SVEVO E LA PSICANALISI

"Freud è un grand'uomo più per i romanzieri che per gli ammalati" (I. Svevo)

 

Vengono qui presentati due testimonianze indicative del rapporto critico che Svevo aveva con la psicanalisi, da lui concepita come metodo di interpretazione dell'essere umano più che come metodo terapeutico.

La prima è una lettera all'amico Valerio Jahier in cui, alla richiesta di un suo parere circa l'opportunità di iniziare una cura psicanalitica per le sue nevrosi, Svevo gli consiglia  di provare piuttosto con l'autosuggestione.

La seconda, tratta da Soggiorno londinese, conferma come Svevo si considerasse un cultore di psicanalisi "eretico".

Infine potete leggere un brano di Elio Gionaola, nel quale il critico individua nel rapporto tra Zeno e il dottor S. il rapporto di Svevo con la psicanalisi. La Coscienza non è, come si è spesso affermato, "il romanzo di una psicanalisi", visto che il dottor S. non osserva nessuna delle regole basilari del trattamento psicanalitico. La confessione scritta che il dottor S. impone al paziente Zeno non è uno strumento per far emergere l'inconscio, ma uno strumento della coscienza per erigere una barriera che impedisca questo emergere. E ciò per il fatto che il controllo razionale che si esercita quando si scrive è proprio l'opposto delle libere associazioni del metodo freudiano: si tratta di una forma di reticenza, così come il dottor S. è una pura proiezione dell'odio dell'eroe che lo trasforma in macchietta. Le resistenze di Zeno esprimono le resistenze alla psicanalisi dello stesso Svevo, il quale dice che la malattia va protetta dalla guarigione perché è fonte di sublimazione artistica: se mancasse, verrebbero a mancare i materiali per scrivere. Paradossalmente, però, proprio l'assenza dell'autentica psicanalisi, consente un'analisi psicanalitica del romanzo, a partire da quelle resistenze così eloquenti.

 

Villa Veneziani, Trieste 10, 27 dicembre 1927

Egregio Signore, non vorrei poi averle dato un consiglio che potrebbe attenuare la speranza ch’Ella ripone nella cura che vuole intraprendere. Dio me ne guardi. Certo è ch’io non posso mentire e debbo confermarle che in un caso trattato dal Freud in persona non si ebbe alcun risultato. Per esattezza debbo aggiungere che il Freud stesso, dopo anni di cure implicanti gravi spese, congedò il paziente dichiarandolo inguaribile. Anzi io ammiro il Freud, ma quel verdetto dopo tanta vita perduta mi lasciò un’impressione disgustosa. Non voglio però assumere una responsabilità (conoscendo se stesso che somiglia a me Ella non ne sarà sorpreso) ma però non so abbandonarla senz’assumere (per le stesse ragioni Ella non ne sarà sorpreso): Perché non prova la cura dell’autosuggestione con qualche dottore della scuola di Nancy? Ella probabilmente l’avrà conosciuta per ridere. Io non ne rido. E provarla non costerebbe che la perdita di pochi giorni.

Letterariamente Freud è certo più interessante. Magari avessi fatto io una cura con lui. Il mio romanzo sarebbe risultato più intero.

E perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all’umanità quello ch’essa ha di meglio? Io credo sicuramente che il vero successo che mi ha dato la pace è consistito in questa convinzione. Noi siamo una vivente protesta contro la ridicola concezione del superuomo come ci è stata gabellata (soprattutto a noi italiani). Io rileggo la Sua lettera come lessi molte volte le precedenti. Ma rispondendo alle precedenti credevo davvero di parlare di letteratura. Invece da questa Sua ultima risulta proprio un’ansiosa speranza di guarigione. E questa deve esserci; è parte della nostra vita. Ed anche la speranza di ottenerla deve esserci. Sola la meta è oscura.

Ma intanto -con qualche dolore- spesso ci avviene di ridere dei sani. Il primo che seppe di noi è anteriore al Nietzsche: Schopenhauer, e considerò il contemplatore come un prodotto della natura, finito quanto il lottatore. Non c’è cura che valga. Se c’è differenza allora la cosa è differente: Ma se questa può scomparire per un successo (p. e. la scoperta d’essere l’uomo più umano che sia stato creato) allora si tratta proprio di quel cigno della novella di Andersen che si credeva un’anitra male riuscita perché era stato covato da un’anitra. Che guarigione quando arrivò tra i cigni!

