Giovanbattista Marino – Angelica, da La Galeria |
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Nella seconda parte della sezione della Galeria dedicata ai “ritratti di donne”, tra i ritratti di donne “belle, impudiche e scellerate”, troviamo, al n. 5, il ritratto di Angelica. Si tratta del personaggio dell’Orlando Furioso, la quale, dopo lungo fuggire vari cavalieri innamorati, è infine caduta innamorata lei stessa del giovane saraceno Medoro, ferito e da lei medicato. Il poeta immagina che sia il ritratto stesso di Angelica a parlare e descrivere il suo innamoramento, con un sottile gioco arguto e concettoso sul tema della piaga d’amore. Il componimento si compone di due ottave di endecasillabi. |
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Commento La situazione di sensuale erotismo è moltiplicata dal gioco retorico e concettoso delle antitesi. La donna, bianca e cristiana, è seduta a fianco del corpo nudo, esposto ed indifeso del giovane africano – nero e musulmano – ferito e quasi privo di sensi. La virtù dell’anello, capace di sottrarla alla vista degli “armati erranti”, non può nulla di fronte alla vista “interiore” di Amore. Così, mentre cura la ferita del “fanciul nudo”, sente lo sguardo del giovane aprirgli nel cuore la ferita d’amore: alle armi belliche si sostituisce il tagliente potere della vista, capace di ferire il cuore. Ma è proprio la caratteristica di “esposizione”, di languido abbandono del giovane a “ferire” l’interiorità della donna (“ferita da l’altrui ferita”), a farla innamorare. All’atto di curare da parte della donna, corrisponde specularmente l’atto di ferire da parte del giovane – anche se in effetti, dei due, è la donna che agisce (“io di mia mano di curar il suo mal tento ogni via”) mentre il giovane, di nuovo, è oggetto esclusivamente passivo (“la piaga sua chiudo e risano”, “di duolo ei langue”). Dove fallirono tanti “armati” cavalieri, è proprio la sola, inerme nudità del giovane ferito (dietro la quale si profila la nudità del Dio Amore, pronto a scagliare i suoi dardi) a sedurre la donna e ferirne il cuore profondo. Quello che è rilevante, è il fatto che il nucleo della tensione poetica, generatore della macchina concettosa delle antitesi incrociate, si incentra sulla opposizione tra interiorità ed esteriorità dell’esperienza dello sguardo (come rapporto di guardare e di mostrarsi, di nascondere e di vedere, attraverso le soglie progressive delle armature, delle vesti e della pelle), mentre la risonanza interiore ed erotica dell’atto del guardare viene ricondotto al campo metaforico della ferita, come esperienza di ulteriore ed estremo oltrepassamento della soglia ultima della pelle: apertura, esposizione, svuotamento, mancanza. L’esperienza del corpo come “perdita” e “mancanza” è sottolineata dalla ripetizione del verbo “asciugare”, all’ultimo verso, rivolto agli umori del pianto e del sangue: secrezioni del corpo preso e dominato dalla passione, quasi espressione del suo svuotarsi ed esporsi alla sofferenza ed alla mancanza. |
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