Pirandello romanziere |
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Un passo indietro, rispetto alle innovazioni del Fu Mattia Pascal, segna il romanzo successivo, I vecchi e i giovani. Fu scritto fra il 1906 e i11909, pubblicato parzialmente a puntate sulla «Rassegna contemporanea» nel 1909 e in volume ne11913. L'impianto è ancora vicino a quello del romanzo naturalistico, e può ricordare quello dei Viceré di De Roberto (1894). Nella sua forma esteriore è un romanzo storico, che rappresenta le vicende politiche e sociali della Sicilia e dell'Italia negli anni 1892-93, tra la rivolta dei Fasci siciliani guidata dai socialisti e lo scandalo della Banca Romana, che minaccia di travolgere la classe dirigente dello Stato unitario da poco formatosi. Al centro della vicenda, fittissima di personaggi, vi è una famiglia nobile di Girgenti, i Laurentano. Come suggerisce il titolo, l'intreccio si basa sul confronto fra due generazioni: i «vecchi» hanno fatto l'Italia, ma vedono i loro ideali risorgimentali sviliti e negati dalla corruzione politica presente; i « giovani» appaiono smarriti e incerti sulla direzione da imprimere alla loro vita, e la loro azione si conclude anch'essa nel fallimento. Esemplare è il caso di Lando Laurentano, divenuto socialista in nome di un bisogno di «vita», che rompa le forme fittizie e soffocanti del meccanismo sociale, ma che dinanzi alla dura repressione della rivolta dei Fasci si chiude in una rassegnata delusione. Il procedere della storia appare dunque, all'occhio pessimistico e disincantato di Pirandello, un movimento insensato che gira continuamente su se stesso, che «non conclude». Il personaggio chiave diviene perciò il vecchio don Cosmo Laurentano, che rappresenta la figura, cara a Pirandello, del «filosofo» estraniato, che ha «capito il giuoco» e guarda la vita come da un'infinita lontananza. Agli occhi del vecchio le passioni degli uomini, gli ideali patriottici, le conquiste del potere economico, le ideologie politiche come il socialismo, sono pure illusioni che ci si crea per consistere, per vivere, magari nobili ma del tutto vane, prive di realtà oggettiva, di cui non si può scorgere «né il senso né lo scopo». Tutto il complesso quadro storico del romanzo, folto di precisi riferimenti ad avvenimenti e problemi dell'Italia del decennio precedente, finisce dunque per dissolversi, per appiattirsi nel fluire insensato della vita. Il suggello del romanzo è nelle parole finali di don Cosmo: «Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi, lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo [quello che, come dice poco sopra, «si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci»], finche non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà ...passerà ...». Dietro il corposo impianto del romanzo storico e naturalistico riaffiora quindi l'«umorismo» pirandelliano, che disgrega e scompone l'assurdo meccanismo della vita sociale, con un atteggiamento di scettica irrisione e insieme di pietà. Minore importanza ha il romanzo Suo marito, scritto verso il 1909 e pubblicato nel 1911 (di cui una più tarda redazione, col titolo mutato in Giustino Roncella nato Boggiòlo, rimase incompiuta e inedita). Sullo sfondo di un'acre rappresentazione satirica degli ambienti intellettuali romani, si innesta il motivo, caro a Pirandello, del modo tutto soggettivo in cui ciascuno guarda il mondo e dell'incomunicabilità umana che ne deriva. Il contrasto qui si apre tra Silvia Roncella, scrittrice giunta a Roma dalla provincia, che rappresenta la spontaneità istintiva e totalmente disinteressata della creazione artistica, e il marito Giustino Boggiòlo, buon uomo, devotissimo alla moglie, ma limitato, attento solo agli aspetti economici della vita, che pensa esclusivamente a favorire il successo letterario della scrittrice e a bene amministrarne i guadagni. L 'inconciliabilità dei due punti di vista, resi narrativamente con la focalizzazione alternata sull'uno e sull'altro personaggio, sfocia nell'incomprensione totale e nella rottura. Connesso con i nuclei più vitali della problematica pirandelliana e denso di spunti acuti è invece il successivo Si gira ..., pubblicato nel 1915 