Montale: la poetica

La poetica

Scelte formali

Ossi di seppia

Le occasioni

La bufera

 

Le ultime raccolte

 

1. La parola e il significato della poesia

Le poesie di Ossi di seppia, scritte a partire dal 1916, si segnalano subito per il timbro di una risentita originalità, che nasce non da un rifiuto esterno della tradizione, ma da una sua intima rielaborazione. Si potrebbe addirittura parlare, senza attribuire al termine nessun significato limitativo, di una sorta di compromesso, che corrisponde alle ragioni di una coscienza poetica nuova e profonda. Se si pensa che nel medesimo 1916 Ungaretti pubblicava Il porto sepolto, si avrà subito un'idea della distanza che separa i due poeti, spesso frettolosamente accomunati per esigenze di semplificazione manualistica. Ungaretti muove dalla distruzione del verso tradizionale per riscoprire la forza autonoma della parola, facendo di essa uno strumento di liberazione, capace di attingere alle fonti dell'assoluto. Ma si tratta ancora, per Montale, di una soluzione ottimistica e consolatoria. Tra l'uomo e l’assoluto c’è una realtà ineliminabile, che Ungaretti tende invece a trascendere e a cancellare. È il mondo fenomenico, della natura e delle cose, nel quale sembra talora possibile individuare uno spiraglio della verità, pur senza che se ne possano mai ricavare risposte tranquillizzanti e definitive.

Di qui il diverso valore che, rispetto a Ungaretti, assume la parola nella ricerca poetica montaliana. La parola non può aspirare a raggiungere direttamente l’assoluto, isolando la sua pronuncia nel silenzio, ma deve prima confrontarsi con il reale, una barriera nella quale resta inevitabilmente impigliata e che tuttavia costituisce il solo banco di prova consentito, la sola speranza di accedere al mistero insondato dell’esistenza. Diventa così impossibile l’uso della analogia nel senso proposto dal Simbolismo e portato alle estreme conseguenze da Ungaretti, quello in cui la parola si propone di esprimere sensazioni indefinite e indeterminate, accostando fra loro realtà antitetiche e lontanissime. La parola di Montale, al contrario, non allude o elude, ma indica con precisione oggetti definiti e concreti, stabilendo tra essi una trama di relazioni complesse; essa fa capo, per così dire, al soggetto poetante e ne trattiene lo sforzo incessante di penetrare oltre ciò che appare materialmente. per scoprire la direzione o il senso ultimo della vita.

Le conseguenze di un simile atteggiamento sono essenziali per comprendere l'idea di poesia propria di Montale e le scelte formali da lui compiute. Se vogliamo utilizzare la distinzione, proposta da Luciano Anceschi, fra una “poetica della parola” e una “poetica delle cose”, dobbiamo  annettere la poesia montaliana a questa seconda categoria, lungo una linea che ha i suoi maggiori antecedenti in Pascoli e Gozzano (poeti entrambi molto cari a Montale, pur senza voler stabilire con questo ulteriori elementi di parentela, trattandosi di tre esperienze che obbediscono a motivazioni completamente diverse). Se si legge una poesia programmatica come I limoni, che non a caso, dopo il prologo In limine, apre gli Ossi di seppia, si può vedere quanto forte sia l'atteggiamento polemico nei confronti della tradizione poetica aulica e ufficiale (quella dei «poeti laureati»), che usa termini astratti e convenzionali per indicare realtà generiche e indeterminate (per ragioni analoghe Pascoli aveva ritenuto insufficiente il linguaggio poetico leopardiano). Ai «bossi, ligustri e acanti» (parole logore e abusate, che indicano una flora del tutto improbabile) Montale oppone il colore e la freschezza dei suoi «limoni», che danno luce a un paesaggio arido e brullo, anch'esso precisamente descritto nell'immediatezza della sua configurazione («erbosi fossi», «pozzanghere / mezzo seccate», «qualche sparuta anguilla», «viuzze», «ciglioni», «ciuffi delle canne», «orti»).

