La nascita

Vengono qui illustrate le varie teorie sulla genesi del romanzo, genere che godette di una singolare fortuna lungo il corso del Medioevo: a Oriente veniva imitato (romanzi bizantini), a Occidente letto e diffuso (un esempio forse è rintracciabile nel Decameron di Boccaccio). Nel Rinascimento ebbero grande fortuna le opere di Longo e di Eliodoro, dai quali presero spunto per alcuni episodi Cervantes e Tasso, mentre Shakespeare trasse l'ispirazione per il Pericle da un romanzo perduto.

  • Fino al 1876, anno di pubblicazione dell'opera di Rohde, si pensava a un possibile influsso delle narrazioni fantastiche orientali (India, Persia) sulla genesi del romanzo; Rohde, però, ne individuò il momento genetico nella fusione della poesia erotica alessandrina con i racconti d'avventura, avvenuta, a suo avviso, nelle scuole della II Sofistica (II secolo d.C.).

  • Le prime critiche a questa teoria furono quelle mosse dallo storico tedesco Schwartz (1896), il quale retrodatò i primi romanzi all'età ellenistica: tracciando una cronologia del "preromanzo", arrivò a individuarne nell'Odissea il più mirabile esempio. Il più duro colpo all'ipotesi di Rohde, comunque, fu inferto dal ritrovamento di fine '800 di molti papiri risalenti a epoche anteriori al II secolo, sui quali, anche se in stato frammentario, si trovavano testi di romanzi greci.

  • Lo storico delle religioni Kerényi (1927) mise in relazione le peripezie della coppia di amanti tipiche di ogni fabula con quelle della coppia divine Iside-Osiride: il romanzo vedrebbe così sminuito l'aspetto erotico a favore di quello religioso.

  • Sebbene geniale, questa interpretazione risultò non soddisfacente; quindi, sul filone iniziato dal Rohde, il Lavagnini (1921) indicò nelle leggende locali e popolari un valido antecedente del romanzo. Weinreich, poi (1950), considerò il romanzo come una sorta di epos imbastardito, il cui destinatario è una nuova cerchia di lettori, per così dire, "borghesi".

  • Ancora più convinto della validità della tesi del Rohde fu il Cataudella (1958), che collocò il momento genetico del romanzo nelle scuole di retorica (I secolo a.C.), nelle quali declamationes e controversiae trovarono grande spazio.

  • Rivoluzionaria fu la tesi del Barchiesi: non è interessante il luogo o il genere connesso al romanzo, quanto piuttosto gli influssi formativi che lo interessarono, come l'etica, la storiografia, la commedia nuova, l'elegia alessandrina, le orazioni della II Sofistica.


 

Erwin Rohde (Amburgo 1845 - Heidelberg 1898) diede un fondamentale contributo alla ricerca sulla nascita del romanzo greco, ed elaborò una teoria che, se per alcuni aspetti è ormai inaccettabile, per altri resta insuperata. Nel 1876, infatti, il filologo tedesco pubblicò un'opera (Der griechische Roman und seine Vorläufer, Lipsia) destinata a dar vita ad intensi dibattiti sulla questione della genesi del romanzo: partendo da un'attenta analisi della poesia erotica alessandrina, egli rilevò una certa affinità tra l'elegia e il romanzo stesso nell'impostazione, nell'atmosfera, nei topoi e nei formulari ricorrenti, tanto da poter considerare alcune elegie come una sorta di "romanzo in miniatura". In particolare, i brevi sunti di carattere mitologico di Partenio di Nicea (I secolo a.C.), che fornirono il modello a Cornelio Gallo per le sue elegie erotiche, possono essere considerati degli schemi di romanzi. Accanto alla tematica amorosa, nei romanzi era presente anche la componente avventurosa, propria dei racconti di viaggi in terre lontane e fantastiche. Dalla fusione avvenuta tra queste due tematiche, secondo il Rohde, avrebbe avuto origine il romanzo antico. Tale fusione ebbe vita nelle scuole di declamazione della II Sofistica (che ha il suo apice nel II secolo d.C.), nelle quali il gusto per la retorica si univa alla ricerca dell'elemento meraviglioso. Nell'ambiente culturale neosofistico sarebbe, dunque, maturata una narrativa di libera invenzione, fortemente improntata alla schematicità e letterarietà delle scuole, in cui il gusto retorico coevo si avverte nella selezione dei temi, nella stilizzazione delle forme, nella propensione alla digressione erudita o descrittiva, nella convenzionalità del linguaggio. Secondo la sua ipotesi, il romanzo dovette pertanto nascere intorno al II secolo d.C. e, in base a un criterio stilistico-comparativo, ne fu ultimo esponente Caritone di Afrodisia, collocato nel V-VI secolo. I ritrovamenti papiracei di fine '800, però, hanno dimostrato come fossero da anticipare nel tempo le date di composizione di diverse opere, tra le quali appunto quella di Caritone, che in realtà viene ad occupare il primo posto tra i romanzi interamente pervenutici. Ulteriormente anticipata risulta la stesura di alcuni romanzi, conservati in stato frammentario e ritrovati in papiri: il Romanzo di Nino, ad esempio, risale al I secolo a.C. e, pertanto, le prime stesure di romanzi vanno fatte risalire almeno a questo periodo. Da un punto di vista cronologico, la teoria proposta da Rohde risulta, pertanto, palesemente inaccettabile, ma fu il punto di partenza per la letteratura critica successiva, e in particolare di Cataudella. Per quanto riguarda, poi, i rapporti tra romanzo e novella, la tesi proposta da Rohde esclude in assoluto ogni possibile contatto tra i due generi, reputando il primo "idealistico", la seconda realistica: mentre nel romanzo il tentativo di idealizzare è costante, i principali esempi di novella antica di cui abbiamo notizia, e cioè le Fabulae milesiae (I secolo a.C.), di carattere erotico e lascivo, tendono a ridicolizzare la realtà per mezzo di una comicità licenziosa, che non disdegna beffe, equivoci e ambiguità. Secondo un'altra linea critica, invece, questi due generi potrebbero avere avuto un'origine comune e la novella andrebbe interpretata come un archetipo del romanzo.