sulla «Nuova Antologia» e poi nel 1916 in volume, ripreso e riveduto nel 1925 con il nuovo titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Dopo romanzi di impianto eterodiegetico (narratore esterno) come I vecchi e i giovani e Suo marito, Pirandello torna alla narrazione autodiegetica (narratore interno), soggettiva: il romanzo è costituito dal diario del protagonista, operatore cinematografico. Anche Serafino è il tipico eroe «filosofo», estraniato dalla vita, che contempla l'assurdo affannarsi degli uomini per inseguire illusioni che essi credono realtà oggettive. La sua professione, il suo stare sempre dietro alla macchina da presa che registra la vita, diviene la metafora di questo distacco contemplativo. Pirandello, in questo romanzo, mette a frutto la sua conoscenza diretta della nuova industria cinematografica appena affermatasi, e ha modo di affrontare uno dei nodi più urgenti della realtà contemporanea: il trionfo della macchina. È una realtà di fronte a cui gli intellettuali del tempo avevano avuto atteggiamenti quanto mai problematici: Pascoli, nella sua nostalgia per un mondo rurale ed arcaico, guardava con paura e orrore alle macchine che minacciavano di distruggerlo; D' Annunzio, per esorcizzare un analogo sentimento d'orrore per la modernità che negava la bellezza, aveva scelto di offrirsi come celebratore della nuova e inquietante realtà, levando inni alla macchina in Maia (1903) e in Forse che sì forse che no (1910); i futuristi celebravano entusiasticamente la macchina, portatrice di un'immagine nuova e sconvolgente della bellezza, nata dal dinamismo e dalla velocità. Pirandello dinanzi alla realtà industriale e alla macchina è diffidente e ostile: nella sua insofferenza per l'organizzazione sociale in assoluto, che soffoca la spontaneità della «vita», non può non provare repulsione per la macchina, che contribuisce ulteriormente a rendere meccanico il vivere degli uomini. La macchina da presa, che fissa per sempre in un fotogramma della pellicola il fluire continuamente mobile della vita, diventa emblema di questa angosciosa condizione moderna. Se la società in quanto tale, in ogni tempo, imprigiona il movimento vitale, questo suo nefasto effetto è per lo scrittore accresciuto dall'organizzazione sociale presente. Alla critica della meccanizzazione si unisce strettamente quella della mercificazione: la realtà industriale trasforma tutto in merce, negando la spontaneità dei sentimenti. Questo è particolarmente visibile in un'industria culturale come il cinema, che, a fini di profitto, fissa la vita in moduli convenzionali e stereotipati, quali sono gli intrecci dei film. La vicenda che sta al centro del romanzo sembra proprio uno dei soggetti prediletti dal cinema di consumo del tempo, una tempestosa storia d'amore, che ha al centro una "donna fatale", l'attrice russa Varia Nestoroff, e si conclude con un finale tragico, a sensazione: il giovane Aldo Nuti, innamorato geloso dell'attrice, mentre si gira una scena con una tigre, spara alla donna anziché alla belva ed è sbranato da essa; nel frattempo Serafino continua a girare meccanicamente la manovella della macchina da presa, e resta muto per lo choc subito. In realtà questo soggetto esasperatamente romanzesco è del tutto straniato ironicamente, secondo il procedimento umoristico proprio di Pirandello: da un lato al fondo di quell'intreccio convenzionale e falso vi è una materia dolente, un nucleo di autentica, straziata sofferenza, ma dall'altro la vicenda è ridotta a puro meccanismo, svuotata di senso, come Pirandello proprio negli stessi anni fa con gli intrecci dei suoi drammi «grotteschi», che portano all'assurdo e al paradosso gli schemi stereotipati del teatro borghese. Segno tangibile dello straniamento è che la vicenda, più che essere narrata e distribuita in scene, è semplicemente enunciata in una serie di riprese successive, come se si trattasse delle prove di un «romanzo da fare» (Debenedetti). Anche il finale mutismo di Serafino è denso di significati. Come suggerisce acutamente Luperini, il suo « silenzio di cosa diventa metafora della reificazione stessa dell'artista che può soltanto passare in rassegna gli avvenimenti