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La
cultura dell'animo è affidata al filosofo, propria dell'oratore è
la forbitezza del linguaggio; ma se noi vogliamo, come
si dice, sollevarci dal suolo e volare di bocca in bocca tra gli
uomini, non dobbiamo trascurare né una cosa né l'altra. Della
prima parleremo altrove, che è problema grave e complesso, ma dai
frutti fertilissimi; ora, per non uscire dal tema che mi sono
proposto, ti esorto e t'incoraggio a correggere non solo vita e
costumi, che è precipuo fine della virtù, ma forma e modi del
nostro linguaggio, cosa che ci potrà garantire lo studio di una ben
regolata eloquenza. Il discorso, infatti, è la vera spia dell'animo
mentre, a sua volta, l'animo è la forza moderatrice del discorso.
[...] Bisogna dunque provvedere e all'animo e al discorso, in modo
che l'animo sia giustamente severo nei riguardi del discorso e il
discorso sappia mostrare tutta la grandezza dell'animo, anche se è
poi chiaro che dove è finezza di animo non potrà esserci rozzezza
d'espressione, proprio come, per converso, un discorso non potrà
mai essere dignitoso se l'animo manca della sua propria maestà. Che può mai giovare immergersi completamente nelle
fonti ciceroniane o conoscere tutti gli scrittori greci ed i nostri?
A scrivere in modo ornato, forse, elegante, armonioso, altisonante;
certamente non ad esprimere gravità, serietà, saggezza di pensiero
e, quel che più conta, coerenza di idee. Perché
se prima non avrai acquistato fermezza di volontà - e solo il
saggio può raggiungere questo equilibrio - è inevitabile che,
nella contraddizione dei sentimenti, siano pure in
contraddizione costumi e parole. Ma una mente ben ordinata è sempre
tranquilla e in quiete come un'immota serenità: sa quello che
vuole, e ciò che ha voluto non cessa mai di volerlo, sì che anche
se non la soccorreranno gli artifici dell'arte oratoria, trova pure
in sé voci magnifiche ed austere, perfettamente corrispondenti ad
essa. Non si può tuttavia negare che si possono realizzare notevoli
risultati quando, calmati i sentimenti (nel loro tumulto non
aspettarti mai niente di buono), ci si pone allo studio
dell'eloquenza. Che se anche essa non fosse necessaria a noi
personalmente, e se la nostra mente, forte delle sue forze e
spiegando in silenzio le sue facoltà, non avesse bisogno dell'aiuto
della parola, dovremo almeno affaticarci per il bene di coloro con i
quali viviamo, e non c'è dubbio che la nostra parola possa giovare
loro moltissimo.
[…]
Ma
ecco che tu replichi di nuovo: «perché
affaticarci oltre, dal momento che tutto ciò che può essere
utile all'umanità è già stato scritto da tanti anni, in tanti
volumi, con meravigliosa eloquenza e da ingegni divini?». Deponi,
ti prego, questa preoccupazione; non ti sia mai stimolo alla
pigrizia; alcuni fra gli antichi ci hanno già strappato questo
timore e io lo farò per coloro che verranno dopo di me. Scorrano
pure a mille a mille gli anni, i secoli si aggiungano ai secoli: mai
si loderà abbastanza la virtù, mai si esalterà abbastanza
l’amor di Dio o si predicherà la lotta contro i vizi; mai le
menti più acute troveranno qualche ostacolo nella ricerca del
nuovo. [...] Infine, anche se non ci si spingesse il caritatevole
amore per gli uomini, direi che lo studio dell'eloquenza deve essere
tenuto in considerazione, in quanto ottima cosa in sé e utilissima
per noi stessi. Ognuno giudichi come vuole; per quel che mi riguarda
io non so veramente come poter esprimere il conforto che nella
solitudine mi danno alcune note e familiari parole che non solo mi
nutro nel cuore ma pronuncio a voce viva e con le quali sono solito
destare l'animo dormiente; la dolcezza che provo quando svolgo ora i
miei ora gli scritti degli altri; il sollievo che questa lettura sa
donare al mio animo oppresso da gravissimi travagli. E mi valgo
talvolta proprio dei miei scritti perché i più adatti ai miei
mali, quelli che la mano consapevole del medico, lui stesso malato,
ha posto proprio là dove si annidava il dolore: un risultato che
non avrei certo ottenuto se queste salutari parole non mi avessero
lusingato l’orecchio e, spingendomi con la loro innata dolcezza a
una ripetuta lettura, non mi si fossero a poco a poco come nascoste
nel cuore, penetrandolo profondamente con le loro punte segrete.
Addio.
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L’eloquenza,
lo studio della forma letteraria elegante, non è per Petrarca un
ornamento estrinseco del discorso: è segno della nobiltà
dell'animo da cui il discorso promana. La cura delle parole sembra
coincidere con l'affinamento dello spirito, tanto che il
"correggere i costumi" e il "correggere forma e modi
del linguaggio” sono posti sullo stesso piano. Ancora, la capacità
di costruire un discorso coerente ed elevato è identificata con la
serena imperturbabilità dello spirito che l'antica filosofia stoica
attribuiva al saggio.
Nelle
ultime righe della lettera Petrarca presenta se stesso come lettore;
un po' in contrasto con l'immagine che ha dato del saggio, si dice
«oppresso da gravi, acerbissimi travagli». Emerge così il tema
della letteratura come consolazione: il testo letterario, altrui o
proprio, consola perché con la parola ha saputo dare armonia ai
moti dell'animo. La lettura è intimo colloquio e rispecchiamento,
così come anche noi moderni spesso la sperimentiamo.
All'eloquenza
così intesa l'autore attribuisce un valore non solo individuale, ma
sociale: in due punti
accenna al fatto che ciò che si scrive è destinato al bene
del prossimo.
È
di grande rilievo storico il passo in cui Petrarca rivendica «la
ricerca del nuovo», come un compito che si pone agli scrittori in
tutti i tempi; anche se i fini che attribuisce
loro sono abbastanza scontati ("lodare la virtù", ecc.
), c'è qui l'idea che la conoscenza non sia conclusa, ma abbia
sempre spazi illimitati da esplorare; un'idea che era estranea alla
cultura medievale.
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