltre le apparenze naturalistiche, si offrono come sintomi di una condizione psicologica angosciatamente moderna.

Dunque, per il Pascoli, simbolismo in senso stretto, quasi psicanalitico: nella sua poesia ricorre una simbologia costante, facilmente rintracciabile in alcuni temi continuamente ritornanti e spiegabile, almeno fino ad un certo punto (non crediamo affatto alla «spiegabilità» della poesia in termini «scientifici», sociologici o psicologici), col riferimento alle ossessioni: fobie, angosce interiori del poeta. In  tale direzione, la figura simbolica più ricorrente appare quella del «nido», sia nella forma propria e specifica della dimora degli uccelli, sia in quella trasposta della «casa», del «focolare» della «culla», dell'«orto», del «muro», della «siepe e così via.

La poesia pascoliana è piena di nidi e di uccelli, oltre che di erbe piante e fiori, e sappiamo anche quanto il poeta si facesse scrupolo di risultare un competente conoscitore della fauna e della flora di cui tanto abbondantemente si serviva: c'è addirittura in lui uno scrupolo positivistico di esatta informazione e di completezza. Eppure tali figure così vistosamente naturalistiche sono i veicoli normali di significazioni e allusioni inconsce, a cominciare appunto dalla figura del nido, che appare al centro di questa costellazione simbolica. Il nido, intanto, è sempre presentato come un luogo di caldo conforto, di sicurezza, di rifugio, di protezione; magari è «rozzo di fuori, radiche e stecchi», ma dentro, pieno com'è di muschio e lanugine, è tiepido e sicuro. In quel componimento quasi programmatico che è il X Agosto è offerto un esatto parallelo tra il nido delle rondini e la famiglia del poeta, quello privato della madre che portava il cibo, questa privato del padre. Il nido è proprio il luogo della famiglia, unita e solidale contro i pericoli esterni, dove il padre adempie il ruolo di colui che procura il cibo, e la madre quello della custode trepida e vigilante. Nella forma più originaria, il nido si presenta nell'immagine della culla, in cui si realizza in pienezza il rapporto di assoluto conforto e protezione madre-figlio, in un limbo di dimenticanza del mondo e dei suoi pericoli e pene, nel calore di una dipendenza del tutto appagante. Al limite, il nido è il grembo materno, il rapporto per eccellenza viscerale, ciò che sta prima della vita e prima della morte, in quella condizione limbica in cui il mondo è completamente abolito e di conseguenza la paura non esiste.

Il nido è insomma figura dell'«incapacità di vivere». Il Pascoli attraverso questa immagine esprime la sua paura del mondo, della vita e degli uomini: non per nulla quando compare il simbolo,del nido, esso è sempre accompagnato dal motivo contrastante del pericolo (il temporale, «Il lampo», «Il tuono», la notte nera, ecc.) in una tipica contrapposizione dentro-fuori, dove da un lato si accumulano gli elementi del conforto, del calore, della protezione, dall'altra quelli della minaccia, del terrore, dell'angoscia. Il riferimento psicologico evocato da tale immagine è quello della «regressione all'infanzia», nel tentativo di recuperare in fantasia uno stato di sicurezza e di felicità. Il nido significa la sicurezza del cibo (padre) e degli affetti (madre e fratelli), mentre nella vita adulta il cibo bisogna procurarselo, con tutta la fatica, il rischio e il difficile contatto con gli uomini che la necessità comporta; e bisogna procurarsi anche l'affetto, attraverso l'amore per una donna e la formazione di una nuova famiglia, assumendosi la responsabilità di creare un sistema di rapporti non vincolati dalle affinità viscerali, di sangue, che caratterizzano la famiglia d'origine. Il nido è per eccellenza il luogo della famiglia originaria, prima di ogni responsabilità personale e di ogni traumatizzante affrontamento esistenziale; bozzolo aureo della beatissima infanzia ignara di frustrazioni. {Inutile dire quanto le vicende della vita pascoliana abbiano corroborato tale visione e quanto il poeta, nella sua condotta, abbia scontato le gravi carenze psicologiche immaginativamente sublimate nella poesia).