 


 

Nel testo Fünf Vorträge über den Griechischen Roman (Cinque saggi sul romanzo greco), del 1896, E. Schwartz individua l'archetipo del romanzo greco nell'Odissea e specialmente nei libri IX-XII ove, nei racconti di Odisseo alla corte dei Feaci, domina l'elemento fantastico, fiabesco, teratologico. Schwartz avverte nei viaggi di Odisseo la trasposizione fantastica dei viaggi di esplorazione e colonizzazione degli Ioni, che dalla costa microasiatica si spinsero fino all'estremo Occidente e all'Oceano. Ma Odisseo non è l'unico "Robinson Crusoe" della civiltà greca: l'Epos degli Arimaspi di Aristea di Proconneso, vissuto alla fine del VII secolo, è un racconto in esametri epici di cui ci restano minimi frammenti: il leggendario protagonista, invasato da Apollo, immaginava di giungere presso il popolo nordico degli Issedoni; qui apprendeva strabilianti notizie su altri fantastici popoli nordici, gli Arimaspi monocoli e gli Iperborei che abitano ai confini del mondo. Lo studioso avverte in questo Epos gli echi dei viaggi degli Ioni dalla costa microasiatica verso il Mar Nero e la Russia meridionale (Saga degli Argonauti), verso il Mar Caspio e fino ai piedi del Pamir, lungo le vie carovaniere asiatiche. Schwartz annovera tra gli antecedenti del romanzo anche la Periegesi della Terra di Ecateo di Mileto, in cui coesistono curiositas ionica e ingenuo razionalismo, i lÒgoi di Erodoto, il mito platonico di Atlantide, la Ciropedia di Senofonte, che testimonia il crescente interesse del mondo greco per la cultura persiana. La storia della Persia, dai tempi del leggendario re Nino al IV secolo, era materia delle Notizie sulla Persia di Ctesia di Cnido, medico presso la corte persiana; dell'opera, in 23 libri, restano pochi frammenti e un sommario nella Biblioteca di Fozio. La storia romanzata nacque con le conquiste di Alessandro, dall'incontro tra la civiltà greca e quella persiana e orientale, tra la storiografia Ionica e le leggende asiatiche. Schwartz conduce un'accurata disamina dei caratteri della cosiddetta "storiografia di Alessandro", di cui rimangono frammenti, sommari e soprattutto citazioni e riferimenti negli storici posteriori, specialmente in Arriano. I principali "storici di Alessandro" furono Nearco, che impresse alla sua opera Navigazione lungo la costa indiana, un carattere scientifico ed etno-geografico; Tolemeo, autore più rigoroso e interessato agli aspetti strategici e politici della conquista; Onesicrito di Astipalea, che attribuì alla figura di Alessandro aspetti filosofici, soprattutto cinici; Aristobulo di Cassandrea, che scrisse in età avanzata il resoconto romanzesco delle spedizioni cui aveva personalmente partecipato; il retore Egesia di Magnesia, esponente della storiografia retorizzante, Marsia di Pella, Egippo di Olinto. Callistene di Olinto, nipote di Aristotele, celebrò in tono cortigianesco ed encomiastico le gesta di Alessandro, imprimendo alla narrazione spiccati caratteri romanzeschi. Nel III secolo gli elementi della leggenda di Alessandro e della letteratura esotica e teratologica si fusero nel cosiddetto Romanzo di Alessandro, falsamente attribuito a Callistene, compiuta sintesi di elementi storici, fantastici, meravigliosi, di ascendenze culturali di Oriente (Persia, Arabia, Egitto, India) e Occidente. Il fascino dei paesi orientali ispirò una fiorente letteratura pseudostorica ricca sia di elementi favolosi sia di intenzioni razionalistiche: lo Scritto sacro di Evemero di Messene, racconto di viaggi nell'Oceano Indiano fino all'isola favolosa di Panchaia, le opere Gli Egizi e Gli Iperborei di Ecateo di Abdera. Schwartz dedica l'ultima sezione del suo lavoro all'analisi delle connessioni e degli elementi di continuità tra la letteratura geoetnografica, teratologica, esotica e fantastica, arcaica ed ellenistica, e il romanzo greco fiorito specialmente nel II secolo d.C.; accanto all'influsso della retorica siriana microasiatica della II Sofistica, rintraccia come carattere dominante del romanzo di età greco/romana il sincretismo religioso, magico, filosofico. In Egitto, e specialmente ad Alessandria, si verificò l'incontro e la fusione di elementi culturali occidentali ed orientali: i culti di Iside, Serapide, Mitra, l'astrologia caldea, la magia egizia, la ricerca numerologica ed il misticismo di matrice pitagorica. Appartengono a questa medesima matrice culturale e si pongono in una linea di continuità con la letteratura esotica e fantastica di età arcaica ed ellenistica il romanzo di viaggi del siriano Iambulo, lo scritto di Antonio Diogene, Le meraviglie al di là di Tule, cui probabilmente si ispirò Luciano di Samosata per la sua Storia vera, e le Etiopiche del siriano Eliodoro.