Mi perdoni questa sfuriata in atteggiamento da superuomo. Ho paura di essere veramente guastato (guarito?) dal successo.

Ma provi l’autosuggestione. Non bisogna riderne perché è tanto semplice. Semplice è anche la guarigione cui Ella ha da arrivare. Non Le cambieranno l’intimo Suo «io». E non disperi perciò. Io dispererei se vi riuscissero.

Auguri per l’anno novello a Lei e alla gentile Sua compagna degna di lei poiché per leggere Senilità seppe sopportare l’aiuto del vocabolario.

Una stretta di mano dal Suo devotissimo

Italo Svevo

 

Ma c’è la scienza per aiutare a studiare se stesso. Precisiamo anche subito: la psicanalisi. Non temete che io ve ne parli troppo. Ve ne dico solo per avvertirvi che io con la psicanalisi non c’entro e ne ve darò la prova. Lessi dei libri di Freud nel 1908 se non sbaglio. Ora si dice che Senilità e La Coscienza di Zeno le abbia scritte sotto la sua influenza. Per Senilità m’è facile di rispondere. Io pubblicai Senilità nel 1898 ed allora Freud non esisteva si chiamava Charcot. In quanto alla Coscienza io per lungo tempo credetti di doverla a Freud ma pare mi sia ingannato. Adagio: Vi sono due o tre idee nel romanzo che sono addirittura prese di peso dal Freud. L'uomo che per non assistere al funerale di colui che diceva suo amico e ch'era in realtà suo nemico si sbaglia di funerale è freudiana con un coraggio di cui mi vanto. L'altro che sogna di avvenimenti lontani e nel sogno li altera come avrebbe voluto fossero stati è freudiano in modo come saprebbe fare chiunque conosca Freud. […]

Tuttavia io credetti per qualche tempo di aver fatto opera di psicanalista. Ora debbo dire che quando pubblicai il mio libro di cui - come tutti che pubblicano - m'ero atteso il successo, mi trovai circondato da un silenzio sepolcrale. Oggi, parlandone so ridere, e avrei saputo riderne anche allora fossi stato più giovine. Invece ne soffersi tanto che creai l'assioma: La letteratura non fa per i vecchi. Un uomo pratico d'insuccessi come sono io, non sapeva sopportare questo perché gli insidiava l'appetito e il sonno. In quei giorni capita da me l'unico medico psicanalista di Trieste e mio ottimo amico il Dr. Weiss e, inquieto, guardandomi negli occhi, domanda se il medico psicanalista di Trieste di cui m'ero burlato nel mio romanzo fosse lui. Risultò subito che non poteva essere lui, perché durante la guerra egli la psicanalisi a Trieste non l'aveva praticata. Rasserenato accettò il mio libro con tanto di dedica, promise di studiarlo e di farne una relazione in una rivista psicanalitica di Vienna. Per qualche giorno mangiai e dormii meglio. Ero vicino al successo perché la mia opera sarebbe stata discussa in una rivista mondiale. Invece quando lo rividi il dr. Weiss mi disse che non poteva parlare del mio libro perché con la psicanalisi non aveva nulla a che vedere. In allora mi dolse perché sarebbe stato un bel successo se il Freud m'avesse telegrafato: «Grazie di aver introdotto nell'estetica italiana la psicanalisi». Io avrei mandato il dispaccio al Dr. Ry del Corriere della Sera e sarei stato fatto. Ora non mi duole più. Noi romanzieri usiamo baloccarci con grandi filosofie e non siamo certo atti a chiarirle: Le falsifichiamo ma le umanizziamo. [...]

Questo rapporto intimo fra filosofo e artista, rapporto che somiglia al matrimonio legale perché non s'intendono fra di loro proprio come il marito e la moglie e tuttavia come il marito e la moglie producono dei bellissimi figlioli conquista all'artista un rinnovamento o almeno gli dà il calore e il sentimento della cosa nuova come avverrebbe se fosse possibile di mutare una parte del vocabolario e darci delle parole nuove non ammuffite dalla loro antichità e dal lungo uso.