Anche la scelta di Montale cade quindi sulle "piccole cose" su elementi di una realtà povera e comune che l'uomo può in ogni momento trovare intorno a sé, soprattutto nella natura che gli è più familiare. Ma Montale non guarda a questa natura con gli occhi ingenui e innocenti del «fanciullino» pascoliano, né compone le sue presenze in un’atmosfera “crepuscolare”, assaporata sentimentalmente e ironicamente allontanata (come in Gozzano). Gli oggetti, le immagini e le voci della natura diventano per lui degli emblemi in cui è trascritto, in forma oscure e cifrate, il destino dell’uomo, nelle sue rare gioie e speranze, ma soprattutto nell’infelicità di una condizione (e di una condanna) esistenziale, che non può offrire certezze e illusioni. È un destino che, paradossalmente, l'uomo non può accettare, ma contro il quale non può nemmeno ribellarsi. In esso si riflette il senso di estraneità dell'uomo contemporaneo che, trascorrendo dal piano storico a quello metafisico, entrambi indecifrabili, diventa perplessità esistenziale, una sorta di paralisi che, proprio per questo, non può neppure più esprimersi in forme tragiche e sublimi. Nonostante gli sforzi e le sollecitazioni dell'uomo, la natura conserva dentro di sé la sua oscura ragione di essere. Alla poesia non resta che rispecchiare questa condizione di aridità, tornando insistentemente sulle cose e sulle relazioni che le uniscono, nell'incessante quanto vana speranza di trovare un «varco» (cfr. La casa dei doganieri) che si apra sul mistero della vita, attribuendole senso e significato.

Anche per Montale, quindi, le cose diventano dei simboli, che tuttavia è meglio indicare con il nome di emblemi, per distinguere il suo procedimento da quelli del Simbolismo tradizionale. A differenza dell'analogia ungarettiana, così rarefatta e indefinita, si è parlato, per Montale, di “correlativo oggettivo”, in quanto anche i concetti e i sentimenti più astratti trovano la loro definizione ed espressione (il loro corrispettivo, risultando così “correlati”) in “oggetti” ben definiti e concreti.Un esempio molto chiaro è offerto da Spesso il male di vivere ho incontrato, in cui la definizione di uno stato d’animo che esprime la tipica disposizione esistenziale dell'uomo contemporaneo, «il male di vivere», è presentata non in forma concettuale o esplicativa, ma come un incontro diretto, realmente accaduto lungo il percorso della vita, identificandosi in alcune presenze concrete («era il rivo strozzato…era l’incartocciarsi della foglia…era il cavallo stramazzato»), in cui si risolve e dalle quali viene tangibilmente rappresentato. Anche quando viene meno il riferimento di base (il termine di confronto costituito qui dal «male di vivere») restano gli "oggetti", le presenze e le cose della vita, a significare le complesse e oscure vicende del destino umano, caricandosi di significati ulteriori. La poesia delle "cose" in Montale è tutt'altro che semplice e lineare, ma risulta (e si farà sempre più) ardua, difficile, talora vertiginosamente oscura, nel tentativo di attribuire agli oggetti il compito di cogliere il senso indecifrabile dell'esistenza. Un medesimo termine contiene spesso una pluralità di significati, intrattenendo con il contesto molteplici relazioni, che lo rendono di ardua decifrazione sul piano razionale.

L'espressione "correlativo oggettivo" è stata usata da Eliot, con cui la ricerca montaliana presenta convergenze significative, a livello tematico e strutturale. Tenendo conto delle considerazioni che abbiamo svolto, il simbolismo di Montale potrebbe essere visto come una forma nuova e tutta moderna di allegoria, nella misura in cui gli elementi della natura rappresentano condizioni spirituali e morali. È questa la concezione dell’allegorismo medievale, che Dante, nella Commedia, aveva portato alla massima realizzazione poetica. Proprio l'amore per Dante (che non a caso Montale aveva in comune con Eliot) offre elementi importanti per meglio comprendere la genesi e i risultati di questa operazione poetica. Il rapporto deve ovviamente tenere conto, in senso storico, di opposte prospettive ideologico-conoscitive: l’allegoria dantesca trova una compiuta e integrale spiegazione nella mente divina; quella di Montale, invece, si dibatte in se stessa, senza ottenere risposte o garanzie. Alla Provvidenza di un mondo che cerca sollievo ai dubbi e alle inquietudini in una fede religiosa (non solo Dante, ma anche Manzoni), Montale sostituisce la sua "divina Indifferenza» (cfr. ancora Spesso il male di vivere), che, ricollegandosi piuttosto al pensiero leopardiano, resta passiva e insensibile di fronte alle gioie e ai dolori degli uomini.