 


 

Lo storico delle religioni Karoly Kerényi affrontò il problema delle origini del romanzo (Die griechisch-orientalische Romanliteratur in religionsgeschichtlicher Beleuchtung), focalizzando il suo studio sullo schema fisso comune ai vari testi letterari collocabili in questo genere: la separazione, le peripezie e il ricongiungimento finale dei due amanti. Secondo lo studioso ungherese, questa costante struttura narrativa ha come modello genetico la vicenda rituale della coppia divina costituita da Iside e Osiride. Entrambe le divinità appartengono alla religiosità egizia, tradizionalmente legata all'istituzione monarchica del paese. Danno testimonianza di ciò fonti assai antiche, risalenti alla V e VI dinastia (2280-2190 a.C.), in cui Osiride è modello per il faraone che muore, e il figlio di lui, Horus, ne impersonifica il successore al trono. Un'ulteriore conferma di questo intreccio tra piano divino e umano è data dall'usanza dei faraoni di sposare le proprie sorelle, così come Iside è sorella e sposa di Osiride. La vicenda di cui la coppia divina è  protagonista è la seguente: Osiride, per aver civilizzato la terra e in particolare l'Egitto, avrebbe dovuto diventarne il sovrano ma cadde vittima di un inganno, tesogli dal perfido fratello Seth che pure aspirava al regno. Questi, infatti, lo rinchiuse in un cofano che gettò nel Nilo; Iside, trovato il cadavere del marito, lo nascose, ma Seth, dopo averlo scoperto, lo fece a pezzi e li disperse in tutto il paese. Iside ricompose allora il corpo dello sposo, riuscì a ridargli la vita e a generare un figlio, Horus, destinato a succedere al padre, che sarebbe divenuto invece il sovrano del regno dei morti. Il culto di Iside e Osiride si modificò nel tempo e assunse una posizione dominante in tutto l'Egitto. Siccome ogni città aveva una propria divinità locale, capitò che la triade composta da Iside, Osiride ed Horus, si differenziasse, venendo caratterizzata, di volta in volta, dagli attributi delle divinità del luogo. A partire dall'età ellenistica, nel mondo greco-romano il culto isiaco si diffuse al punto da superare quelli legati al pantheon tradizionale. Esso era presente in Campania, specialmente a Pompei, fin dal I sec. a.C.; con Silla Roma ebbe un tempio di Iside, ma, durante la lotta di Ottaviano contro Antonio e Cleopatra, tutti i culti orientali furono screditati e rimasero interdetti anche sotto il regno di Augusto e Tiberio. Sotto Caligola, nel 38 d.C., fu edificato a Roma un tempio in onore di Iside, in quanto il suo culto era una moda bene accetta presso la corte imperiale. I Flavi accordarono al sacerdozio di Iside privilegi straordinari e ne favorirono la diffusione. D'altra parte, quando il cristianesimo arrivò in Egitto, fu accolto più rapidamente che altrove per le sue affinità al culto di Iside, Osiride ed Horus tra cui: l'idea trinitaria, il tema della resurrezione di Osiride, l'accostamento tra Iside e la Vergine Maria. Una simile propagazione del culto ebbe, naturalmente, riscontro nella letteratura greco-latina. Il romanzo di Eliodoro Storie etiopiche di Teagene e Cariclea, databile tra la metà del III sec. d.C. e la metà del IV sec. d.C., è particolarmente fitto di riferimenti al culto isiaco e, in generale, alla religiosità orientale. I genitori di Cariclea, la fanciulla protagonista, insieme a Teagene, della vicenda, sono entrambi sacerdoti di Elios e Selene, dato  significativo, dal momento che Elios impersonifica Osiride, mentre Selene rappresenta Iside. Compare un altro personaggio nel ruolo di sacerdote di Iside e devoto di Elios (cioè di Osiride): è Calasiri, che proteggerà e guiderà i due giovani nelle loro peripezie. I riferimenti al culto isiaco si intensificano negli ultimi libri del romanzo: nell'VIII si ha un excursus sul fiume Nilo, corredato da indicazioni sul culto di Iside e Osiride. Nel IX libro si verifica la destinazione sacrificale dei due giovani, che stanno per essere immolati a Iside per rendere sacra la vittoria degli Etiopi sugli Egizi. Teagene e Cariclea vengono posti su una graticola ma, dal momento che non bruciano, vengono ritenuti puri e risparmiati. La sezione finale del X libro è occupata dalla descrizione dei riti e dei sacrifici compiuti in onore del Sole e della Luna (ovvero, Osiride e Iside). Altra opera significativa è il De Iside di Plutarco (47-127 d.C.). Ugo Bianchi nel suo saggio Iside dea misterica. Quando? ha esaminato un passo dello scritto plutarcheo, tratto dal capitolo 27, in cui si dice:

Iside istituisce la celebrazione dei misteri come immagine, simbolo e imitazione delle sofferenze di allora e insieme come insegnamento di pietà e consolazione per gli uomini e le donne afflitti da circostanze similari.

Lo studioso evidenzia il carattere misterico del culto isiaco, diffuso in ambito ellenistico. Esso si differenzia dall'osirismo classico perché è "un'iniziazione individuale tesa al conferimento di privilegi in un aldilà isiaco"; inoltre essa ha luogo sul vivo e non sul defunto, come era tipico nel rituale faraonico egizio. Il fatto che Iside si riferisca agli uomini e alle donne come realtà distinte ha un duplice motivo: raggiungere ciascuno nella sua specifica individualità e configurare, secondo quello che è un topos isiaco, "gli uomini e le donne come costituenti l'articolazione essenziale della vita umana e il principio stesso di questa". La vocazione della dea è personale e universale, proprio come lo è il destino di morte nella condizione umana. La riflessione su questo tema, osserva Bianchi, è "un tema misterico per eccellenza" e per questo si è pensato ad un'influenza eleusina su Iside per quanto concerne le concezioni soteriologiche e le pratiche rituali. Tuttavia va fatta un'importante distinzione tra il culto isiaco e quello eleusino: mentre nel primo la vocazione divina prevede una vita pura da condurre di conseguenza, nel secondo la purezza è un presupposto dell'iniziazione stessa. Anche nel romanzo latino di Apuleio, Le Metamorfosi, si rintracciano forti connessioni con la religiosità isiaca. Il finale dell'opera (libro XI) consiste nell'iniziazione sacerdotale del protagonista, Lucio, al culto di Iside. Il lettore assiste alla conversione di Lucio che da asino ritorna uomo e, per di più, si libera dai suoi vizi per essere puro e servire degnamente la dea. Si ricordi che nel II sec. d.C., quando Apuleio scrisse Le Metamorfosi, la diffusione del culto isiaco era giunta al suo apogeo. Durante questo periodo la civiltà greco-romana visse un profondo disagio dovuto alla crisi dei valori civili e ad un progressivo impoverimento della vita economica; si crearono pertanto le condizioni ottimali per il propagarsi di sette e religioni mistiche. L'inquietudine spirituale trovò appagamento in religioni a carattere personale e soteriologico, a diffusione specialmente popolare. Scrive James Teackle Dennis ne La leggenda di Iside e Osiride nei testi originali: "Ciò che impressionerà in queste liturgie, è il sentimento profondo e sincero che le pervade: il lutto per il perduto, la speranza di rivederlo, il grido accorato di aiuto, la fiducia nel destino, divino e onnipotente, che porrà alla prova un termine felice, e il trionfo di un desiderio realizzato e di una speranza esaudita".

 


 

