Quasimodo e la guerra

 

La tragica esperienza della guerra ha un’importanza fondamentale e decisiva nella vita e nell’arte di Salvatore Quasimodo. Attraverso l’esperienza traumatica della guerra il poeta perviene infatti a un mutamento radicale dal punto di vista umano, politico e, soprattutto, poetico. È come se egli si fosse trovato improvvisamente gettato fuori della sua storia interna per essere costretto a fare finalmente i conti non più soltanto con la propria gelosa dimensione individuale, indebolita in un’aristocratica raffinatezza, ma piuttosto con una ben più tragica e urgente situazione storica collettiva. In un simile contesto appare evidente come la poesia non possa più avere un compito puramente consolatorio e come al poeta si impongano ben altre responsabilità da quelle che fino a ora lo hanno tenuto occupato a un lavoro di raffinata rifinitura formale e di preziosa distillazione di alti sentimenti e di nobili principi morali.
Il compito che ora si impone all’intellettuale con tutta urgenza ed evidenza è quello di "rifare l’uomo", come lo stesso Quasimodo sottolinea in un articolo comparso su La Fiera Letteraria nel giugno del 1947.

«Io non credo alla poesia come "consolazione", ma come moto a operare in una certa direzione in seno alla vita, cioè "dentro" l’uomo. Il poeta non può consolare nessuno, non può "abituare" l’uomo all’idea della morte non può diminuire la sua sofferenza fisica, non può promettere un eden, né un inferno più mite... Oggi poi, dopo due guerre nelle quali l’"eroe" è diventato un numero sterminato di morti, l’impegno del poeta è ancora più grave, perché deve "rifare" l’uomo, quest’uomo disperso sulla terra, del quale conosce i più oscuri pensieri, quest’uomo che giustifica il male come una necessità, un bisogno al quale non ci si può sottrarre... Rifare l’uomo, è questo il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle speculazioni è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno.»

 

 

Ed è subito sera [da Acque e terre (1930)]


Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

 

È una lirica che, nella sua essenziale brevità, bene esemplifica le intenzioni e i risultati della ricerca ermetica: la concisione estrema dell'espressione; il significato profondo della parola, che, nella sua rarefatta concentrazione, entra in rapporti di intensa collaborazione analogica; la problematica interiore ed esistenziale, di cui il testo si fa portatore.

Il primo verso esprime la solitudine dell'uomo, che pure si trova «sul cuor della terra», nel cuore e quindi al centro delle cose (il termine indica in più il pulsare della vita, da cui scaturiscono i sentimenti, le emozioni, gli affetti). Da questi elementi sprigiona una contraddizione che si ripercuote su «trafitto», il cui significato racchiude in sé una profonda ambivalenza: il «raggio di sole» che colpisce l'uomo è simbolo di luce e di calore, e quindi della stessa vita (oltre a portare con sé un'idea di infinito, che allude al mistero stesso della creazione); ma «trafitto» implica soprattutto il significato di “ferito”, trasformando il «raggio» in una specie di dardo, portatore di morte. È questa l'impressione destinata a prevalere dopo la lettura dell'ultimo verso, che (separato dai due punti, ma direttamente unito dalla congiunzione «ed») registra l'improvviso («subito») sopraggiungere della «sera», ossia della fine.

Nel brevissimo giro del discorso poetico sono condensati i motivi di una desolata solitudine, della precarietà della vita e dello sfiorire delle illusioni, dell'infinito e della morte, come segno del segreto dell'esistenza, dell'insondabile rapporto fra l'uomo e le cose. Ogni prospettiva di tipo naturalistico è abolita: al dilatarsi dello spazio corrisponde la contrazione del tempo, il precipitare che lo riduce alla frazione di un attimo. È evidente l'influsso della lezione ungarettiana e non c'è dubbio che il precedente più diretto di questi versi è costituito da Mattina. Ma al tentativo di cogliere un frammento di verità attraverso una folgorante illuminazione, Quasimodo sostituisce qui una sintetica riflessione sulla condizione umana, offrendone per così dire una definizione poetico-filosofica.

 

Milano, agosto 1943 [da Giorno dopo giorno (1947)]

 

Nell’agosto del 1943 violenti bombardamenti colpiscono Milano. L’abituale immagine della città, fervida di vita e di lavoro, viene sconvolta: dappertutto si osservano segni di violenza, di distruzione, di morte, che non lasciano adito neppure alla speranza. Testimone di tanta tragedia, il poeta registra quei terribili segni, non senza farsi interprete del dolore di tutti.
Dallo spunto da cui è nata, la lirica si innalza a una meditazione sulle devastazioni operate dalla follia degli uomini, trasformandosi in una ferma condanna non solo della guerra cui è tragicamente legata, ma di ogni guerra, di ogni violenza.
Lo scenario di morte è reso dal poeta in uno stile descrittivo e discorsivo, con un linguaggio che nulla concede alle raffinatezze della forma, ma mira, piuttosto, a tradursi in immagini vive.