Il problema riguarda in ultima analisi il rapporto fra la conoscenza e la poesia. Questa non rappresenta, per Montale, un bisogno di confessione individuale né consiste nella ricerca di una parola da strappare al silenzio, comportando una lettura muta e interiore. Essa si apre, al contrario, a un tono discorsivo e colloquiale, che presuppone la presenza del lettore, quell'interlocutore spesso presente nel «tu» dei versi montaliani (sin dalla parola che inaugura la sua vicenda poetica, l’«Ascoltami» dei Limoni). Questo rapporto indica la volontà di un'intesa e di una solidarietà che coinvolgono il lettore in un comune bisogno di espressione e di partecipazione, di fronte all’urgere delle medesime problematiche esistenziali. Ma proprio perché riflette una realtà cifrata e inconoscibile, la poesia non può, paradossalmente, insegnare nulla. Montale rifiuta non solo l'immagine tradizionale del "poeta vate", ma anche ogni concezione della poesia come fonte di educazione e di elevazione spirituale La sua posizione è nitidamente espressa in un altro dei fondamentali testi programmatici (Non chiederci parola), in cui il poeta, rivolgendosi al consueto interlocutore, lo ammonisce "Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l'animo nostro informe", e conclude: "Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Di fronte all'impossibilità di sciogliere il mistero della vita, Montale non può che proporre una forma di conoscenza in negativo, priva di certezze e di ipotesi propositive, interamente risolta nell'acuta coscienza del relativismo e della discontinuità che regolano le leggi dell'esistenza Egli si può considerare, in Italia, il primo grande scrittore contemporaneo che si faccia interamente portavoce di un pensiero negativo, privo di ogni compensazione alternativa.

Non per questo viene meno, come si potrebbe dedurre, la funzione della poesia: essa ha il compito di indagare questa condizione dell'uomo novecentesco, assumendo il valore di una insostituibile “testimonianza”. Il suo ruolo deriva dall'atteggiamento stesso assunto dal poeta nel suo rapporto con l'irreversibile crisi dei valori vissuta da un'intera civiltà: Montale non si abbandona a cedimenti vittimistici o a suggestioni irrazionali, che possono condurre solo alla disperazione o alla sterile rivolta superomistica. Pur senza speranza, resta intatta, in lui, una vigile fiducia nella ragione, che ha il compito di non eludere le domande fondamentali dell'esistenza e di continuare a indagarne le ragioni, anche quando sa che l'indagine potrà solo sottolineare, in prevalenza, dubbi, limiti, assenze, contraddizioni. In questo senso, la sua poesia riacquista un preciso significato morale, per lo stoicismo di chi compie comunque il proprio dovere al di fuori e al di sopra di ogni compenso. La moralità di questa poesia appare così nettamente estranea rispetto alla storia e alla politica, con la quale rifiuta (e rifiuterà) ogni forma di collusione e di partecipazione.

 

 

 

2. Scelte formali e sviluppi tematici

Si possono meglio capire, a questo punto, le ragioni del compromesso, realizzato da Montale, fra la tradizione letteraria e le istanze innovative così vivacemente espresse dalla letteratura novecentesca. Rifiutate le soluzioni dell'avanguardia, Montale resta fedele a una nozione di stile che si identifica con la lucidità della ragione e con la dignità dell'uomo, quasi a difendere i valori della civiltà letteraria contro la disgregazione del presente. Montale non rifiuta l'uso del verso libero, ma concede ampio spazio ai metri tradizionali, con la massiccia reintroduzione dell'endecasillabo sciolto. Anche le strofe, pur senza obbedire ad alcuna regola prestabilita, tendono non di rado a disporsi secondo corrispondenze regolari (frequente è l'uso delle quartine). L'abolizione dell'istituto canonico della rima non impedisce al poeta di adottarla frequentemente (insieme con le rime al mezzo e le assonanze), sia pure con la più ampia libertà legata alle particolari esigenze espressive. Anche il linguaggio comune, con cui Montale nomina i suoi "oggetti", può facilmente elevarsi, assimilando termini più rari e preziosi, talora squisitamente letterari. La sua è, in sostanza, una scelta plurilinguistica, che si può far risalire a Dante (a differenza, anche in questo caso, del monolinguismo di Ungaretti, di derivazione petrarchesca e leopardiana). Si potrebbe dire che il rigore e l'equilibrio cercati da Montale rappresentino l'esigenza di un controllo dell'intelligenza contro l'irruzione del caos, e lo sforzo compiuto per esorcizzarlo; ma le infrazioni all'ordine, seppur discrete (versi ipermetri, rime imperfette, libere variazioni all'interno della misura e delle "regole" stabilite per ogni singolo componimento), sono numerosissime, quasi a sottolineare la precarietà dell'equilibrio raggiunto, per la pressione delle spinte disgregatrici.

