Il nome e la cosa

Il romanzo greco non si chiama romanzo. Il genere non ha un termine specifico che lo definisca e lo renda riconoscibile immediatamente nei suoi caratteri genetici e nei suoi aspetti essenziali, come invece l’epica, la storia, la tragedia, la commedia, l'elegia. Non esiste neppure un trattato antico in cui qualche erudito, grammatico, retore o filosofo, tenti di ricostruirne, attraverso una ricerca etimologica o mitografica, l’origine remota e la struttura profonda, come Aristotele nella sua Poetica o i grammatici peripatetici alessandrini per i più nobili generi dell’età classica. I grammatici antichi diedero di questo genere solo vaghe ed incerte definizioni. Ciò è dovuto a due motivi:

1. Difficoltà di catalogare per la prima volta una materia narrativa di totale invenzione

Il lettore moderno chiama romanzo l’opera di Caritone di Afrodisia, Senofonte Efesio, Achille Tazio, Longo Sofista, Eliodoro, Luciano e quella di Petronio e Apuleio senza difficoltà, quasi istintivamente. La nostra facilità nel riconoscere tali opere come romanzi è dovuta al fatto che oggi, dopo la fioritura del romanzo moderno dal Settecento in poi, abbiamo in mente un chiaro modello di romanzo e a questo modello i romanzi greci e anche quelli latini fondamentalmente aderiscono. Ma per i letterati antichi non era così. Mancava loro una letteratura narrativa in prosa nettamente individuata cui ricondurre la varia e policroma produzione di narrativa d’invenzione che fiorì dal I sec. a.C. al III d.C. in lingua greca e latina. Mancava loro una definizione comune e comprensiva per questo strano genere sfuggente e poliedrico, ora erotico, ora avventuroso, ora fantastico, ora addirittura autoreferenziale e parodistico e non si sforzarono di trovarlo. Si accontentarono quindi di chiamare di volta in volta il romanzo logos, mythos, apologos, dighesis, plasma (per quanto riguarda il greco), fabula, fabella, enarratio, historia, res ficta, exemplum fictum, argumentum (per quanto riguarda il latino):

 

2. Scarsa considerazione del genere e dei suoi autori

La cultura ufficiale disprezzava il romanzo. Lo confermerebbero le scarsissime e imprecise notizie sugli autori e la mancanza di una definizione netta del genere. Di fronte ai romanzi i dotti storcevano il naso, come i letterati dell’Ottocento di fronte ai romanzi d’appendice o come i moderni critici di fronte ai romanzi gialli o rosa o addirittura ai fumetti, ritenendoli, a voler essere gentili, paraletteratura. Noi non sappiamo quale fosse in realtà il lignaggio del romanzo. La questione è stata ferocemente dibattuta. Quel che è certo è che il romanzo era una narrativa d’intrattenimento che aveva come fine ultimo lo svago, il diletto, l’evasione, e non, o non necessariamente, l’edificazione morale o l’erudizione del suo pubblico. Quando potevano i suoi autori facevano sfoggio di abilità e cultura letteraria, ma il loro obiettivo finale era intrattenere, senza pretese di utilità o d’insegnamento. La grande diffusione del romanzo greco, e specialmente di quello erotico/avventuroso più ripetitivo e rassicurante, farebbe pensare, nella sua topica ricorrente, a un genere destinato a un pubblico medio, prevalentemente femminile e in cerca di facili emozioni, ma il fatto che un genere sia diffuso non significa necessariamente che sia anche dozzinale. Vi sono anzi romanzi scritti per un pubblico più esigente e sensibile alle raffinatezze cui si è accennato sopra. Basti ricordare il gusto per le citazioni omeriche di Caritone o lo sfoggio di competenza retorica e giudiziaria di Achille Tazio, la complessa architettura e l’impianto linguistico colto, con frequenti conii ed arcaismi di Eliodoro. A volte i grammatici tagliavano corto censurando direttamente, come nel caso dei Rhodiakà di Filippo di Amfipoli su cui un dotto bizantino annota che è un opera totalmente sconcia, altre volte inserivano sì i romanzi nella tradizione, ma raramente, a piccole dosi magari attraverso riassunti corredati da critiche, quasi a volerne attutire lo scarto e lo stridente contrasto con il resto della letteratura. Quando poi finalmente Fozio o Psello si decidevano al grande passo si sentivano peraltro in dovere di giustificare tale scelta asserendo di aver riscontrato nei testi parabole edificanti più o meno manifeste, talora pretendendo di trovare nei romanzi più di quanto in realtà ci fosse. Come nel caso di Fozio:

Da questo racconto soprattutto, come dal resto delle narrazioni fantastiche simili a questa, si possono ricavare due utilissimi insegnamenti: uno, che l’autore conduce l’ingiusto a pagare comunque il fio, anche se sembra che la faccia franca infinite volte, l’altro, che si dimostra come molti innocenti, giunti vicino ad un grande pericolo, spesso si salvano.

L’incerta cronologia ci impedisce di stabilire con sicurezza la linea evolutiva di questo genere. E’ possibile, tuttavia, distinguere due fasi: una prima fase antecedente alla fioritura della II sofistica (II-I sec. a.C.), in cui i romanzi presentano caratteri più popolari e schemi più ingenui e ripetitivi.Vi appartengono Caritone e Senofonte Efesio; alla seconda fase, postsofistica (II-III se. a.C.), appartengono le opere più originali, complesse e raffinate di Longo Sofista, Achille Tazio ed Eliodoro.

Ancor meno codificabile è il romanzo latino: le Metamorfosi del retore neosofista Apuleio si possono ascrivere alla II fase del romanzo, il Satyricon di Petronio presenta tratti originali, certamente dovuti anche alla matrice della satira miscellanea latina.