Un altro elemento fondamentale che rientra nella simbologia del nido è quello costituito dalla presenza dei «morti», i cari morti familiari, madre padre fratelli, che continuamente ritornano a confortare, ammonire, vigilare, redarguire anche il figlio rimasto a protezione di ciò che avanza del nido originario. I «morti» pascoliani hanno la fondamentale caratteristica di appartenere a una specie di limbo in cui sono contemporaneamente presenti le caratteristiche della vita e della morte, e comunque di possedere, benché in forma imperfetta, la possibilità di continuare a convivere e a comunicare coi vivi (si pensi a La voce). Tra i rimasti e quelli che se ne sono andati il legame affettivo non si è mai allentato ed i loro rapporti non hanno mai conosciuto interruzioni e interferenze dall'esterno: anzi i morti sono diventati i garanti in eterno di tale continuità. In questa prospettiva, anche la frequente immagine del cimitero è una variante del simbolo centrale del nido: cinto dal muro, dalla siepe, rallegrato dalla presenza degli uccelli e delle erbe fiorite, anche il cimitero rappresenta un ambito chiuso, protetto, esclusivo, all'interno del quale si mantiene viva quella circolazione affettiva che dominava nel nido originario: vivi e morti sono ancora visceralmente uniti, in solidale comunione d'interessi e affetti.

Anche il simbolo frequentissimo della «siepe» è riconducibile alla matrice fondamentale del nido: la siepe, irta di spine al di fuori e ricca di fiori all'interno, recinge il podere e assicura l'autonomia, facendosi garante di un possesso tanto povero quanto sicuro e confortato. Tale simbolo prende grande rilievo nel passaggio dalle Myricae ai Poemetti, che costituiscono un vero e proprio romanzo georgico, con personaggi ricorrenti e una diligente ricognizione delle «opere e giorni» della vita campestre. E si tratta proprio, in un evidente allargamento del «nido» a tutta la realtà della campagna, del più organico tentativo pascoliano di rimozione del dolore, dell'angoscia e della morte nel ciclo chiuso e ritornante delle stagioni e della vita rituale dei contadini. La siepe è tanto quella reale che delimita la proprietà del contadino, assicurandogli gli indispensabili alimenti, pane olio e vino, quanto la grande siepe metaforica che isola il mondo della campagna nel suo complesso da ogni rapporto con l'esterno, facendone una rusticana edizione dell'eden, dove nulla manca alla sicurezza della vita perché la terra-madre, sempre feconda e fedele nei suoi ricorsi stagionali senza difetto, provvede a garantire l'indispensabile, assicurando nel contempo semplicità di costumi, sanità di affetti e custodia contro i traumi dell’affannata vita cittadina. Naturalmente l’allargamento metaforico della «siepe» comporta la scomparsa di quell'altro termine di confronto, costituito dalle figure dell'angoscia del pericolo della morte, che crea la tensione drammatica delle migliori composizioni pascoliane. La conseguenza diretta è il dilagare dell'idillismo, con l'assegnazione alla campagna di una funzione esemplare di mondo della vita perfetta, dove tutto si compie in un ciclo rituale di accadimenti sicuri e  tranquillizzanti. L 'esorcizzazione massima dell'angoscia esistenziale finisce per ricreare gli elementi di una falsa e psicologicamente molto improbabile arcadia.