 

 

Ossi di seppia (1920-1927)

Le caratteristiche sin qui sottolineate costituiscono una costante nella poesia di Montale, almeno per quanto riguarda le tre prime e principali raccolte. Le differenze, al loro interno, andranno cercate piuttosto a un diverso livello di complessità e di elaborazione del discorso poetico. Gli «ossidi di seppia», che danno il titolo al primo volume, simboleggiano l'aridità dell'universo montaliano, attraverso la traccia di ciò che resta dopo l'azione di erosione e di logoramento operata dalla natura. Essi alludono al carattere anche al carattere volutamente povero dell'ispirazione, che appare perlopiù concentrata su brevi momenti dell'esistenza, circoscritta nelle linee di un paesaggio che - pur senza alcuna concessione a moduli di descrittivismo realistico - resta quello ligure compreso fra il mare e le colline. È un paesaggio arido e brullo, tormentato e scavato dal sole, che ne rende quasi allucinati e irreali i contorni, caricandoli di valenze metafisiche ed esistenziali. Il poeta ne spia le forme e si sofferma ad ascoltarne le voci (cfr. Meriggiare pallido e assorto e Gloria del disteso mezzogiorno, dove più direttamente traspare l'influsso del linguaggio pascoliano e dannunziano), con un atteggiamento di perplessità attonita e meditativa. Ma le cose non svelano il segreto della loro presenza. Soltanto rinviano a una incessante vicenda di vita e di morte, di gioia e di dolore, che costantemente ritorna e si chiude su se stessa, lasciando come unico conforto l'immagine viva ma fragile di una speranza di felicità (i «limoni», ad esempio, o il «girasole», il fiore che guarda verso la luce, in Portami il girasole ch'io lo trapianti, che così si conclude: «Portami tu la pianta che conduce / dove sorgono bionde trasparenze / e vapora la vita quale essenza; / portami il girasole impazzito di luce»). Neppure la memoria, oscurata e cancellata dall'inesorabile scorrere del tempo, riesce a recare conforto (è questo un altro grande tema della poesia montaliana, che ricorrerà anche in seguito: cfr. Cigola la carrucola del pozzo e Non recidere, forbice, quel volto).

 

Le occasioni (1928-1939)

La presenza, negli Ossi di seppia, di alcuni testi di più ampio respiro (come il difficilissimo Arsenio) prelude agli sviluppi della raccolta successiva, Le occasioni. Il titolo allude all'accadere di eventi cui è attribuito un particolare rilievo, in quanto potrebbero mutare il corso uniforme e monotono dell'esistenza; ma il miracolo non può compiersi per il poeta, al quale non resta che affidare ad altri, a enigmatiche figure femminili, la sua esile speranza. Se inizialmente la poesia montaliana era per lo più risolta nel rapporto fra il poeta e la natura, adesso abbraccia orizzonti più ampi, inglobando maggiori presenze e incontri. Ma l'attesa risulta più deludente, dal momento che, nel complicarsi delle relazioni umane, anche gli elementari simboli di una vita gioiosa, prima nettamente percepibili, vedono offuscare la loro luce. Si approfondisce il solco che la memoria scava fra i momenti di un passato felice e un presente sempre più vuoto e smarrito. Mentre il «varco» (la speranza di approdare a una sicurezza storica o metafisica) appare sempre più lontano e difficile da riconoscere, la mente è occupata da fantasmi paurosi, da immagini allucinate e da presagi di morte (per tutti questi motivi cfr. la casa dei doganieri).

