Quasimodo e la guerra
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La
tragica esperienza della guerra ha un’importanza fondamentale e
decisiva nella vita e nell’arte di Salvatore Quasimodo.
Attraverso l’esperienza traumatica della guerra il poeta
perviene infatti a un mutamento radicale dal punto di vista umano,
politico e, soprattutto, poetico. È come se egli si fosse trovato
improvvisamente gettato fuori della sua storia interna per essere
costretto a fare finalmente i conti non più soltanto con la
propria gelosa dimensione individuale, indebolita in
un’aristocratica raffinatezza, ma piuttosto con una ben più
tragica e urgente situazione storica collettiva. In un simile
contesto appare evidente come la poesia non possa più avere un
compito puramente consolatorio e come al poeta si impongano ben
altre responsabilità da quelle che fino a ora lo hanno tenuto
occupato a un lavoro di raffinata rifinitura formale e di preziosa
distillazione di alti sentimenti e di nobili principi morali. «Io non credo alla poesia come "consolazione", ma come moto a operare in una certa direzione in seno alla vita, cioè "dentro" l’uomo. Il poeta non può consolare nessuno, non può "abituare" l’uomo all’idea della morte non può diminuire la sua sofferenza fisica, non può promettere un eden, né un inferno più mite... Oggi poi, dopo due guerre nelle quali l’"eroe" è diventato un numero sterminato di morti, l’impegno del poeta è ancora più grave, perché deve "rifare" l’uomo, quest’uomo disperso sulla terra, del quale conosce i più oscuri pensieri, quest’uomo che giustifica il male come una necessità, un bisogno al quale non ci si può sottrarre... Rifare l’uomo, è questo il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle speculazioni è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno.»
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Ed è subito sera [da Acque e terre (1930)]
È
una lirica che, nella sua essenziale brevità, bene esemplifica le
intenzioni e i risultati della ricerca ermetica: la concisione
estrema dell'espressione; il significato profondo della parola,
che, nella sua rarefatta concentrazione, entra in rapporti di
intensa collaborazione analogica; la problematica interiore ed
esistenziale, di cui il testo si fa portatore. Il
primo verso esprime la solitudine dell'uomo, che pure si trova «sul
cuor della terra», nel cuore e quindi al centro delle cose (il
termine indica in più il pulsare della vita, da cui scaturiscono
i sentimenti, le emozioni, gli affetti). Da questi elementi
sprigiona una contraddizione che si ripercuote su «trafitto», il
cui significato racchiude in sé una profonda ambivalenza: il «raggio
di sole» che colpisce l'uomo è simbolo di luce e di calore, e
quindi della stessa vita (oltre a portare con sé un'idea di
infinito, che allude al mistero stesso della creazione); ma «trafitto»
implica soprattutto il significato di “ferito”, trasformando
il «raggio» in una specie di dardo, portatore di morte. È
questa l'impressione destinata a prevalere dopo la lettura
dell'ultimo verso, che (separato dai due punti, ma direttamente
unito dalla congiunzione «ed») registra l'improvviso («subito»)
sopraggiungere della «sera», ossia della fine. Nel brevissimo giro del discorso poetico sono condensati i motivi di una desolata solitudine, della precarietà della vita e dello sfiorire delle illusioni, dell'infinito e della morte, come segno del segreto dell'esistenza, dell'insondabile rapporto fra l'uomo e le cose. Ogni prospettiva di tipo naturalistico è abolita: al dilatarsi dello spazio corrisponde la contrazione del tempo, il precipitare che lo riduce alla frazione di un attimo. È evidente l'influsso della lezione ungarettiana e non c'è dubbio che il precedente più diretto di questi versi è costituito da Mattina. Ma al tentativo di cogliere un frammento di verità attraverso una folgorante illuminazione, Quasimodo sostituisce qui una sintetica riflessione sulla condizione umana, offrendone per così dire una definizione poetico-filosofica.
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Milano, agosto 1943 [da Giorno dopo giorno (1947)]
Nell’agosto
del 1943 violenti bombardamenti colpiscono Milano. L’abituale
immagine della città, fervida di vita e di lavoro, viene
sconvolta: dappertutto si osservano segni di violenza, di
distruzione, di morte, che non lasciano adito neppure alla
speranza. Testimone di tanta tragedia, il poeta registra quei
terribili segni, non senza farsi interprete del dolore di tutti. Il
testo è costituito da tre sequenze:
1-
la polvere: è una metonimia, cioè indica la parte per
il tutto (polvere è in sostituzione di macerie). |
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Alle fronde dei salici [da Giorno dopo giorno (1947)]
Nel
settembre 1943 l’Italia risultava divisa in due parti. Nella
parte meridionale, controllata dagli Alleati, era stata
restaurata la monarchia, sotto il re Vittorio Emanuele III.
Nella parte centro-settentrionale, occupata dai tedeschi,
Mussolini aveva creato la Repubblica sociale italiana.
2
- con il piede...: è una metafora: con
l’esercito tedesco che aveva occupato l’Italia.
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Uomo del mio tempo [da Acque e terre (1947)]
La storia e il progresso, afferma Quasimodo, non sono riusciti a cambiare l’uomo. Egli è ancora, sotto certi aspetti, quello primitivo, quello delle caverne: la stessa violenza irrazionale e assassina guida le sue azioni. Rispetto all’uomo primitivo ha solo inventato strumenti di distruzione e di sangue più efficienti, più efficaci, più sofisticati, più "intelligenti". L’uomo di oggi persiste ancora nella sua follia. A chiusura del testo il poeta invita i giovani a non continuare a scrivere pagine di discordie, di morti, di crudeltà: le pagine già scritte dai loro padri.
1
- Sei ancora...: l’uomo di oggi non è diverso
dall’uomo primitivo; ha solo costruito armi più perfette.
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