Lo studio dell'eloquenza

Petrarca, Familiarium rerum libri, I,9

Questa lettera, riportata in gran parte, è un trattatello sull’eloquenza; con questo termine Petrarca non intende tanto lo studio del discorso orale in pubblico, quanto quello dell'eleganza nella prosa letteraria, secondo lo slittamento di significato che avevano subito i termini "retorica" ed "eloquenza" a partire dalla tarda antichità. La lettera è probabilmente fittizia, essendo stata composta intorno al 1350, quando Petrarca decise di raccogliere e pubblicare le proprie lettere, sull'esempio dell'epistolario di Cicerone che aveva ritrovato: a quell’epoca, infatti, colui che figura come destinatario era già morto.

 
 

La cultura dell'animo è affidata al filosofo, propria dell'oratore è la forbitez­za del linguaggio; ma se noi vogliamo, come si dice, sollevarci dal suolo e volare di bocca in bocca tra gli uomini, non dobbiamo trascurare né una cosa né l'altra. Della prima parleremo altrove, che è problema grave e complesso, ma dai frutti fertilissimi; ora, per non uscire dal tema che mi sono proposto, ti esorto e t'incoraggio a correggere non solo vita e costumi, che è precipuo fine della virtù, ma forma e modi del nostro linguaggio, cosa che ci potrà garantire lo studio di una ben regolata eloquenza. Il discorso, infatti, è la vera spia dell'animo mentre, a sua volta, l'animo è la forza moderatrice del discorso. [...] Bisogna dunque provvedere e all'animo e al discorso, in modo che l'animo sia giustamente severo nei riguardi del discorso e il discorso sappia mostrare tutta la grandezza dell'animo, anche se è poi chiaro che dove è finezza di animo non potrà esserci rozzezza d'espressione, proprio come, per converso, un discorso non potrà mai essere dignitoso se l'animo manca della sua propria maestà. Che può mai giovare immergersi completamente nelle fonti ciceroniane o conoscere tutti gli scrittori greci ed i nostri? A scrivere in modo ornato, forse, elegante, armonioso, altisonante; certamente non ad esprimere gravità, serietà, saggezza di pensiero e, quel che più conta, coerenza di idee. Perché se prima non avrai acquistato fermezza di volontà - e solo il saggio può raggiungere questo equilibrio - è inevitabile che, nella contraddizione dei sentimenti, siano pure in contraddizione costumi e parole. Ma una mente ben ordinata è sempre tranquilla e in quiete come un'immota serenità: sa quello che vuole, e ciò che ha voluto non cessa mai di volerlo, sì che anche se non la soccorreranno gli artifici dell'arte oratoria, trova pure in sé voci magnifiche ed austere, perfettamente corrispondenti ad essa. Non si può tuttavia negare che si possono realizzare notevoli risultati quando, calmati i sentimenti (nel loro tumulto non aspettarti mai niente di buono), ci si pone allo studio dell'eloquenza. Che se anche essa non fosse necessaria a noi personalmente, e se la nostra mente, forte delle sue forze e spiegando in silenzio le sue facoltà, non avesse bisogno dell'aiuto della parola, dovremo almeno affaticarci per il bene di coloro con i quali viviamo, e non c'è dubbio che la nostra parola possa giovare loro moltissimo.

[…]

Ma ecco che tu replichi di nuovo: «perché affaticarci oltre, dal momento che tutto ciò che può essere utile all'umanità è già stato scritto da tanti anni, in tanti volumi, con meravigliosa eloquenza e da ingegni divini?». Deponi, ti prego, questa preoccupazione; non ti sia mai stimolo alla pigrizia; alcuni fra gli antichi ci hanno già strappato questo timore e io lo farò per coloro che verranno dopo di me. Scorrano pure a mille a mille gli anni, i secoli si aggiungano ai secoli: mai si loderà abbastanza la virtù, mai si esalterà abbastanza l’amor di Dio o si predicherà la lotta contro i vizi; mai le menti più acute troveranno qualche ostacolo nella ricerca del nuovo. [...] Infine, anche se non ci si spingesse il caritatevole amore per gli uomini, direi che lo studio dell'eloquenza deve essere tenuto in considerazione, in quanto ottima cosa in sé e utilissima per noi stessi. Ognuno giudichi come vuole; per quel che mi ri­guarda io non so veramente come poter esprimere il conforto che nella solitudine mi danno alcune note e familiari parole che non solo mi nutro nel cuore ma pronuncio a voce viva e con le quali sono solito destare l'animo dormiente; la dolcezza che provo quando svolgo ora i miei ora gli scritti degli altri; il sollievo che questa lettura sa donare al mio animo oppresso da gravissimi travagli. E mi valgo talvolta proprio dei miei scritti perché i più adatti ai miei mali, quelli che la mano consapevole del medico, lui stesso malato, ha posto proprio là dove si annidava il dolore: un risultato che non avrei certo ottenuto se queste salutari parole non mi avessero lusingato l’orecchio e, spingendomi con la loro innata dolcezza a una ripetuta lettura, non mi si fossero a poco a poco come nascoste nel cuore, penetrandolo profondamente con le loro punte segrete. Addio.  

 

 

 

L’eloquenza, lo studio della forma letteraria elegante, non è per Petrarca un ornamento estrinseco del discorso: è segno della nobiltà dell'animo da cui il discorso promana. La cura delle parole sembra coincidere con l'affinamento dello spirito, tanto che il "correggere i costumi" e il "correggere forma e modi del linguaggio” sono posti sullo stesso piano. Ancora, la capacità di costruire un discorso coerente ed elevato è identificata con la serena imperturbabilità dello spirito che l'antica filosofia stoica attribuiva al saggio.

Nelle ultime righe della lettera Petrarca presenta se stesso come lettore; un po' in contrasto con l'immagine che ha dato del saggio, si dice «oppresso da gravi, acerbissimi travagli». Emerge così il tema della letteratura come consolazione: il testo letterario, altrui o proprio, consola perché con la parola ha saputo dare armonia ai moti dell'animo. La lettura è intimo colloquio e rispecchiamento, così come anche noi moderni spesso la sperimentiamo.

All'eloquenza così intesa l'autore attribuisce un valore non solo individuale, ma sociale: in due punti accenna al fatto che ciò che si scrive è destinato al bene del prossimo.

È di grande rilievo storico il passo in cui Petrarca rivendica «la ricerca del nuovo», come un compito che si pone agli scrittori in tutti i tempi; anche se i fini che attribuisce loro sono abbastanza scontati ("lodare la virtù", ecc. ), c'è qui l'idea che la conoscenza non sia conclusa, ma abbia sempre spazi illimitati da esplorare; un'idea che era estranea alla cultura medievale.