che la realtà gli squaderna davanti, ma non può più interpretarli»: l'alienazione del soggetto non è che il riflesso dell'alienazione che domina la realtà oggettiva. Dopo Si gira…, Pirandello si dedica prevalentemente al teatro, diradando il suo impegno di narratore. Tuttavia lavora ancora ad un romanzo, Uno, nessuno e centomila, avviato sin dal 1909 ma portato a termine molto più tardi, pubblicato nel 1925-26 sulla rivista «La fiera letteraria» e infine in volume nel 1926.1l romanzo si collega al Fu Mattia Pascal, riprendendo il tema centrale della visione pirandelliana, la crisi dell'identità individuale. Il protagonista, Vitangelo Moscarda, scopre casualmente che gli altri si fanno di lui un'immagine diversa da quella che egli si è creato di se stesso, scopre cioè di non essere «uno», come aveva creduto sino a quel momento, ma di essere «centomila», nel riflesso delle prospettive degli altri, e quindi «nessuno». Questa presa di coscienza fa saltare tutto il suo sistema di certezze e determina una crisi sconvolgente. Vitangelo ha orrore delle «forme» in cui lo chiudono gli altri e non vi si riconosce, ma ha anche orrore della solitudine in cui lo piomba lo scoprire di non essere «nessuno». Decide perciò di distruggere tutte le immagini che gli altri si fanno di lui, in particolare quella dell'«usuraio» (il padre infatti gli ha lasciato in eredità una banca), per cercare di essere «uno per tutti». Ricorre così ad una serie di gesti folli e sconcertanti, come vendere la banca che gli assicura l'agiatezza. Ferito gravemente da un'amica della moglie, colta da un raptus inspiegabile di follia, al fine di evitare lo scandalo cede tutti i suoi averi per fondare un ospizio per poveri, ed egli stesso vi si fa ricoverare, estraniandosi totalmente dalla vita sociale. Proprio in questa scelta trova una sorta di guarigione dalle sue ossessioni, rinunciando definitivamente ad ogni identità e abbandonandosi pienamente al puro fluire della «vita», rifiutando di fissarsi in alcuna «forma», rinascendo nuovo in ogni istante, vivendo tutto fuori di sé e identificandosi di volta in volta nelle cose che lo circondano, alberi, vento, nuvole. Il romanzo porta alle estreme conseguenze la critica all'identità che era stata proposta più di vent'anni prima col Fu Mattia Pascal: l' eroe non si limita più ad una condizione negativa, sospesa (il fu Mattia Pascal), ma trasforma la mancanza di identità in una condizione positiva, gioiosa, in liberazione completa della «vita» da ogni limitazione mortificante. In questo abbandonarsi al fluire della «vita», in questo perdersi smemorato nella natura, in una sorta di esperienza panica, si possono però scorgere i segni di quell'irrazionalismo misticheggiante che connota l'ultima stagione pirandelliana. Uno,
nessuno e centomila
porta anche all'estremo la disgregazione della forma
romanzesca già sperimentata con le prove narrative precedenti, in particolare Il
fu Mattia Pascal e Si gira ...Si tratta anche qui di una narrazione
retrospettiva da parte del protagonista, ma essa non si concreta più nella
forma organica (per quanto parziale e provvisoria) del memoriale scritto o del
diario, come nei precedenti romanzi, bensì resta allo stato puramente
magmatico, informale, di un ininterrotto monologo. La voce narrante si abbandona
ad un convulso, torrentizio argomentare, riflettere, divagare, che dissolve la
narrazione dei fatti. Per una buona metà del libro non vi è racconto, ma solo
l'arrovellarsi ossessivo del protagonista, monologante sui temi dell’identità
fittizia, dell’inconsistenza della persona. Il discorso chiama continuamente
in causa l’interlocutore immaginario, che ad un certo punto viene persino
introdotto nella vicenda come personaggio
in carne ed ossa. Solo nella seconda parte il filo di un intreccio comincia a
dipanarsi, ma anche qui l’organicità del racconto, la concatenazione logica e
coerente delle cause e degli effetti, salta: i gesti inconsulti del protagonista
sono la negazione di ogni logica comune, sono coerenti solo all’interno della
sua follia, e così pure il gesto di Anna Rosa, l’amica della mogli e che
spara a Vitangelo, resta del tutto gratuito, immotivato e inspiegabile.