Nel 1921 lo studioso italiano Bruno Lavagnini pubblicò Le origini del romanzo, opera dedicata allo spinoso problema della genesi del genere del romanzo greco. L’incertezza e l’indeterminatezza che avvolgono un genere al momento della sua nascita non ci permettono di dare una data precisa alla sua fondazione. Anche il fatto che il romanzo nacque in un ambiente popolare, come filone estraneo alla letteratura ufficiale, e i suoi legami iniziali molto stretti con la storiografia ellenistica, rendono difficile fissarne una "data di nascita". Lavagnini sostiene che esso si sia sicuramente formato nel periodo ellenistico III a. C., ma che già nel secolo precedente IV a.C. si potevano rintracciare forme embrionali che presentavano i temi e gli intrecci tipici dei romanzi posteriori. Dopo aver accertato la collocazione delle origini del genere nell’Età ellenistica l’autore, afferma, superando l’ipotesi di Rohde (1876), che esso prese vita dalle leggende popolari rielaborate nel quadro della storiografia, uno dei pochi generi che durante l’Ellenismo, quando la letteratura aveva perso il contatto con il popolo ed era divenuta letteratura di corte, rispondeva alle esigenze delle classi meno colte. Di queste saghe, a carattere per lo più amoroso, connesse coi culti e con le tradizioni locali, oltre alle elaborazioni dotte dei grandi poeti ufficiali, dovettero, secondo Lavagnini, esisterne altre meno pretenziose, in prosa, fatte soprattutto per uso del popolo, che erano influenzate, appunto, dalla storiografia. Essa, infatti, raccoglieva le leggende e i miti come episodi memorabili nel corpo delle tradizioni di un popolo. Per divenire romanzo bastava che il mito fosse privato di ogni valore religioso e parlasse non più alla ragione del poeta ma alla sua fantasia. Era inoltre conseguenza necessaria, conformemente agli interessi della civiltà ellenistica, concentrata sul microcosmo familiare, che nel mito tradizionale eroico, che ora veniva rimosso dall’idealizzazione religiosa, accentuasse sempre più l’elemento erotico. Questo, acquistando per lo scrittore un interesse predominante su tutto il resto, invece di restare solo una piacevole digressione all’interno del racconto, diventava materia di composizione artistica. Con questo spostamento di interesse dall’eroico all’erotico, dal generale al particolare dell’individuo era dunque per Lavagnini nato il romanzo.

 


 

Quintino Cataudella pubblicò nel 1957 La novella greca e l’anno seguente una Prefazione al romanzo greco e latino, opere di fondamentale importanza per comprendere il pensiero dell'autore e apprezzare l'impegno della critica italiana nella questione della genesi del romanzo greco.

Cataudella, partendo dal lavoro svolto dal Rohde (1876), che vedeva nella scuole sofistiche del II secolo dopo Cristo il luogo genetico del romanzo, opera, alla luce dei ritrovamenti papiracei e dell'evoluzione della critica al riguardo, uno studio comparativo tra le opere novellistiche dell'età imperiale e le scuole non della Seconda Sofistica, ma di declamazione del I secolo avanti e dopo Cristo. Nelle declamazioni erano proposte e discusse sottili questioni di diritto e prospettate situazioni eccezionali, che tuttavia rispecchiavano, più o meno fedelmente, la vita sociale del tempo. Molte di tali situazioni avevano il carattere di trame di novelle ed è molto verosimile che ad esse si ispirassero e ne traessero spunto; è anche probabile che alcune novelle siano state, più o meno direttamente, ispirate dalle declamazioni. Cataudella si preoccupa allora di rintracciare nel romanzo quegli spunti e quei motivi presenti nelle scuole di declamazione, che costruirono il romanzo stesso e lo costituirono come genere letterario a sé, indipendente dalla pre-novella, che lo aveva alimentato e contenuto nella sua fase più antica.

La novella in origine non differisce dal racconto storico: quando Omero narra le avventure di Odisseo e Penelope, due sposi separati da una lunga serie di peripezie che alla fine si ricongiungono felicemente, secondo lo schema che diverrà tipico del romanzo greco, intende fare, a modo suo, storia; anche Erodoto intende far storia, pure quando narra la voluttuosa e sanguinosa avventura in seguito alla quale Gige pervenne al potere; e storia fa Senofonte, anche quando compone il suo romanzo filosofico sulla figura di Ciro, e quando introduce l'eroica avventura, di amore fedele e di morte, di Pantea e Abradata.

Con questo tipo di racconti si è già alle soglie del romanzo; per giungere ad esso - afferma Cataudella - basterà che gli avvenimenti, i luoghi e i personaggi perdano il rilievo dei loro contorni e la concretezza della loro individualità storica, per confondersi nel vago della maniera e della genericità, dell'anacronismo e delle deformazione della verità storica: questa è la grande novità del romanzo, il fatto che i personaggi e le trame siano di pura invenzione, anche se legati in qualche modo alla realtà di fatti avvenuti.

Per Cataudella questa innovazione nel campo della narrativa fu dovuta all'azione delle scuole di declamazione dei secoli I avanti e dopo Cristo. Per il Rohde, infatti, il romanzo sarebbe nato dalla fusione di racconto d'amore e narrazione di viaggi; ma il romanzo, contrariamente alle ipotesi del critico tedesco, è di qualche secolo anteriore alla Seconda Sofistica e non può perciò dipendere da essa. L'insegnamento nelle scuole di declamazione, invece, lavorava soprattutto sugli exempla ficta, oltre che su esempi fittizi modellati su vicende storiche: a Cataudella interessa allora vedere se nell'evoluzione del concetto di historia non abbia influito decisamente l'esempio e la pratica delle scuole di eloquenza.