Ma la simbologia del nido non si esaurisce certo nell'ambito di queste figure: tutto ciò che evoca la figura del cerchio rientra in tale prospettiva, l'anello come la corolla del fiore, gli occhi come il muro del giardino, la «nebbia di latte» come le costellazioni del cielo. È facile notare, per esempio, come la nebbia rappresenti sempre una specie di opaca recinzione attorno all’hic et nunc del poeta, che a lei chiede un limite non solo spazio-temporale ma addirittura fantastico, in modo da non poter nemmeno immaginare cosa esiste al di là, o addirittura se il di là esiste. E qui può diventare esemplare il confronto con la stessa figura della nebbia nella poesia del Carducci (magari nel sintomatico quadretto di San Martino): in tale poesia la nebbia è chiaramente un fenomeno meteorologico, con tutte le connotazioni naturalistiche che gli sono proprie, mentre nel Pascoli la funzione simbolica è dominante e la nebbia obbedisce assai più alle regole imposte da una turbata psicologia che a quelle regolanti le perturbazioni atmosferiche.

Quanto al cielo e alle stelle, senza entrare nel merito delle questioni relative alla «poesia cosmica» pascoliana, si può subito indicare il frequente accostamento a cui il poeta sottopone le immagini che si riferiscono alla dimora degli uomini e quelle di carattere cosmologico. In questi casi il macrocosmo è la proiezione immaginativa del microcosmo, un modo per inserire fuori delle dimensioni di spazio e tempo quel luogo per eccellenza limbico che è il nido, col ricorso a una caratteristica diminutio che fa degli immensi spazi del cielo un regno favoloso e domestico, praticabile da un'immaginazione di carattere infantile. Ma anche quando le metafore cosmiche assumono il tono dello spavento di fronte alle immensità dell'universo, la nota dominante non è mai quella della contemplazione sgomenta della piccolezza umana di fronte agli spazi, con tutto il corredo delle domande esistenziali di fondo (al di fuori del Leopardi la poesia italiana non conosce altri poeti veramente «cosmici»), bensì quella di uno smarrimento e di una perdutezza provenienti dalla fantasia di una caduta senza fine, fuori ormai di ogni vincolo naturale, in una continuità di sprofondamento che è garanzia di smemoratezza, di infinità, di mancanza insomma di ogni rottura traumatizzante, prima fra tutte quella della morte. Siamo di fronte a vere e proprie figurazioni oniriche, quelle create dall'impressione di caduta in chissà quali abissi, mentre un’esperienza di miracolosa levità accompagna i salti e i rimbalzi in spazi indeterminati. Anche qui dunque si tratta di «fantasie regressive», nella direzione di una fuga dalle responsabilità e dalle paure della vita reale, alla ricerca di un luogo fuori dello spazio e di un tempo fuori del tempo che assicurino le fantastiche consolazioni della beata infanzia.

Ma il simbolismo pascoliano non conosce soltanto queste forme riconducibili ad un principio generale di regressione: ci sono anche i simboli diretti del rimosso, che trova indiretta via di espressione nelle immagini delle «campane», degli «uccelli», dei «fiori».

Il primo di questi simboli è molto sfruttato anche nella direzione regressiva, nell’intento di ottenere un'atmosfera irreale, di sogno o di fantasia, nella quale immergersi per sprofondare nello smemoramento e nell'oblio della realtà. Le campane però possiedono anche connotazioni di inquietudine e turbamento: mentre da un lato richiamano l’infanzia con le sue dolcezze, spesso intervengono a turbare la serenità faticosamente ottenuta, provocando sussulti improntati alla scoperta del dolore e all'intuizione della morte. Il suono grave delle campane, che coglie all’improvviso soprattutto nei risvegli inquieti dell’alba, provoca un soprassalto del cuore che coincide esattamente coi soprassalti angosciosi provenienti dalle regioni più profonde della coscienza, che aprono spiragli fulminei sull'abisso di nulla e di morte, di paura e di istinto che giace oltre le soglie della normale consapevolezza.

