Perdita d'aureola

E’ un “poemetto in prosa” di Baudelaire, pubblicato per la prima volta nel 1869, nella raccolta Lo Spleen di Parigi.

«Come, voi qui, mio caro? In un bordello voi, il bevitor di quintessenza, voi, il mangiator d'ambrosia! Veramente c'è di che stupire».

«Mio caro, sapete quanto temo i cavalli e le carrozze. Poco fa nell'attraver­sare il Boulevard, in gran fretta, mentre saltellavo nel fango tra quel caos dove la morte giunge al galoppo da tutte le parti tutt'in una volta, la mia au­reola è scivolata, a causa d'un brusco movimento, giù dal capo nel fango del macadam. Non ebbi coraggio di raccattarla, e mi parve meno spiacevole perder le insegne, che non farmi romper l’ossa. E poi, ho pensato, non tutto il male vien per nuocere. Ora posso passeggiare in incognito, commetter bassezze, buttarmi alla crapula come il semplice mortale. Eccomi qua, proprio simile a voi, come vedete!»

«Per lo meno dovreste mettere un avviso per chi trovi quest'aureola; farla richiedere dalla polizia urbana».

«No, in fede mia! Sto bene qui. Mi avete riconosciuto solo voi. D'altronde la dignità mi annoia, e inoltre penso con gioia che qualche poetastro la pren­derà su e se ne incappellerà impudentemente. Fare la felicità del prossimo, che gioia! E specialmente d'un prossimo che mi farà ridere! Pensate a X..., o a Z...! Eh? che bellezza!».

 

È una ripresa, in forma ironica e paradossale, della tematica dell'Albatro. Con un breve dialogo tra due personaggi non precisati, Baudelaire rappresenta la trasformazione dell'immagine del poeta di fronte all'affermarsi della società indu­striale di massa: in un mondo materialista e mercantile, in cui non ci sono più ideali disinteressati da cantare, un'attività gratuita, puramente spirituale come la poesia fa­tica a trovare il suo spazio, e il poeta perde quell'alone di sacralità che per secoli ave­va circondato la sua figura.

Non è difficile individuare nel testo le metafore attraverso le quali vengono raffi­gurati la tradizionale immagine del poeta, la sua degradazione, il contesto sociale ostile che fa da sfondo a questo processo.

Val la pena di notare che il poeta protagonista di questo brano si dichiara provoca­toriamente soddisfatto di potersi incanaglire come un comune mortale. In questo sta un'importante differenza dall'immagine del poeta romantico: per Baudelaire il poeta non è un'anima bella in conflitto con un mondo malvagio, ma è anche lui contami­nato dalla degradazione che ha colpito la società moderna.

 

 


In questo autoritratto Baudelaire si raffigura nell'atto di fumare hashish. Il disegno vuole tradurre fisicamente uno stato interiore di alterazione percettiva: la figura del poeta è ingigantita rispetto alla colonna di Place Vendôme, raffigurata alle sue spalle, e la concitazione del segno sottolinea il carattere tra caricaturale e alluci­natorio della rappresentazione. Più tardi, nel saggio I paradisi artificiali (1860), dedicato agli effetti dell'ha­shish e dell'oppio, Baudelaire scriverà: «...Infatti è in questa fase dell'ebbrezza che si manifesta in tutti i sensi una finezza nuova, una superiore acutezza. Odorato, vista, udito, tatto, partecipano in egual misura a quest'evoluzione. Gli occhi guardano all'infinito. L’orecchio coglie suoni quasi impercettibili in mezzo ai più acuti rumori. È allora che cominciano le allucinazio­ni. Lentamente, progressivamente gli oggetti esterni assumono apparenze singolari; si deformano e si tra­sformano. [...]. I suoni si rivestono di colori, e i colori hanno un'anima musicale».

Lo sfrenamento delle capacità percettive del poeta, spinto fino a mettere in discussione gli abituali criteri di realtà, è un tratto tipico dell'opera di Baudelaire, nella ­quale spesso il confine tra il mondo empirico e il mor­do immaginato è sfumato e inafferrabile. Ma questa caratteristica è solo uno degli aspetti della rivoluzione nel linguaggio e nella concezione della poesia che fa di Baudelaire il padre della lirica moderna.