Lieta e chiusa contrada, ov'io mi involo

Pietro Bembo, Rime, LXVI

Il sonetto è dedicato alla villa presso Padova dove Bembo si ritirava per dedicarsi agli studi, in un'occasione in cui è costretto dagli impegni a lasciarla.

 

 

Lieta e chiusa contrada, ov'io m'involo

al vulgo e meco vivo e meco albergo,

chi mi t'invidia, or ch'i Gemelli a tergo

lasciando scalda Febo il nostro polo?

Rade volte in te sento ira né duolo,

né gli occhi al ciel sì spesso e le voglie ergo,

né tante carte altrove aduno e vergo,

per levarmi talor, s'io posso, a volo.

Quanto sia dolce un solitario stato

tu m'insegnasti, e quanto aver la mente

di cure scarca e di sospetti sgombra.

O cara selva e fiumicello amato,

cangiar potess'io il mar e 'l lito ardente

con le vostre fredd'acque e la verd'ombra.

   
 

L’elogio dell'otium, la solitudine dedicata agli studi e alla poesia nella quiete della campana, è un tema tipico della civiltà di corte umanistica e rinascimentale, un contrappeso a una vita sociale troppo raffinata e complicata. L'intellettuale cortigiano vi proietta il proprio ideale di una cultura contemplativa, sdegnosa delle cure pratiche e del volgo, tutta dedita a levarsi a volo nei cieli dello spirito.

Il petrarchismo di Bembo è insieme imitazione stilistica e imitazione di un modello umano. Il suo ritiro è in una «chiusa contrada» come la Valchiusa di Petrarca («In una valle chiusa d'ogni 'ntorno», Canzoniere, CXVI, 9), l'immagine del volo spirituale, pure ripresa dal Canzoniere («Che l'alma trema per levarsi a volo», CLXIX, 6).

Il tema generale del sonetto echeggia il petrarchesco De l'empia Babilonia. Il confronto rivela la minore maestria stilistica di Bembo, che si mostra leggermente impacciato dalla forma sonetto, in qualche punto un po' contorto nella sintassi.