Pirandello
novelliere e la crisi del realismo
Una summa del narrabile Pirandello coltivò ininterrottamente,
nell'arco della sua vita, il genere della novella. Scrisse in tutto 246
racconti, senza però conservarne gli originali: è impossibile quindi
ricostruire le diverse varianti dei testi, e anzi in certi casi alcune di esse
sono andate perdute. Pirandello, che pubblicava via via le sue novelle su
periodici e giornali diversi, a un certo punto pensò di raccogliere i suoi
racconti in un corpus unitario, che intitolò Novelle per un anno. La
raccolta fu stampata dall'editore Bemporad di Firenze tra il 1922 e il 1928, in
tredici volumi; subentrò quindi l'editore Arnoldo Mondadori, che aggiunse altri
due volumi. L'ultimo, Una giornata, uscì postumo nel 1937. Le Novelle per un anno avrebbero
dovuto costituire una sorta di grande summa del narrabile. Pirandello
progettava infatti di scrivere 365 novelle, una per ogni giorno dell'anno,
suddividendole in 24 volumi: uno schema che derivava dalle grandi raccolte
medievali (come le novelle arabe delle Mille e una notte o il Decameron
di Boccaccio). Non poté coronare il suo desiderio; il crescente successo
dei suoi lavori teatrali lo orientò prevalentemente, a partire dal 1916-17, a
scrivere per le scene. Non tralasciò però mai del tutto di scrivere novelle e
in ogni caso risulta molto forte la parentela tra la novellistica e il teatro di
Pirandello. Sappiamo che dei 43 lavori che compongono
l'insieme della sua produzione teatrale, ben 30 derivano da novelle (una
soltanto o più): Pirandello è uno scrittore «circolare» (J.M. Gardair), che
ritorna costantemente su di sé, come per un bisogno di approfondire la sempre
mutevole e sfuggente realtà. Le sue vicende tendono a sovrapporsi e a
intrecciarsi; molte novelle diventano drammi; spunti drammatici sono sviluppati
in percorsi narrativi; nomi e figure rivivono a distanza di anni; personaggi si
ripropongono in lievi ma continue variazioni d'intreccio, e tutto ciò non fa
che riproporre l'enigmatico, inafferrabile divenire della vita. La caratteristica più evidente delle
novelle di Pirandello è la brevità dell'impianto narrativo, il piglio
incalzante, l'essenzialità. I suoi racconti, del resto, erano inizialmente
pubblicati su giornali e riviste, che esigevano una forte concisione. Ma
Pirandello predilige in modo particolare il genere della novella, perché,
rispetto alla misura lunga e articolata del romanzo, il racconto gli consente di
spezzettare l'essere in tanti frammenti disparati e incoerenti, così da
fotografare come un flash un destino, un gesto istintivo, la casualità
del destino, l'irreparabilità del male. Sul modello di Verga e di Maupassant, gli attacchi di Pirandello tendono a spiazzare il lettore: un massimo di “oggettività” apparente (il fatto accade proprio li davanti a chi legge) viene combinato con un minimo di informatività narrativa (quel fatto è inesplicabile). Il narratore dà cioè un'impressione di non sapere cosa stia per accadere e che cosa dovrà raccontare. Il lettore si trova davanti a dettagli di primo plano, di cui nulla o quasi capisce, perché gli sfugge il "totale" della prospettiva. Su di lui si rovescia una massa disordinata di informazioni, che solo dopo verranno chiarite. Anche gli antefatti di Pirandello sono
all'opposto delle ordinate ricapitolazioni della narrativa tradizionale. Il
passato riemerge per spezzoni e nel bel mezzo dell’azione, come se fossero i
personaggi, e non lo scrittore, a chiarirsi faticosamente le idee sulla propria
vita e sul mondo. Si è lontani dall’onniscienza del narratore tradizionale,
che raccontava padroneggiando il prima e il dopo, il come e il perché.