L'uso delle declamazioni, nel quale si trovano le premesse che favorirono il passaggio dalla storia alla mithistoria, e con ciò l'origine della novella d'invenzione e del romanzo, non nasce con la Seconda Sofistica, sebbene in essa abbia il suo maggiore sviluppo, ma è anteriore ad essa di qualche secolo. In Roma l'uso delle controversiae nelle scuole di retorica risale per lo meno ai tempi di Cicerone, se non prima, ma in Grecia quest'uso è notevolmente più antico: per Filostrato l'iniziatore è Eschine, il fondatore della scuola rodia (389-314 avanti Cristo); per Quintiliano è Demetrio Falereo (345-283). Ma l'uso delle declamazioni nelle scuole di eloquenza è certamente più antico: le tetralogie di Antifonte, anteriori di almeno un secolo a Demetrio Falereo, ne sono una dimostrazione inconfutabile.

Benché la documentazione sull'esistenza dell'uso delle declamazioni anteriormente alla Seconda Sofistica non sia molto ricca, essa è comunque sufficiente per Cataudella a rendere possibile, anche dal lato cronologico, l'interpretazione secondo la quale il romanzo greco sia una forma decaduta di storia, una sua trasformazione nel senso della finzione, sotto l'influsso delle scuole di declamazione.

Ma la critica di Cataudella, che già offre notevolissimi spunti di indagine, non si arresta al Rohde: essa va ad esaminare anche la teoria di un altro illustre studioso italiano, Bruno Lavagnini (1921). Costui suppone che il romanzo sia una elaborazione popolare di leggende indigene, inquadrate nel panorama più ampio della storiografia, e che le fonti siano da rintracciare in cronache locali, cui fu data una redazione scritta. Ma per Cataudella Lavagnini si è limitato all'individuazione dei materiali genetici del romanzo, non alla loro giustificata concatenazione: il problema delle origini del romanzo non è solo di identificare la sostanza narrativa e di indicarne la provenienza, ma di vedere come questa materia diventi romanzo.

Questa esigenza è ricollegata da Cataudella al lavoro di Kerényi (1927), che interpretò le vicende della coppia divina egizia Iside - Osiride come il carattere fondante del romanzo greco: per Kerényi le peripezie delle due divinità sarebbero modelli del travagliato svolgimento della storia d'amore dei protagonisti del romanzo. Ma la complessità di tale teoria genetica risiede nella quasi impossibilità di reperire prove che giustifichino tale rapporto di derivazione; inoltre il romanzo non avrebbe avuto bisogno di ricercare al di fuori della letteratura i motivi e i modelli delle sue fasi originarie, quando davanti a sé si paravano schemi formali già affermati. Non trascurabile è poi la possibilità che l'interpretazione religiosa dell'origine del romanzo porti in superficie un elemento periferico e svii l'attenzione dal rinvenimento di basi più solide sulle quali fondare la nascita del romanzo. Cataudella parla allora di leggenda sì sacra, ma ormai svuotata del suo significato mistico e religioso, secolarizzata e indipendente dalla vicenda di Iside e Osiride: è la fiaba di Amore e Psiche, la storia di due giovani amanti separati per un destino ostile attraverso insidie, trame e vendette, che poi si ricongiungono in seguito ad una serie di prove alle quali uno dei due amanti è stato sottoposto per volere di una divinità offesa o trascurata. Negli amanti si possono allora vedere le figure delle due divinità egizie, nelle prove le peripezie di Iside, nel dio offeso Set. Così facendo, però, ancora una volta si fornisce solo una fonte, o forse la fonte, sulla quale il romanzo si impiantò e crebbe. Cataudella, alle obiezioni di chi affermi la necessità dell'interpretazione di Kerényi in conformità alla schematicità dell'impianto narrativo del romanzo, oppone la tesi secondo la quale i topoi romanzeschi si sarebbero codificati a causa del favore che il pubblico mostrava nei confronti di questi stessi: inutile sarebbe allora accanirsi su di una teoria difficilmente dimostrabile.

Da ultimo, Cataudella esamina la teoria di Weinreich (1950), il quale vide nell'epica il momento genetico del romanzo greco; ma, come osserva il critico italiano, l'epica è indissolubilmente legata al mito, e questo non può certo aver permesso all'autore dei romanzi la possibilità di staccarsi definitivamente da un impianto codificato di convenzioni narratologiche, per portarsi sul nuovo e diverso scenario del romanzo. A Cataudella interessa come si passò dal mito all'invenzione, trapasso che il Weinreich non approfondì: questo fu dovuto, forse, alla stessa ragione per la quale anche la tragedia abbandonò l'originaria materia dionisiaca, ovvero a causa del rapido esaurimento degli elementi mitici legati a quel culto.

Ma anche questa ipotesi non soddisfa Cataudella. Egli, in definitiva, propone come più probabile la teoria secondo la quale il romanzo nacque dalle scuole di declamazione del I secolo avanti e dopo Cristo, dall'esigenza profonda dell'uomo ellenistico di astrarsi dal presente e di rivolgere la propria attenzione ad un mondo altro, fittizio, di pura invenzione, che lo sollevasse dall'horror vacui che la decentralizzazione degli imperi gli rendeva insostenibile.