 

La bufera e altro (1940-1954)

Si giunge così, in questa direzione a La bufera e altro, la raccolta con la quale culmina, e nello stesso tempo si esaurisce, questa fase della ricerca poetica montaliana. Il titolo allude, in particolare, allo sconvolgimento della guerra, che sembra recare una tragica e definitiva conferma al pessimismo montaliano nei confronti della storia. Ma il poeta non isola e nemmeno privilegia questo avvenimento, per ricavarne una lezione o per modificare la sua concezione della poesia (come faranno molti altri poeti). Commentando il componimento che dà il titolo alla raccolta, Montale sosterrà che la guerra ha costituito un'esperienza tragica e terribile, ma è stata pur sempre un avvenimento, fra i tanti che segnano comunque il doloroso destino dell'uomo, sul piano storico e metafisico (un solo testo, La primavera hitleriana, contiene del resto riferimenti espliciti). Privo di ogni fiducia nella storia, il poeta non crede che essa possa recare speranze di salvezza. E questo il messaggio affidato a Piccolo testamento, che esclude ogni compromesso con la partecipazione e l'impegno politico. Il «testamento» lasciato dal poeta è un segnale debole, identificato con una fioca luce e con un pugno di cenere; la poesia non è che una povera «testimonianza», la sola consentita in un mondo dominato dall'incertezza e dalla contraddizione.

L'approfondirsi dell'ispirazione, nelle due ultime raccolte, scava nella direzione di quel «male di vivere» che, osservato con il distacco di un'amara ironia, resta la cifra più vera dell'esistenza. Si complica, di conseguenza, la costruzione del periodo, in una sintassi che deve accogliere i nessi sempre più ardui e difficoltosi in cui viene a disporsi la parola. La simbologia degli oggetti e delle presenze - spesso caotiche e stipate - si fa oscura e indecifrabile, per l'intrecciarsi e il riverberarsi, inquieto e spasmodico, dei significati (cfr. La bufera). L'oggetto può così trasformarsi in un «talismano» (cfr. ad esempio, Dora Markus, ai vv .24-28), cui è affidato il compito di mediare il rapporto fra il mondo sensibile e l'inconoscibile; si tratta di una scelta superstiziosa e irrazionale, che costituisce - emblematicamente - il disperato tentativo di esorcizzare le forze crudeli e nemiche del reale, opponendo loro una barriera tanto debole quanto inconsistente.

L'impostazione agevolmente colloquiale della prima raccolta si fa adesso più astratta, per la crescente difficoltà di comunicare una percezione della vita sempre più tormentata e complessa. Al «tu» di un generico interlocutore si sostituisce la presenza della figura femminile, che diventa il destinatario privilegiato all'interno del testo. Il personaggio ha assunto nomi diversi (Annetta-Arletta, Clizia, Mosca, ecc.), che corrispondono a persone realmente vissute, care al poeta. Ma anche qui il riferimento biografico è privo di ogni connotazione "realistica " e riveste unicamente una funzione emblematica, di tramite fra la realtà fenomenica (le cose e la storia in cui sono inserite) e quella metafisica (il destino ultimo dell'uomo, da compiersi altrove, in una dimensione che lo trascende). Non a caso le donne sono cantate solo dopo la loro scomparsa: l'assenza diventa la condizione essenziale della loro presenza poetica. La donna partecipa, per così dire, di una duplice natura, umana e divina, intendendo, con quest'ultimo termine, l'opposta, ma sempre presente, possibilità di perdersi o di salvarsi. In questo senso si è potuto vedere una ripresa, del tutto particolare e moderna, della funzione della figura femminile nella letteratura delle origini, con particolare riferimento allo «stilnovo» e a Dante: la donna in Montale diventa così una specie di Beatrice, che accompagna il poeta nel suo viaggio fra il conoscibile e l'inconoscibile. Solo in questo senso del tutto particolare si possono individuare gli elementi di un "canzoniere d'amore", che stabiliscono un'ulteriore linea di continuità fra i diversi testi montaliani. In una intervista a Giorgio Zampa, Montale ha ammesso la possibilità di considerare le sue poesie come un unico libro, di cui le prime tre raccolte rappresentano il «diritto», le ultime il «rovescio». Sembra quindi legittimo leggere «l'opera in versi» di Montale come una sorta di romanzo, teso a una ricognizione ai confini delle cose, per sondare i legami tra il finito e l'infinito.