Ma quale scrittore potrebbe rinunziare di pensar almeno la psicanalisi? Io la conobbi nel 1910. (…)
Lessi qualche cosa del Freud con fatica e piena antipatia. Non lo si crederebbe ma io amo dagli altri scrittori una lingua pura ed uno stile chiaro e ornato. Secondo me il Freud, meno nelle sue celebri prelezioni che conobbi appena nel '16, è un po' esitante, contorto, preciso con fatica. Però ne ripresi sempre a tratti la lettura continuamente sospesa per vera antipatia. Bisogna anche ricordare che vivevo in Austria, la sede del Freud. Le cure del Freud si moltiplicavano e alcune con risultati meravigliosi. A un dato punto io mi trovai nella testa la teoria del Freud (…). Come cura a me non importava. Io ero sano, o almeno amavo talmente la mia malatia (se c'è) da preservarmela con intero spirito di autodifesa. Anzi la mia antipatia per lo stile del Freud fu interpretata da un Freudiano cui mi confidai come un colpo di denti dato dall'animale primitivo che c'è anche in me per proteggere la propria malattia.
Ma la psicanalisi non m'abbandonò più."

 

ELIO GIOANOLA, Zeno e il dottor S., Svevo e la psicanalisi

 

C'è proprio da credere che chi pensa alla «guarigione» sia caduto in pieno nella rete tesa da Zeno per ingannare tutti coloro che vorrebbero privarlo dei vantaggi della malattia: come dice splendidamente Lavagetto, «il resoconto che (Zeno) passa allo psicanalista è un modo per collocare la malattia al sicuro e la salute sotto cauzione». La disanima che questo critico fa della presupposta analisi di Zeno dimostra ineccepibilmente come essa non osservi nemmeno una delle regole analitiche presenti in ogni vero trattamento: siamo, sia detto ad ulteriore rinforzo delle osservazioni di Lavagetto, in piena «psicanalisi selvaggia», secondo la precisa definizione di Freud che in proposito dice: «È un concetto da lungo tempo superato e derivante da apparenze superficiali, quello secondo il quale l'ammalato soffrirebbe per una specie di insipienza, per cui, se si elimina questa insipienza fornendogli informazioni egli dovrebbe guarire […] Ma tali misure hanno sui sintomi della malattia la stesa influenza che la distribuzione di liste di vivande in tempo di carestia può avere la fame». Si ricorderà quello che dice Zeno: «Ero guarito e non volevo accorgermene! Era una vera cecità questa: avevo appreso che avevo desiderato di portar via la moglie -mia madre! -a mio padre e non mi sentivo guarito? Inaudita ostinazione la mia»: non c'è da stupirsi che il dottor Weiss nutrisse forti perplessità sulla natura psicanalitica del romanzo imbattendosi in affermazioni di questo genere. Il fatto è che Zeno-Svevo si comporta col dottor S. esattamente come quella signora isterica che interrogata da un’amica perché non aveva ancora pensato di consultare il dottor Freud, rispose: «Perché dovrei farlo? So già quello che mi chiederebbe: "Le è già venuta l'idea di avere rapporti sessuali con Suo padre?"»; e Freud conclude: «Ritengo superfluo assicurare espressamente che non ho mai avuto l'abitudine, né allora né oggi, di formulare domande simili. Ma l'attenzione è richiamata sul fatto che gran parte di quel che i pazienti riferiscono come espressioni o azioni del medico, può essere considerata una rivelazione delle loro fantasie patogene». In conclusione la «psicanalisi selvaggia» è il modo come pensano la psicanalisi i potenziali utenti della medesima, una forma dunque della loro resistenza.

