A un amico fiorentino

Dante, Epistula XII

Nel 1310 Firenze offrì ai fuoriusciti per motivi politici un'amnistia, che consentiva il ritorno in patria in cambio del pagamento di una multa, del riconoscimento della colpa commessa e dell'accettazione pubblica del perdono da parte della comunità cittadina. Con questa lettera, rivolta a un amico fiorentino di cui non conosciamo l’identità (forse un religioso, come si potrebbe dedurre dall'appellativo «padre»), Dante rifiuta sdegnosamente di sottostare a queste umilianti condizioni.

 
 

Dalla vostra lettera, che ho accolta con la dovuta riverenza e la dovuta affezione, mi sono reso ben conto, con gratitudine profonda, della cura e dell'impegno col quale cercate di procurare il mio ritorno in patria; e per questo mi avete reso tanto più obbligato verso di voi, quanto più raramente accade agli esuli di trovare degli amici. Quanto alla mia risposta a ciò che mi scrivete, anche se non sarà quale forse desidererebbe la pusillanimità di certuni, vi prego affettuosamente che prima di giudicarla la ponderiate attentamente.

Ecco dunque quello che dalla lettera vostra e da quelle di mio nipote e di molti altri amici mi è stato reso noto riguardo al decreto or ora promulgato a Firenze sull'assoluzione dei banditi: che se io volessi pagare una certa somma di danaro e volessi sottopormi all'onta della pubblica oblazione, potrei essere assolto e ritornare immediatamente. E in questo, invero, o padre, vi sono due proposte degne di riso e mal consigliate; mal consigliate, dico, da coloro che le hanno avanzate, infatti la vostra lettera, formulata con maggior senno e maggior discrezione, non conteneva nulla di simile.

È questa, dunque, la graziosa revoca con la quale viene richiamato in patria Dante Alighieri, dopo aver sofferto un esilio di quasi tre lustri? Questo ha meritato la sua innocenza, manifesta a chiunque? Questo i sudori e le fatiche continue da lui spese nello studio? Sia lontana da un uomo che si professa intimo amico della filosofia una così dissennata viltà di cuore ch'egli soffra di essere presentato all'oblazione come un reo in catene al modo d'un Ciolo qualunque e d'altri uomini infamati dalla loro colpa! Lungi da un uomo che si professa banditore di giustizia che, avendo subito ingiustizia, a quelli che gliel'hanno inferta, come a gente che abbia ben meritato paghi il suo danaro!

Non è questa per me, padre mio, la via di ritornare in patria; ma se un'al­tra prima da voi, poi da altri sarà trovata, che non deroghi alla fama e all'onore di Dante, per quella mi metterò a passi non lenti; ma se non c'è una via tale per entrare in Firenze, io a Firenze non entrerò mai più. E che? Non potrò forse da ogni luogo guardare le spere luminose del sole e delle stelle? Non potrò forse, dovunque, sotto il cielo, contemplare dolcissime verità, sen­za rendermi, prima, privo di gloria, anzi, abietto al popolo e alla città di Firenze? Certo il pane non mi mancherà.

   
 

Sono trascorsi più di dieci anni dalla condanna, e Dante vive a Verona, ospite di Cangrande della Scala, che lo protegge e l'onora per il suo prestigio di intellettuale. La presa di distanza dalle passioni e dai conflitti della vita comunale gli consente di considerare con uno sguardo nuovo la sua condizione di esule: un uomo che paga di persona per la sua ricerca di coerenza e di rettitudine, un «intimo amico della filosofia», un «banditore della giustizia» che può dedicarsi alla contemplazione delle «dolcissime verità» in qualsiasi luogo della terra.

Il desiderio di tornare a Firenze è ancora vivo, ma non può comportare una rinuncia all'amore del vero e del giusto in cui Dante identifica il senso della sua vita e del suo impegno di intellettuale.