Il rapporto con Dante acquista così un particolare risalto, costituendo uno dei più costanti fili conduttori: dai dantismi, frequentemente reperibili nei versi, alle non poche convergenze tematiche (relative ad esempio all'evocazione di atmosfere infernali, come accade in La storia). Anche quello di Montale può essere considerato come una specie di viaggio fra la storia e l'aldilà, tra il mondo sensibile e quello ultraterreno. In Dante, tuttavia, i confini apparivano ben distinti fra di loro, in un sistema di connessioni gerarchiche dove una causa prima giustificava l'ordine e il fine di ogni cosa. Per Montale non esiste una spiegazione o giustificazione di natura ultraterrena, che dia un senso al rapporto fra l'uomo e la realtà; alla causalità garantita da una presenza superiore si sostituisce una casualità che confonde le intenzioni umane, all'interno di un disegno inconoscibile. Né la storia né la religione possono offrire certezze. Il piano metafisico tende così a convergere con quello terreno, lasciando aperti pochi e incerti spiragli. Il paradiso resta un'ipotesi remota, affidata ai segni di una povera speranza, in un mondo che vive in una prevalente dimensione purgatoriale; ma è più facile che la vita si presenti simile a un inferno, in cui drammaticamente si rivelano la precarietà e l'angoscia dell'uomo, abbandonato a se stesso e privo di ogni difesa o riparo.  

 

Le ultime raccolte

Con le ultime raccolte mutano radicalmente le prospettive del discorso poetico. Se gli Xenia, in cui il poeta si rivolge alla moglie morta con l'appellativo di Mosca, vedono ancora nella figura della donna assente il tramite di un rapporto con l'aldilà, sia pure ridotto a una trama di semplici ricordi comuni, le poesie vere e proprie di Satura (1962-1970) rappresentano il «rovescio» delle precedenti raccolte, per il venir meno della loro tensione metafisica. I contenuti restano legati al piano della storia, nei confronti della quale Montale conferma e accentua il suo pessimismo (cfr. La storia). Ma l'obiettivo polemico è costituito dal presente, dalle aberrazioni di quella società dei consumi che, nella sua corsa verso il benessere, ha perso non solo i valori fondamentali, ma anche ogni forma di dignità e di credibilità. Il termine latino satura racchiude così un doppio significato, quello corrente di satira e quello originale, che indica una mescolanza di cose svariate, una specie di miscellanea in cui, attraverso la molteplicità dei temi e dei metri, trovano posto argomenti spesso suggeriti dalla realtà contingente della cronaca e del costume (che vive anch'essa, come corrispettivo tematico, in una totale confusione di idee e di princìpi). Nei confronti di queste manifestazioni Montale conserva un atteggiamento di freddo e ostentato distacco, che si risolve in duri giudizi di condanna: di qui la presenza di una componente"satirica" (nel significato più comune attribuito al termine, anche in riferimento ai contenuti di un vero e proprio genere letterario), che si esprime però in forme mediate e altamente intellettualistiche. La satira si risolve così in una sottile ironia, che si fa impietosa e sprezzante, raggiungendo, pur nell'apparente impassibilità del discorso poetico, le punte del feroce sarcasmo. Lo stile, di conseguenza, risulta aforistico ed epigrammatico, insieme irridente e amaramente sentenzioso. All'armonia. anche aspra e dura, dei versi di un tempo, corrisponde adesso una sorta di musicalità dissonante. Le cadenze prosastiche, proprie del parlato, hanno un andamento scontroso e volutamente difficile, che corrisponde alla realtà di un mondo sconnesso e degradato, con il quale non è più possibile attingere, a nessun livello, un rapporto di comunicazione lirica.

Proseguendo su questa linea, le raccolte successive (Diario del ’71 e del ‘72 e Quaderno di quattro anni) conferiscono ai testi un carattere diaristico, riducendo la poesia ad una specie di cronaca del quotidiano, come solo possibilità di confrontarsi ancora con l’effimero dell’esistenza, dalla quale non si può ricavare nessun altro criterio per organizzare e unificare il discorso poetico.