Un altro aspetto dell'assurdità analitica della Coscienza, che fa del dottor S., assai più un prodotto delle fantasie del soggetto che della scienza freudiana, è la prescrizione della «confessione scritta», che nega completamente la regola primaria dell'analisi, quella delle libere associazioni. Lo stesso Zeno mostra di accorgersi dell'assurdità di questa situazione (che del resto è quella che lo fa scrittore a nome del suo autore), anche se come al solito ribalta le responsabilità sul « ciarlatano » che gli ha imposto quello strano esercizio: « Il dottore presta una fede troppo grande anche a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perché le riveda. Dio mio! Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto. Una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! E proprio così che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto». Il rapporto lingua-dialetto non è tanto problema dello scrittore quanto della confessione, assai più psicologico che espressivo: accorgersi che la lingua toscana non permette di dire tutto è come accorgersi della reticenza della confessione, ammettendo che questa, per ragioni obiettive, non può arrivare al massimo della sua efficacia. Il fatto è che la confessione, come abbiamo visto, è uno strumento della coscienza (di Zeno) molto più di quanto non sia una via d'accesso all'inconscio, uno dei mezzi più efficaci dell'innocentizzazione. Certo il dialetto, la cui «visceralità» è indubbia e che per questo nutre tanta letteratura espressionistica, permetterebbe una maggiore «sincerità», ma non è da credere che risolverebbe il problema dell'approssimazione all'inconscio secondo la richiesta dell'analisi: l'inconscio è diabolico ed è in grado di neutralizzare la più brutale immediatezza dialettale come di caricare di senso la più neutra espressione in lingua, secondo le infinite risorse del simbolismo; lingua o dialetto, ciò che si richiede nella situazione analitica è il libero gioco associazionistico, proprio quello che una scrittura sorvegliata dalla coscienza impedisce. Zeno, l'unico protagonista sveviano che non abbia un passato di scrittore, si improvvisa scrittore per adempiere il voto del suo autore, di cui più che mai è l'incarnazione autobiografica: e la scrittura è il contrario dell'analisi perché è la custode delle resistenze e delle reticenze, quelle che fanno la «malattia» ma nutrono la «genialità», generano dolore ma anche capacità di sublimazione creativa: attribuire al dottor S. la cura dello scrivere è un modo per fare di un uomo senza qualità uno scrittore e di un analista un imbecille, secondo tutte le migliori intenzioni dell'autore. D'altra parte, in un romanzo che è stato scritto, dopo l'avvento della psicanalisi, per essere un castello dell'innocenza, non poteva mancare un posto da imbecille per il dottor S(igmund), che quel castello sembrava intenzionato a diroccare: a un potenziamento dello «sguardo» padreterno occorreva rispondere con un innalzamento delle difese e delle resistenze, la più classica e semplicistica delle quali, come Freud ha detto nel brano ripor tato sopra, è la squalificazione della dottrina nella persona del suo rappresentante. Il dottor S., ed è una notazione che nessuno ha fatto, è l'unico personaggio «inventato» della Coscienza: pura proiezione delle pulsioni di odio, per questo appare tanto «caricato», al punto da non possedere nessuna delle qualità « realistiche » degli altri personaggi e da figurare soltanto, molto fugacemente, alla fine del romanzo come una specie di macchietta, di caricatura appunto, valida a siglare il concetto di «psico-analisi» del protagonista e del suo autore. Vero è che nella Prefazione a firma sua, il dottor S. mostra di sapere l'origine delle «parole poco lusinghiere» scritte da Zeno ed è consapevole che «chi di psico-analisi s'intende, sa dove piazzare l'antipatia che il paziente gli dedica»; e tuttavia, a costo di «far arricciare il naso» agli specialisti di questa scienza, difende la sua trovata dell'autobiografia scritta come «buon preludio alla psico-analisi» vera e propria. Ma la sua natura di personaggio caricaturato emerge in pieno quando confessa di voler pubblicare quelle «memorie» per far dispiacere all'indocile paziente e, insomma, «per vendetta»; creatura dell'odio, questo analista è tanto cieco da non sfruttare per nulla le energie di quel sentimento per la sua analisi e da farsi coinvolgere nella gara emotiva, eliminando alla radice ogni possibilità di sfruttamento del transfert. Come poter parlare ancora, in simile situazione, di «romanzo d'una psicoanalisi» o anche solo, come fa Saccone, assegnare alla figura del dottor S. un ruolo di tanta importanza nell'opera, fino a designarlo come «un personaggio, onnipresente e muto, incombente»? Davvero interessanti, nella Prefazione, sono solo le parole conclusive: « Se sapesse (il paziente) quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch'egli ha qui accumulate!... »: è l'invito, in assenza dell'analisi del romanzo, a fare la psicanalisi del romanzo, per la quale il dottor S. offre anche se stesso come personaggio. (Un killer dolcissimo. Indagine psicanalitica sull'opera di Italo Svevo, Il melangolo, Genova 1979, pp. 320-323).