Juan de la Cruz – da Canzoni tra l'anima e lo Sposo |
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Spesso il rapporto tra Dio e l’anima assume nel linguaggio mistico le valenze di un rapporto amoroso, più precisamente quello del rapporto tra gli sposi o i promessi. Tale rapporto ha un referente biblico nel Cantico dei cantici e trova particolare sviluppo in gran parte dei testi di mistici. Un particolare rilievo a questa tematica è dato, alla fine del XVI secolo, dal mistico spagnolo Juan de la Cruz (1542-1588). Anche nella sua opera poetica, considerata come espressione dell’esperienza mistica avuta durante l’estasi, il rapporto amoroso tra l’anima e Dio oscilla tra la violenza della ferita (o della piaga da ustione) e la dolcezza della carezza d’amore che ristora. Di Juan de la Cruz leggiamo alcune strofe dalle Canzoni fra l’anima e lo Sposo, in cui si immagina che la Sposa (l’anima) dopo una affannosa ricerca, ritrovi lo Sposo (Cristo) e insieme a lui prefiguri le gioie della loro unione d’amore. |
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Commento Oltre alle tematiche tipiche della mistica – la relazione amorosa tra l’anima e Dio (“mi donai senza riserve”, v. 95); la ferita d’amore (“se m’hai ferito”, v. 41); l’esposizione dell’interiorità (“Là mi aprì il suo petto”, v. 92) – il brano presenta una caratteristica particolare. Nelle due strofe tra i versi 67 e 76 viene descritto l’Amato, come esso viene percepito nel momento del “volo” mistico verso di lui, da parte dell’anima fattasi colomba. La percezione dell’Amato è riportata ad una serie di situazioni, che mettono in luce almeno tre caratteristiche essenziali dell’esperienza dell’anima. In primo luogo, soprattutto nella prima strofe, la percezione interiore dell’anima è rapportata a contesti di carattere naturale (“montagne”, “valli boscose”, “isole meravigliose”, “fiumi fragorosi”, “venti innamorati”), dai quali emerge generalmente un suono indistinto, come una voce inarticolata: “i fiumi fragorosi / il fischio dei venti innamorati”. Nel commento spirituale alle Canzoni, Juan stesso precisa la natura di tale effetti acustici come “un suono e voce spirituale”, vale a dire un suono che è già voce, che parla e dice, quindi, pur fermandosi prima dell’articolazione in parola. In secondo luogo, la percezione acustica di tali suoni si precisa, nella seconda strofe, come “solitudine sonora” (v. 75): espressione estremamente allusiva, che suggerisce di cogliere quei suoni nella contemplazione solitaria del loro sorgere dal silenzio, del loro porgersi isolato alla meditazione solitaria. È una solitudine comune alla interiorità dell’anima (appunto, “la solitudine sonora” del v. 75), come alla realtà esterna (“la solitudine delle valli boscose”, v. 68) – che si precisa al v. 74 (“la musica taciuta”) come sostanza musicale: di nuovo, voce inarticolata che, senza parole, parla al cuore. In terzo luogo, la percezione dell’anima al momento decisivo del volo mistico, non è quella di una intensificazione della percezione sensoriale, ma, al contrario, di un suo indebolimento: una percezione notturna, quieta - della calma profonda che precede il “risveglio dell’aurora”. Nel commento, Juan spiega il motivo di questa silenziosa solitudine notturna: “e così lo spirito in questa contemplazione sta nella solitudine di tutte le cose, privato di tutte quelle e come nudo, e non acconsente a sé niente altro che la solitudine in Dio”. La notte è dunque immagine del farsi opaco della percezione delle cose, del loro scivolare verso l’inconsistenza, di fronte all’emergere dell’Amato: da quel silenzio prorompe il rumore della sua voce – “voce immensa”, “voce infinita” secondo le parole del commento – ma pure inarticolata e indistinta come quella del fragore delle acque fluviali. Di fronte ad essa lo spirito sta come annichilito e “nudo” e percepisce il rapporto con l’Amato non nella luce chiara e trasparente del giorno – come un’esperienza evidente e razionalmente esprimibile – ma nella opacità della notte, nel silenzio solitario della contemplazione muta, attraverso un’esperienza sensoriale rarefatta e assoluta – pura e precedente ad ogni significato determinato - espressa attraverso l’ossimoro della “musica taciuta” (musica callada, v.74), della “musica silenziosa”. |
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