Gli uccelli costituiscono forse la tematica più diffusa della peosia pascoliana e popolano assiduamente la campagna di Myricae, dei Poemetti, dei Canti di Castelvecchio. La loro presenza però si afferma nell’assenza accentuata di altre specie animali e nel contempo il catalogo ornitologico non è molto ampio e privilegia soprattutto le rondini e gli uccelli notturni: cosa davvero singolare se ci si muovesse in un universo naturalistico, ma in un regime simbolistico il fenomeno è normale, dal momento che i simboli sono ricorrenti  e si fissano a determinate figure particolarmente atte a veicolare significazioni privilegiate. Anche se può sembrare molto strano, in genere il simbolo degli uccelli appare staccato da quello del nido. Gli uccelli infatti (se non siano i «farlotti» ancora implumi) non abitano il nido ma una regione superiore del cielo, dalla quale, spesso invisibili, inviano la loro voce: ed è una voce spesso di tono quasi oracolare, misteriosa, alludente a un mondo fuori delle consuete dimensioni di spazio e tempo, comunque «diversa»: tanto che il poeta si studia, a forza di onomatopee, di imitarla, non certo per esigenze realistiche, bensì in obbedienza ad una specie di rituale iniziatico che permetta di entrare nelle dimensioni chiuse e riservate di un linguaggio di misteriosa sapienza.

Ma la connotazione più profonda del simbolo degli uccelli (soprattutto la civetta, il chiù, le rondini dell' alba, il pipistrello) è costituita da significazioni di morte. Certi notturni, certe livide albe, sono l'ambiente d'elezione di fantasie angosciate, dove il grido degli uccelli segna il punto culminante di uno spavento tanto profondo quanto immotivato: e questo perché tale grido è la trasposizione di un urlo interiore, onerato dall'improvvisa intuizione dell'ineludibile presenza della morte. E l'atmosfera, sempre di tipo onirico: le insurrezioni angosciate sono di chiara natura inconscia, s'impongono al di là di ogni tentativo di esorcizzazione e di riferimento alle normali dimensioni dell'esistenza, impregnando di sé le figure del mondo fino a far loro smarrire una parte della loro riconoscibilità realistica. Questi uccelli notturni hanno la consistenza di fantasmi, la loro presenza è un'«orma», un'«ombra», il loro volo un «soffio molle»: creature dell'immaginato, portano con sé tutta la labilità realistica delle loro origini ma anche tutta la carica dell'originario sgomento esistenziale.

E finalmente i fiori, i simboli più diretti delle fondamentali pulsioni istintive, Eros e Thanatos. I fiori del Pascoli o sono fiori di morte o sono fiori di sesso, con tutte le velature dell'inconsapevolezza nel secondo caso. Intanto, il collegamento tra i fiori e i morti è quasi fisso: nel paesaggio pascoliano i fiori non formano mai uno spettacolo di bellezza, di trionfo della natura, ma si fanno annunciatori di morte, di solitudine e servono soprattutto per adornare le tombe. Pascoli ama i fiori fuori stagione, che incredibilmente fioriscono nel tempo meno indicato, testimoniando una fragile apparenza di vita nel deserto della natura morta; così come ama i fiori che germinano e quasi traggono alimento dalla terra che ricopre i morti, simbolo del rapporto speculare tra vita e morte.

Ma i fiori diventano anche, nei momenti di più turbata sensibilità, simboli di una sessualità ambigua e tormentata. La poesia del Pascoli, si sa, non conosce la donna e l'amore e d'altra parte tutta la simbologia del nido dimostra, in negativo, l'assenza di ogni necessaria apertura d'affetto e di sensibilità per le persone fuori dello stretto cerchio familiare. In una situazione sentimentale così bloccata dove tutti gli affetti sono costretti a ripiegarsi su se stessi nell’incondizionata dedizione alla famiglia d'origine, le esigenze amorose subiscono una violenta censura, perché rappresentano una specie di tradimento nei confronti del nido, indirizzate come sono verso l’esterno, verso la donna, l'estranea che è al di fuori dei vincoli di sangue. L’istinto sessuale, così bloccato, resta a un livello infantile, di curiosità morbosa e inappagata, di desiderio pieno di rimorsi, di tortuosa immaginazione. L'amore appare come qualcosa di pauroso, quasi un atto di violenza che sgomenta e affascina nello stesso tempo («Ella doveva ora vegliar nel letto / sola con lui! senza sperare aiuto!»). Il simbolo del fiore veicola appunto tutto questo complesso di istinti e sentimenti: ad un livello altamente inconsapevole e quindi con tanto maggiore efficacia e potenza. Sempre, all’incontro con evocazioni più o meno dirette e consapevoli di materia richiamante all'amore (come nell'«epitalamio» famoso del Gelsomino notturno), la metafora del fiore compare a velare e svelare nel contempo, come ben si addice ai simboli, il turbamento istintuale («E s'aprono i fiori notturni; ...Dai calici aperti si esala / l'odore di fragole rosse... si chiudono i petali un poco gualciti:..»).