Il testo è costituito da tre sequenze:
1. il bombardamento, che ha distrutto cose e persone;
2. il silenzio di morte, non turbato da nulla, neanche dal canto dell’usignolo;
3. lo smarrimento impotente e la disperazione: non c’è niente da fare, neanche seppellire i morti, già custoditi sotto le macerie.






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Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
È caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.

1- la polvere: è una metonimia, cioè indica la parte per il tutto (polvere è in sostituzione di macerie).
3- l’ultimo rombo: è cessata l’incursione aerea. Rombo è metonimia, in sostituzione di motore, cioè di aereo militare.
4 - naviglio: antico canale che attraversa Milano.
7- pozzi: la rete idrica è stata distrutta, e la gente scava pozzi nel terreno.
8- sete: le rovine e i morti hanno spento nei vivi ogni voglia di vivere.
11- è morta, è morta: l’espressione ripetuta rende diffuso il senso della morte.

 

Alle fronde dei salici [da Giorno dopo giorno (1947)]

 

Nel settembre 1943 l’Italia risultava divisa in due parti. Nella parte meridionale, controllata dagli Alleati, era stata restaurata la monarchia, sotto il re Vittorio Emanuele III. Nella parte centro-settentrionale, occupata dai tedeschi, Mussolini aveva creato la Repubblica sociale italiana.
Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 l’esercito di liberazione condusse una lotta senza esclusione di colpi contro i tedeschi e i fascisti, che rispondevano con rastrellamenti, deportazioni e veri e propri massacri. Particolarmente feroci furono quelli di Boves, in Piemonte, di Marzabotto, in Emilia, dove le SS sterminarono l830 civili, e di Roma, dove i nazisti come rappresaglia a un attentato partigiano, che era costato la vita a 32 soldati tedeschi, uccisero 335 prigionieri italiani.
Di fronte agli orrori, ai mali della guerra, i poeti non potevano cantare, scrivere versi, ma solo agire come gli antichi ebrei schiavi a Babilonia, che appesero le loro cetre ai rami dei salici.

 




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E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

 

2 - con il piede...: è una metafora: con l’esercito tedesco che aveva occupato l’Italia.
4 - sull’erba dura...: con i morti abbandonati sull’erba, resa dura dal ghiaccio.
4-5 - al lamento d’agnello...: alle innocenti voci di lamento dei bambini: nei riti di purificazione dei popoli antichi l’agnello era la vittima innocente.
5-7 - urlo nero… telegrafo: disperato, di morte; l’urlo disperato della madre che, impazzita, corre verso il figlio crocifisso su un palo di telegrafo.
8-10 - Alle fronde... vento: anche le cetre dei nostri poeti, simbolo della poesia, erano appese, impotenti, smarrite, ai rami dei salici, per una promessa di silenzio. C’è un riferimento storico: il Salmo CXXXVI della Bibbia rievoca la deportazione degli ebrei a Babilonia: "Abbiamo appeso ai salici le nostre cetre... Come potremmo cantare in terra straniera?".

 

Uomo del mio tempo [da Acque e terre (1947)]

 

La storia e il progresso, afferma Quasimodo, non sono riusciti a cambiare l’uomo. Egli è ancora, sotto certi aspetti, quello primitivo, quello delle caverne: la stessa violenza irrazionale e assassina guida le sue azioni. Rispetto all’uomo primitivo ha solo inventato strumenti di distruzione e di sangue più efficienti, più efficaci, più sofisticati, più "intelligenti". L’uomo di oggi persiste ancora nella sua follia. A chiusura del testo il poeta invita i giovani a non continuare a scrivere pagine di discordie, di morti, di crudeltà: le pagine già scritte dai loro padri.

 





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Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
- t’ho visto - dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
- Andiamo ai campi. - E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

 

1 - Sei ancora...: l’uomo di oggi non è diverso dall’uomo primitivo; ha solo costruito armi più perfette.
2 - carlinga: parte di un aereo destinata ad alloggiare l’equipaggio, o anche il carico.
3 - meridiane di morte: armi perfette che proiettano intorno a sé ombre di morte, di rovina. La meridiana è un orologio solare formato da un complesso di linee orarie tracciate su di un muro o pavimento, ove lo gnomone proietta la sua ombra durante le varie ore del giorno.
4 - carro di fuoco: carro armato.
6 - persuasa…: utilizzata solo per atti di distruzione.
10 - E questo sangue...: si riferisce all’omicidio di Abele ad opera di Caino, il fratello, narrato nell’antico testamento. Con questo omicidio, Caino diede inizio ad una interminabile serie di delitti e di follie. Le stragi di oggi hanno la stessa brutalità del primo omicidio fraterno.
12 - E quell’eco fredda...: le menzogne, le discordie, l’odio fratricida sono ancora presenti nei pensieri e nelle azioni della nostra vita di ogni giorno.
14 - o figli: o giovani.
16 - le loro tombe...cenere: i resti dei vostri padri sono ormai cenere; anche le loro tombe a poco a poco scompaiono. O giovani, non commettete gli stessi sbagli dei vostri padri; non fate ricorso alle discordie, all’odio, all’intolleranza.