 


 

INFLUSSI FORMATIVI DELLA COMMEDIA NUOVA NEL ROMANZO GRECO
I principali sostenitori dell' influsso formativo della commedia sul romanzo greco sono A. Barchiesi e M. Fusillo. Entrambi gli studiosi mettono in risalto la parzialità delle singole spiegazioni di carattere genetico sostenendo la tesi secondo la quale il romanzo nacque grazie agli influssi di altri generi letterari precedenti. Tra questi sia Fusillo sia Barchiesi individuano la commedia nuova come uno dei generi che ha dato un apporto determinante. Se, infatti, Euripide fu il primo a rivestire di quotidianità il mito nelle sue tragedie, fu certamente la commedia nuova ad assumere come oggetto privilegiato la dimensione privata: i personaggi di Menandro sono persone ordinarie, che vivono in un mondo ordinario. Ovviamente, quindi, nella commedia si assiste a quel fenomeno di valorizzazione della vita privata, e in particolare dell'eros, che domina indiscusso il romanzo greco. Vi è un elemento che accomuna la commedia nuova e le tragedie euripidee dell'ultima fase (Elena, Ione, Oreste, Ifigenia in Tauride), cioè la Tyche (Fortuna, Sorte, Caso) che sarà la vera divinità dell'età ellenistica. "Sono la dea che arbitra e amministra tutte queste vicende, la Fortuna" dice la dea nel prologo dell'Aspis di Menandro (vv.147-148) svelando così la visione menandrea del mondo, dominato dal caso che vanifica le azioni umane e provoca coincidenze imprevedibili, avvenimenti inaspettati. La Fortuna fa sì che le azioni dell'uomo non incidano sul corso degli eventi (ad es. nell'Aspis il piano di Davo per ingannare Smicrine e concludere il matrimonio perde senso quando il padrone, creduto morto, ritorna) o che le stesse azioni umane allontanino dall'obiettivo che si vuole raggiungere . Ed è proprio su questo inconciliabilità tra il disegno della sorte e i progetti dell'uomo che si situa il ruolo della Tyche nel romanzo greco. Caritone (2.8.3) scrive: "Fu sconfitta, però, da uno stratagemma della Fortuna, l'unica contro la quale non ha alcuna forza la razionalità umana; è una dea che ama le contese, e tutto ci si può aspettare da lei. Allora, quindi, portò al successo un piano inaspettato, o piuttosto incredibile". Eliodoro fa dire a Cariclea (1.26.4): "Spesso il caso offre la soluzione che gli uomini non avrebbero trovato in infinite considerazioni". Ancora Caritone scrive: "Ogni inflessione e ogni dialogo d'amore fu rovesciato dalla Fortuna, che trovò pretesto per azioni più eccezionali" (6.8.1). Achille Tazio all'inizio della sua vicenda (1.3.3) scrive: "La Fortuna dava inizio al dramma" e, successivamente, fa dire a Clitofonte: "Ma contro di me si pone di nuovo la solita fortuna e dispone una nuova peripezia ai miei danni" (6.3.1). L'uomo non può dominare i capricci della sorte, la quale rovescia ogni progetto e previsione. Alla fine la beffa del destino si tramuta sempre in trionfo, esattamente come accade anche nella commedia. Ma se nella visione menandrea la Tyche è arbitra indiscussa di tutti gli eventi, felici o meno, nel romanzo greco si specializza come elemento negativo, ostacolo al ricongiungimento della coppia di amanti che vengono sottoposti ad una serie continua di avventure e insidie da parte dei loro nemici. Tutte le volte che il caso porta a una soluzione non si parla di Tyche ma di una generica divinità o ad un demone come in Eliodoro, 1.26.4 ("il demone che dall'inizio ha avuto in sorte di proteggere il nostro amore") o in Achille Tazio, che parla di un "demone benevolo" (3.22.3) che la Fortuna non ostacola. Neanche il lieto fine viene provocato dalla Tyche; essa è, quindi, quella forza distruttrice che rende il romanzo, con continui equivoci e separazioni, un'avventura infinita. Un'altra personificazione comune a Menandro e al romanzo è l'Ignoranza, che pronuncia il prologo dalla Pericheiromene. L'Ignoranza crea sia nella commedia sia nel romanzo quell'effetto che si definisce come ironia drammatica che nasce dalla maggiore informazione del lettore o dello spettatore rispetto ai protagonisti. Così come nella commedia così anche nel romanzo l'equivoco svolge una funzione determinante; l'intreccio di Caritone scaturisce da un equivoco (un rivale deluso fa credere a Cherea che Calliroe lo tradisca), e si sviluppa con continui quiproquo, scambi di persona, morti apparenti, insomma altri equivoci. Anche il romanzo di Achille Tazio è ricco di situazioni da commedia: alla base dell'intreccio abbiamo uno scambio di persona e il conflitto padre-figlio che tanta fortuna ebbe nella commedia latina. Persino Eliodoro, colui che si allontana maggiormente dalla commedia e dallo schematismo tipico del romanzo greco, sfrutta lo scambio di persona fra Tisbe e Cariclea in ben tre occasioni (2.1-5; 5.8; 5.2.7). 