Ed il fiore del sesso è anche «fior di morte», come esemplarmente appare in quell’altro capolavoro che è Digitale purpurea. Le due pulsioni istintuali di fondo tendono figurativamente a coincidere, secondo un modello che contiene in embrione una delle più ricche e drammatiche intuizioni dell’arte contemporanea. E forse il senso della morte costituisce il senso finale di tutta l'esperienza poetica pascoliana, trovando proprio in ciò la garanzia di un'appartenenza sostanziale alla storia della letteratura novecentesca. Tutta la simbologia presente in questa esperienza poetica è dominata da un senso della fuga, della regressione, della difesa contro i pericoli della vita e degli uomini: il nido, gli uccelli, i cieli e le stelle, le campane, i fiori rappresentano in realtà un tentativo di fuga più radicale, di rifugio non assoluto perché il vero nemico non sono gli uomini e il male che possono fare, ma è la morte. La simbologia pascoliana può essere intesa anche come una continua esorcizzazione della morte, con tutta la carica di ambivalenza che i simboli contengono perché, nel momento in cui si configurano come sistemi di difesa contro l'angoscia esistenziale e la paura della morte, essi rivelano la natura del nemico che combattono, e la morte trapela continuamente come una presenza veramente elusa.

Né evidenziando questo termine della morte, si può dimenticare il valore che il tema assume in chiave di moderna intuizione psicologica ed esistenziale; è chiaro che il tema della morte è forse il più diffuso nella poesia di tutti i tempi, ma per tutta l'età classica e fino all’Ottocento, esso si presenta in forma d'alternativa rispetto al termine opposto della vita, in una contrapposizione assoluta che fa dell'uno la negazione dell'altro, per lo più nella coppia metaforica buio-luce che è presente ancora nel Carducci. Col Pascoli, lungo la strada della scomparsa delle opposizioni razionalistiche che da un punto di vista gnoseologico abbiamo individuato nell'abolizione di confini tra Io e Mondo, la morte cessa di essere l'alternativa drammatica della vita, ma penetra nella stessa compagine vitale costituendo l'angoscioso significato, o non-significato, del vivere umano. Il Pascoli è già chiaramente, ed è questa la garanzia della sua appartenenza all'area della più viva sensibilità contemporanea, lungo la strada che sarà approfondita dalla psicologia e dalla filosofia del Novecento, per la quale la morte non è il termine dell'esistenza ma «un modo d'essere che l'uomo assume da quando c'è» (Heidegger).