Scegliendo piuttosto una visuale soggettiva, il sapere scarso e confuso di uno o
più personaggi, Pirandello narra "di sbieco", senza motivare
adeguatamente reazioni e conseguenze. Da qui l'imprevedibilità delle sue
vicende e la frantumazione dei punti di vista. Il verismo, semplicemente, non c'è più.
Per esempio, molti racconti iniziano con una narrazione in terza persona, che si
trasforma però improvvisamente in prima persona. Così avviene per esempio in Il
treno ha fischiato; l'opposto accade invece in Non è una cosa seria. Viene
così sconvolto l'orientamento del lettore. Oppure, come nelle novelle di sapore
"filosofico" Il professor terremoto e La trappola, lo
scrittore utilizza la tecnica a incastro, cioè del racconto nel racconto: c'è
una storia primaria (spesso colta nel momento del suo irrimediabile precipitare)
che viene però alla luce solo attraverso la storia secondaria, un episodio
minore, attraverso cui, faticosamente, si ricostruiscono e si motivano i fatti. Siamo insomma agli antipodi del metodo
della narrativa realistica. Se essa curava l'univocità del punto di vista, il
relativismo di Pirandello adotta invece strutture che denuncino l'intrinseca
ambiguità e irrazionalità del reale. La presenza di visuali diverse e
contraddittorie fa esplodere il principio di fedeltà al vero dei naturalisti
ottocenteschi, e provoca l'effetto dell’assurdo. All'inizio delle novelle pirandelliane sta spesso il caso: un fatto imprevedibile che sconvolge abitudini e aspettative, gettando all'improvviso il personaggio in una situazione di forte disagio. Sono accidenti banali e quotidiani (un filo d'erba strappato, il fischio di un treno, il posarsi di una mosca, una fotografia ecc.), ma che mettono in moto nel protagonista un faticoso ma salutare processo, con cui egli diventa in grado di vedere meglio se stesso e il mondo. Alla fine, generalmente, il personaggio prende piena coscienza dell'assurdità della vita. Si tratta inoltre di personaggi
irreparabilmente perdenti: il vedovo bianco, il ragazzo padre, la fidanzata
vedova. Molti di loro appaiono sconvolti, deformati persino fisicamente. Spesso
Pirandello usa metafore grottesche o animalesche: fattezze suine, teste calve,
musi caprini, faccioni rossi, ghigno mostruosi, occhi bovini abbondano nelle Novelle
per un anno; essi non rappresentano soltanto, gridano direttamente
l’assurdità dell’esistere. In tale modo si traduce visivamente
l’idea, espressa nell’Umorismo, per cui il riso nasce dal dolore. Ma
quel che conta di più è che tale impietosa deformazione della realtà nasce
non dalle cose, ma dallo sguardo allucinato dei personaggi: è la traduzione
poetica della loro sofferenza e, in ultima analisi, del dolore della vita. I
volti spiritati e contraffatti di questi individui sono cioè, per usare un
termine caro allo scrittore, altrettante immagini della maschera che li
opprime e da cui non possono liberarsi: immagini della stanchezza della vita o,
meglio, della Pena di vivere così (è il titolo di un famoso racconto
del 1920). |
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