Bisogna però specificare che nel romanzo viene accentuato rispetto a Menandro il potere del caso, a scapito dell'iniziativa umana. Nel commediografo lo spazio riservato alle possibilità di intervento e di azione umana è ridotto ma non azzerato: i piani architettati dal protagonista non ottengono successo, ma alla fine risulta vincente chi si è adoperato con tutte le sue forze per giungere ad una soluzione eticamente positiva. La ragione del minore spazio concesso all'iniziativa dell'individuo nel romanzo va individuato nello iato temporale che separa commedia e romanzo: nella commedia nuova si riflette il nuovo assetto della società ellenistica, che comporta un allontanamento delle tematiche politiche a vantaggio della sfera privata, ma il romanzo si situa in una fase successiva, nella quale l'assetto politico era già stato stabilizzato dall'impero romano. Ne deriva il senso angoscioso di un universo dipinto come inganno continuo dell'apparenza e della Fortuna verso cui l'uomo ha scarsissime possibilità d'intervento. Tuttavia l'iniziativa personale non è del tutto assente nel romanzo; spesso assume le tinte dell'intrigo da commedia, in particolare il motivo topico del piano architettato dal servo (si ricordi il ruolo di Plantagone nel favorire l'amore del padrone Dioniso per Calliroe in Caritone 2.6-11 o l'intrigo di Satiro perché Clitofonte possa raggiungere e rapire Leucippe in Tazio 2.4-31 o ancora Cibele che tenta di convincere Teagene ad unirsi con Arsace in Eliodoro 7.9-8.7).

Inoltre ci sono altre iniziative tipiche che i protagonisti oppongono alle persecuzioni della sorte che sono il travestimento e la menzogna, derivate da Omero (Odissea), rintracciabili soprattutto in Eliodoro. L'individuo si può difendere solo con l'inganno, la finzione o altri espedienti i quali non possono cambiare il corso degli eventi ma possono ritardarli, dando il tempo per far prevalere il demone benefico. Si può notare come si possa ricondurre a Menandro la generale tendenza del romanzo ad abbassare tutta la letteratura precedente a livello "borghese", come succede nei monologhi che si potrebbero definire paratragici del commediografo greco. Dal momento che, però, la maggior parte della produzione di Menandro ci è giunta in stato frammentario non è possibile fare troppe generalizzazioni per cui ci si limiterà a notare come le commedie menandree e i romanzi greci rientrino nello stesso modello narrativo: una coppia attraversa una separazione e varie peripezie fino al ricongiungimento finale. Si possono constatare alcune differenze che riguardano fondamentalmente la coppia che si può presentare fin dall'inizio come una coppia di coniugi (Menandro, Caritone), a cui può aggiungersi anche il matrimonio di un'altra coppia (Caritone, Senofonte Efesio, Achille Tazio e Menanadro). Abbiamo, ovviamente anche la fabula più lineare, la coppia che si fidanza nella fase iniziale e si sposa in quella finale, forma rappresentata da Eliodoro e Longo Sofista. Sembra quasi che i romanzi greci scaturiscano dagli intrecci menandrei, dilatati, modificati, dando molto più spazio all'avventura che riprende anche materiali storiografici, paradossografici ed oratori. Certamente le commedie menandree sono più interiorizzate, grazie ad un maggiore approfondimento della psicologia dei personaggi, e rifuggono dalla tipizzazione, mentre i romanzi greci presentano una maggiore convenzionalità. Quello che importa, però, è che sia nella commedia che nel romanzo l'intreccio venga ridotto allo spazio privato, procedimento ancora più accentuato nei romanzi del secondo periodo in cui assumono scarso spessore anche tutti i legami familiari eccetto quello amoroso. Varrà la pena di concludere il confronto tra Menandro e il romanzo osservando la fondamentale analogia della ricomposizione nei finali, sempre positivi. Ciò ha, ovviamente, le sue radici nell'Ellenismo in cui l'insicurezza e lo smarrimento erano caratteristiche peculiari e quindi era molto sentita la necessità di trovare consolazione e tranquillità. Il fatto che l'eroe sia quasi "passivo" davanti allo svolgersi degli eventi sottolinea il fatto che la vita sia vista come qualcosa di incontrollabile, in cui le iniziative dell'individuo sono inutili e in cui l'individuo stesso si smarrisce. Ma non è certo questo l'unico aspetto che permette di ritrovare nel romanzo le caratteristiche del suo tempo: capita spesso che prima del lieto fine si viva "fuori posto", concetto evidenziato dagli scambi di persona,false morti, bambini esposti che hanno perso ogni contatto con la famiglia d'origine... Da tutto questo si deduce una perdita d'identità e di ruolo dell'individuo all'interno della società e della società stessa, ormai lanciata in un nuovo orizzonte cosmopolita che porta insicurezze e paure nuove. Il lieto fine, dunque, permette di "esorcizzare" almeno in parte l'inquietudine tipica di un'età di grandi cambiamenti.