Sul piano dello stile, la poesia pascoliana non presenta una decisa rottura coi moduli tradizionali, mantenendosi, soprattutto a livello metrico, nell'ambito delle misure canoniche. Privo com'era di un'adeguata poetica, che sostenesse con consapevolezza teorica e con il conforto di concomitanti esperienze di rinnovamento tecnico, le intuizioni ispirative, il Pascoli fu costretto a inventarsi un'originalità stilistica all'interno degli strumenti apprestatigli dalla tradizione lirica italiana. Egli non arriva al verso senza misura fissa, a quel verso libero che segnò, anche polemicamente, la svolta stilistica più appariscente della nuova poesia. Mentre però, da un lato, c'è la conservazione scrupolosa del metro tradizionale, dall'altro si assiste alla dissoluzione ritmica di tali metri. Pascoli anzi, con un'ansia di sperimentazione che già di per sé testimonia do un’irrequietezza significativa, ripropose l’uso di tutti i metri e le strofe proposte dalla storia della poesia, dal trisillabo, lungo la scala di tutte le misure sillabiche; dal madrigale popolaresco, alla coltissima ode saffica, alla terzina dantesca. Ma all’interno della tradizione i rinnovamenti operati sono decisivi, tanto da rendere irriconoscibile il metro classico per l'assoluta arbitrarietà delle scansioni ritmiche, che normalmente non coincidono più con la lunghezza del verso. La caratteristica più evidente è proprio fornita dalle violente cesure all’interno dei versi, che ne alterano la normale compattezza accentuativa, creando unità ritmiche brevissime e nettamente scandite E a ciò concorre alla punteggiatura quasi ossessiva, l’uso dei punti di sospensione, le esclamazioni interposte, il frequentissimo dialogato.

Le novità più grosse, dense di conseguenze per tutta la poesia del Novecento, sono proprio piano sul sintattico, com'è naturale trattandosi di una poesia di qualità simbolistica, per la quale il rappoto analogico viene a sostituire quello logico. La tecnica analogica, la paratassi accentuata, le intermittenze del significato sono la risposta, sul piano delle strutture sintattiche, al fondamentale antinaturalistico pascoliano. Con la crisi della costruzione logica, e la conseguente riduzione del gioco sintattico e grammaticale, in un linguaggio ridotto a frasi brevissime (e quindi con pochi verbi) e pochissima costruzione, l'elemento su cui è costretto a puntare il poeta è il lessico, cioè aggettivi e sostantivi In questi limiti, per ottenere effetti nuovi e inediti, il Pascoli ricorre con estrema frequenza alla junctura sostantivo-aggettivo, facendole carico di grandissime responsabilità significative, in un gioco di opposizioni per cui i due termini sono quasi sempre semanticamente poco affini, se non addirittura contrastanti (per cui si assiste al dominio della metonimia, della sinestesia, dell'ossimoro). Nell'affidamento al lessico di tante responsabilità che la tecnica analogica crea, si comprende il ricorso al gergo e ai linguaggi tecnici che, anziché testimoniare di una curiosità realistica che non esiste affatto, adempiono alla funzione di rallentamento semantico con la loro difficoltà di comprensione, nell'intenzione di costituire un linguaggio chiuso e non comunicativo e nel contempo di rilevarsi linguisticamente in una specie di indipendenza contestuale che veicoli la carica allusiva e talvolta ossessiva.

Col Pascoli insomma siamo sulla strada dell'«oggetto simbolico »: la rottura sintattica ed il rilievo dei lessemi isolati ha insegnato alla poesia contemporanea a guardare alla realtà come ad un insieme discontinuo di oggetti inquietanti. Mentre infatti le «piccole cose» pascoliane possono sembrare elementi di un microcosmo ben integrato, solidale e confortante (e spesso intenzionalmente lo sono), in realtà si rivelano oggetti assoluti, che non assumono significato dal contesto in cui sono inseriti ma dalla carica simbolica che contengono. Pascoli è veramente all'origine di quella poetica dell'oggetto che, spogliata dei connettivi sentimentalistici e moralistici, troverà sviluppo nei crepuscolari e culminerà nella spoglia oggettualità montaliana. Pur rimanendo all'interno di un preciso ambiente di cose riscontrabili nella realtà e adottando i metri della tradizione, Pascoli ha operato una specie di svuotamento dall'interno di quei contenuti e di quelle forme. Vedendo le cose o troppo da vicino o troppo da lontano (il microcosmo e il macrocosmo) il poeta ha deformato il reale secondo le proprie misure psicologiche, intridendo ogni aspetto naturalistico di significazioni personalissime e spesso inconsce.

 (Storia letteraria del Novecento in Italia, Torino, SEI, 1975, pp. 10 ss.)