Giacomo Lubrano – da Scintille poetiche

 
     
 

Una serie di sonetti, all’interno della raccolta intitolata Scintille poetiche, è dedicata al baco da seta, considerato come emblema di moralità: il verme e la sua vicenda di metamorfosi, che da vilissimo ed abietto animale lo trasforma in pregiata e splendida seta, viene volta a volta a significare il valore dello spirito umano, che si svincola dalla miseria e dalla nullità della carne; la vanità degli abbigliamenti umani, prodotti con lo strazio dei nudi vermi; la positiva industriosità che spinge ad affaticarsi per arricchirsi interiormente e non per accumulare beni.

In tutti i sonetti dedicati al “verme setaiuolo” un posto centrale ha la figura dello “svisceramento” e il conseguente gioco concettoso che si stabilisce nel mettere in relazione la pochezza e la ripugnanza della esteriorità corporale del verme e la ricchezza del suo esprimersi in fili di seta (ricchezza, che di volta in volta può assumere il significato allegorico di fede, poesia, preghiera, canto, coscienza, ecc.). Il tormento che la tecnica di produzione della seta infligge al corpo del verme – tecnica che prevede la bollitura dei bozzoli - diventa allegoria dei tormenti dell’anima, per accedere alla salvezza. Nel caso che prendiamo ad esempio, il poeta realizza una prosopea, figura retorica per cui si introduce a parlare una cosa personificata (in questo caso il verme stesso) o un personaggio storico.

 
     
 

XVI - Prosopopea

Arte è la mia vita: tesso e ritesso
le viscere spremute in bave d’oro:
né pur del chiuso boccio ove dimoro
m’è di volar al fin sempre concesso.

 

Arte: l’arte della tessitura; tesso e ritesso: intesso continuamente; le viscere... d’oro: le mie interiora spremute nei fili (“bave”) chiari e lucenti [del bozzolo]; né pur...concesso: e non mi è sempre concesso di volare via [come farfalla] dal chiuso bozzolo (“boccio”) dove io faccio la mia dimora. Di norma il verme viene ucciso, immergendo il bozzolo nell’acqua bollente, per ottenere la seta.

Salendo in su di vil ginestra appresso
le rovine al mio serico lavoro.
Così filando i giorni, arso mi moro:
Parca, Prefica insiem, tomba a me stesso.

 

Salendo in su: crescendo da...; appresso...lavoro: avvicino (“appresso”) la fine (“le rovine”) al mio lavoro di costruzione della seta (“serico”); filando i giorni: passando i giorni a filare. Ma i giorni e il tempo sono l’oggetto della filatura: il verme è animale temporale, come l’uomo; arso mi moro: finisco per morire bruciato; Parca, Prefica insiem, tomba a me stesso: essendo a me stesso allo stesso tempo Parca, Prefìca e tomba. La Parca è la figura mitologica che presiede al destino umano, filando, tessendo e recidendo il filo della vita di ogni uomo. Prefica è la donna che piangendo canta i lamenti funebri. Il verme è Parca a se stesso, in quanto si procura la morte con il suo lavoro; è Prefica a se stesso in quanto piange il suo destino di morte, come sta facendo con queste stesse parole, con questo canto - dentro al proprio bozzolo che è anche la propria “tomba”.

Povero già serpendo in verdi prati,
gustai d’erboso suol dolci le brine, 
senza l’ira temer d’incendii ingrati.

 

Povero: nudo, esposto, umile; dolci le brine: l’erba fresca, bagnata di rugiada. Nella parola “brine” è insita l’idea un’idea di freschezza, che si oppone al calore del fuoco che attende il verme; senza...ingrati: senza temere il furore di irriconoscenti fuochi. Sono i fuochi che fanno bollire le acque in cui il verme sarà gettato .

Ricco crebbi a l’insidie, a le rapine.
Apprenda l’Uom da me, che avari i Fati
Più corrono a spogliar chi ha d’oro il crine.

 

Ricco...rapine: sono cresciuto fino a diventare ricco [per la mia dote di seta], per essere destinato ai tradimenti e alle spoliazioni [della tecnica umana, che trarrà da me la seta]. “Ricco” è in antitesi con “Povero” del v. 9; che avari...crine: l’uomo apprenda da me [il fatto che] il destino avido e insaziabile (“avari i Fati”) più s’affretta (“corrono”) a depredare (“spogliare”) chi ha i capelli d’oro - vale a dire chi è ricco fino ai capelli oppure, forse meglio, chi ha in sé più bellezza e giovinezza.

 
     
 

Commento

Il verme condivide con l’uomo l’umiltà e la povertà della sua condizione, ma soprattutto il suo essere sottoposto al tempo (“filando i giorni”). L’esperienza dell’essere immerso nella incessante vicenda del tempo, nella metamorfosi di tutte le cose che esso porta con sé, si traduce nell’immagine di essere “tomba” a se stessi. L’immagine della “tomba vivente” - variazione del corpo come sepolcro dell’anima - riprende la polarità tra interiorità ed esteriorità che è implicita nella immagine dello svisceramento, dello “spremere” le viscere in fili lucenti – quasi il verme secernesse una luminosità interiore, che contrasta con lo squallore del corpo, sottoposto al tempo (“appresso le rovine”) e al suo destino di accrescimento e morte (“salendo in su”, “filando i giorni”, “crebbi”). Una medesima concretezza materica, per il tramite della elaborazione retorica, trasforma in esperienza dei sensi il passare del tempo e l’“esprimersi” della vita interiore del verme/uomo.