La fase ermetica o il primo Quasimodo
Negli anni Trenta, a Firenze, Quasimodo aderì all'Ermetismo, teso ad isolare la parola nella sua purezza, nei valori fonici, per dare voce a esperienze raffinate, ad atteggiamenti di compiaciuto isolamento, ad una forte ansia di misticismo, in una visione della poesia, concepita come valore assoluto, che sta al di fuori della storia.

Sradicato dalla famiglia e dalla sua terra per ragioni prima di studio, poi di lavoro e, sbalestrato nel mondo crudele e alienante della grande città, in Quasimodo si forma subito il complesso dell’esule, tormentato dalla nostalgia dell’infanzia remota, rimpianta come un’età di innocenza e di serenità, e della sua Sicilia, rimpianta come una terra favolosa di felicità, un paradiso perduto.

Questa fase, che coincide con le raccolte Acque e terre, Oboe sommerso e Erato ed Apòllion, vede Quasimodo, cantore della solitudine e del rapido morire delle illusioni, del senso del mistero, impegnato in una ricerca piuttosto esteriore; il desiderio di nascondersi dietro parole rare genera spesso versi oscuri, come quelli della lirica Oboe sommerso, la prima della raccolta omonima, tanto spesso citati come esempio di ermetismo deteriore: Un òboe gelido risillaba / gioia di foglie perenni,/ non mie, e smemora.

Qui riecheggiano moduli espressivi, che vanno dai simbolisti francesi a Ungaretti e Montale ed è evidente la ricerca della parola scarna, essenziale, allusiva e un uso forzato di analogie, intellettualistiche e indecifrabili.

Sull’esperienza ermetica il giudizio della critica è quasi concordemente negativo. Per Carlo Bo, Quasimodo «ci appare come un compagno di strada dell’Ermetismo, come uno che si è trovato a vivere in un dato momento e per spirito di cameratismo ha creduto di dover condividere motivi critici e posizioni che, in fondo, contrastavano con la sua vera natura».

 

L’incontro con i lirici greci

Quasimodo si accostava al mondo greco, spinto da una passione istintiva che aveva nel sangue, lui greco di Sicilia, "siculo-greco" come si definiva; era sorretto anche da un atteggiamento filologico scrupoloso, nonostante avesse affrontato gli studi classici tardi e quasi da autodidatta, ma non era animato dal desiderio di una lettura storica dei testi; le sue traduzioni sono delle interpretazioni molto personali e molto riuscite; proprio per questo i Lirici greci sono considerati, per giudizio unanime della critica, il miglior libro di poesia di Quasimodo e una tappa importante nella storia della poesia italiana. La traduzione dei lirici è un lavoro che, nella sua vita di poeta, risponde alla doppia sollecitazione di un aggancio sempre più profondo con la sua terra e di un raffinamento sempre più consapevole della propria espressione poetica. Viene riconosciuto che nelle traduzioni di Saffo, Alceo, Anacreonte, Archiloco, Ibico, ecc., nonché dei latini Virgilio e Catullo, c’è più l’anima e la sensibilità di Quasimodo-poeta che il pensiero dello stesso antico autore tradotto.

 

La poesia impegnata del dopoguerra
L’incontro con i lirici greci non fu senza conseguenze sulla poesia di Quasimodo; agì in più direzioni, sia perché rinsaldò il suo legame con la Sicilia sia perché valse a illimpidire il linguaggio, a liberarlo dalle oscurità dell’Ermetismo, come affiora nella raccolta delle Nuove poesie del 1942, che fa da ponte con le raccolte successive.

