Scrivere per l'immortalità

Pietro Bembo, Prose della volgar lingua I,XVIII

Nella discussione sul modello linguistico da adottare, Carlo Bembo (portavoce dell’autore) ha affermato che nell’uso di un fiorentino letterario i non fiorentini, che lo imparano sui buoni libri, si trovano avvantaggiati sui fiorentini, che presumono di conoscerlo già e attingono involontariamente al «parlare del popolo». Un interlocutore fiorentino, Giuliano de’ Medici (figlio di Lorenzo il Magnifico), ha obiettato che le lingue mutano nel tempo e che molte parole usate dai grandi autori del Trecento sono ormai in disuso; è meglio pertanto fondarsi sull’uso linguistico attuale, e in questo sono avvantaggiati i fiorentino. Riportiamo la replica del Bembo.

 
 

La lingua delle scritture, Giuliano, non dee a quella del popolo accostarsi, se non in quanto, accostandovisi, non perde gravità, non perde grandezza; che altramente ella discostare se ne dee e dilungare, quanto le basta a mantenersi in vago e in gentile stato. Il che aviene per ciò, che appunto non debbono gli scrittori por cura di piacere alle genti solamente, che sono in vita quando essi scrivono, come voi dite, ma a quelle ancora, e per aventura molto più, che sono a vivere dopo loro: con ciò sia cosa che ciascuno la eternità alle sue fatiche più ama, che un brieve tempo. E perciò che non si può per noi compiutamente sapere quale abbia ad essere l’usanza delle favelle di quegli uomini, che nel secolo nasceranno che appresso il nostro verrà, e molto meno di quegli altri, i quali appresso noi alquanti secoli nasceranno, è da vedere che alle nostre composizioni tale forma e tale stato si dia, che elle piacer possano in ciascuna età, e ad ogni secolo, ad ogni stagione esser care; sì come diedero nella latina lingua latina loro componimenti Virgilio, Cicerone e degli altri, e nella greca Omero, Demostene e di molt'altri ai loro; i quali tutti, non mica secondo il parlare, che era in uso e in bocca del volgo della loro età, scriveano, ma secondo che parea loro che bene lor mettesse a poter piacere più lungamente. Credete voi che se il Petrarca avesse le sue canzoni con la favella composte de' suoi popolani, che elle così vaghe, così belle fossero come sono, così care, così gentili? Male credete, se ciò credete. Né il Boccaccio altresì con la bocca del popolo ragionò; quantunque alle prose ella molto meno si disconvenga, che al verso. [...]

Non è la moltitudine, Giuliano, quella che alle composizioni d'alcun secolo dona grido e auttorità, ma sono pochissimi uomini di ciascun secolo, al giudicio de' quali, perciò che sono essi più dotti degli altri riputati, danno poi le genti e la moltitudine fede, che per sé sola giudicare non sa dirittamente, e a quella parte si piega con le sue voci, a cui ella que' pochi uomini, che io dico, sente piegare. E i dotti non giudicano che alcuno bene scriva, perché egli alla moltitudine e al popolo possa piacere del secolo nel quale esso scrive: ma giudica a' dotti di qualunque secolo tanto ciascuno dover piacere, quanto egli scrive bene; ché del popolo non fanno caso. E adunque da scriver bene più che si può, perciò che le buone scritture, prima a' dotti e poi al popolo del loro secolo piacendo, piacciono altresì e a' dotti e al popolo degli altri secoli parimente.

   
 

La concezione che ha Bembo della lingua è letteraria e aristocratica. L'accostamento agli usi linguistici correnti (del "volgo") comporta un rischio di contaminazione e va regolato sull'ideale della gravità e grandezza dello stile. La fama dei grandi scrittori si estende tra la moltitudine, ma solo a partire dal giudizio di pochi competenti, che vengono ad essere i veri destinatari dell'opera letteraria.

Il criterio di riferimento di queste valutazioni è l’eternità: il grande scrittore scrive per i posteri. In questa prospettiva i mutamenti storici delle lingue sono ininfluenti: il fiorentino che Bembo sceglie non è la concreta lingua dei fiorentini di un qualche periodo, ma una lingua assoluta in funzione di una letteratura fuori del tempo. I modelli sono Petrarca e Boccaccio, non in quanto figure storiche, ma in quanto hanno depositato nelle loro opere esempi di una perfezione atemporale.

Queste concezioni, che a noi possono apparire rigide e astratte, erano adatte a risolvere la questione della lingua come si poneva al primi del Cinquecento: la lingua unitaria che si cercava era la lingua di un ceto abbastanza ristretto di intellettuali di corte, gli unici ad avere una cultura italiana e non locale.

L'ideale stilistico dichiarato da Bembo è manifestato in atto nella sua prosa, che non mira tanto all'incisività delle singole affermazioni quanto a ricercare la nobile armonia come un valore in sé. L'ampio giro dei periodi è modellato sulla sintassi boccaccesca, dalla quale riprende le inversioni e la collocazione del verbo in fine di frase.