La tragedia della seconda Guerra Mondiale e la Resistenza operano profondamente nello spirito del Poeta, alla cui etica e al cui gusto realistico-ermetico procurano contenuti e valori nuovi di aperto impegno umano e sociale e contribuiscono in misura determinante a far passare il Poeta dall’attenzione alle "parole" a quella per le "cose". La sconvolgente esperienza della guerra accentua, nel cammino poetico di Quasimodo, lo svolgersi di virtualità presenti ma nascoste, in senso realistico-drammatico: le liriche Con il piede straniero sopra il cuore, del 1946, e Giorno dopo giorno del ’47 inaugurano una stagione veramente nuova nella poesia italiana. Non è più tempo, ormai, di elegie malinconiche, di delicate modulazioni intimistiche e di sogno: una dura realtà ora incombe sull’uomo, dove egli si riscopre nella sua verità, fatta di miseria e di sangue, di terrore e di lacrime. In queste raccolte e in quelle successive, La vita non è sogno del 1949 e Il falso e vero verde, la poesia di Quasimodo assume carattere civile, umanitario e sociale nel contenuto ed oratorio nella forma.

Parallelamente al rinnovamento della tematica, si rinnova il linguaggio. È un idioma, che si affida alla scarna e terribile eloquenza delle cose, degli oggetti, della storia, presentata per scorci e simboli; persino della cronaca, presentata con linearità. Ormai è lontana ogni presenza di desiderio di "eterno", dell’afflato metastorico, caratteristici del primo Quasimodo.

Ora Quasimodo, secondo Mazzamuto, «raggiunge i risultati più alti: un mondo umano riscattato dalla guerra e dalla violenza, una patria più vasta dove si è fatta persino sensibile quella presenza cristiana di valori morali e religiosi, che il primo Quasimodo [quello ermetico] aveva sentito solo come oscuro travaglio e non come schietta e risoluta esigenza sociale».

Ciò che però è stato sempre presente nel mondo poetico di Quasimodo sono alcune tematiche come, ad esempio, la meditazione sul dolore, che ora si sposta dall’ambito privato e personale a quello pubblico e sociale e la tensione stilistica, che conferiscono a tutta la sua produzione una fisionomia sostanzialmente unitaria.

Il passaggio del Poeta alla nuova lirica "impegnata" è determinato dalle tragiche vicende della seconda Guerra Mondiale. La follia omicida del conflitto apre il cuore di Quasimodo alla realtà storica e alla cronaca del proprio tempo, strappandolo alla tematica onirica, solipsistica ed ermetica del primo periodo ed orientandolo verso altre di natura storica e sociale, al colloquio con gli altri, che soffrono la sua stessa pena ed ai quali egli dona, infine la speranza di un mondo migliore.

Egli ora non è più il nostalgico ricercatore di età e terre lontane, ma il giudice severo della sua epoca; perciò denuncia e condanna, con potenza realistica, le atrocità della guerra e la ferocia degli uomini moderni ed esorta i figli a dimenticare l’opera cruenta dei padri (Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue / salite dalla terra, dimenticate i padri).

Anche in questo secondo periodo della poesia di Quasimodo ritorna il motivo della Sicilia, ma essa non è più vista come una favolosa terra di sogno bensì come una terra di dolore, che attende l’ora del riscatto (Oh, il sud è stanco di trascinare morti / in riva alle paludi di malaria,/ è stanco di solitudine, stanco di catene…).

Quando, nel dopoguerra, si accorge che alla ricostruzione materiale non si accompagna quella morale degli spiriti, perché vede gli uomini nuovamente divisi da ideologie, disposti ad azzuffarsi ancora, dimentichi degli orrori recenti, Quasimodo ammonisce sui rischi apocalittici di un nuovo conflitto mondiale (… E ora / che avete nascosto i cannoni fra le magnolie, / lasciateci un giorno senz’armi sopra l’erba…).

Nelle ultime due raccolte di poesie, La terra impareggiabile (1958) e Dare e avere (1966), ritroviamo, ancora insieme, tanto i motivi nostalgici e familiari quanto quelli umanitari e sociali, volti ad ispirare la fraternità e la solidarietà tra gli uomini, contribuendo validamente alla identificazione dell’uomo dei nostri tempi. La sua poesia tende a realizzare un umanesimo sostanziale e globalizzante: «Rifare l’uomo: questo il problema capitale», egli dice. Poesia come vita dunque: vita, s’intende, in ogni sua inesorabile manifestazione di gioia, dolore, delitto, psicosi, miseria.