JEAN AMERY

Intellettuale ad Auschwitz (1966)

 

Quella di Jean Améry è la riflessione, lucida, a freddo, di chi dopo vent'anni (il libro è stato pubblicato nel 1966) ancora non è riuscito né a dimenticare, né tanto meno a farsi capire. Ebreo austriaco, dopo la guerra si stabilì in Belgio e ruppe con le proprie radici rinunciando persino al nome di nascita, Hans Mayer, ma conservando l'esperienza del lager come fondamento della propria esistenza, come il dramma a cui non si riesce a dare risposta, come l'interrogativo che il tempo non cancella ma amplifica.

Farsi capire, farsi credere, far sì che chi ascolta non abbia né dubbi né incertezze, è di qui, dunque, che la sua riflessione si muove. L'autore sceglie esplicitamente come punto di vista quello dell'"intellettuale", cioè dell'uomo dotato di sensibilità e cultura (la sensibilità che viene dalla cultura) ma che non può giovarsi, nel momento della catastrofe, né dell'ausilio della fede, né delle certezze che vengono dall'ideologia.

L'intellettuale, piuttosto, vive nel Lager l'esperienza del venir meno di ogni forma di spiritualità. Egli vive l'onnipresenza della morte e il dramma di vedersi sottratto ogni spazio di libertà che renda la vita degna di essere vissuta. Ciò che è presente è piuttosto il "morire" quotidiano e inesorabile. Questa esperienza però non è tale da costituirsi in un sapere positivo, non è tale da far diventare l'uomo più "profondo", anzi al contrario ha le caratteristiche negative di una spoliazione: "Dal Lager uscimmo denudati, derubati, svuotati, disorientati e ci volle molto tempo prima che riprendessimo il linguaggio quotidiano della libertà."

Una esperienza che non costituisce sapere, che non fonda una conoscenza. Una esperienza dell'umano che implica la rinuncia ad ogni trascendenza, ad ogni espressione spirituale, ad ogni astrattezza, ad ogni volo poetico e scopre invece lo scoglio duro e impenetrabile della carne, della sofferenza, del morire, della fame, dei corpi che si disfanno. Amery, polemicamente nei confronti dei filosofi, afferma che le loro parole nel Lager si rivelano inutili, e l'unico senso per l'Essere, cioè per le grandi questioni della metafisica, è quello dell'essere affamati, essere stanchi, essere ammalati.

Il saggio si conclude molto amaramente, esprimendo uno stato d'animo simile in modo singolare ed impressionante a quello con cui Primo Levi condusse la sua ultima opera, I sommersi e i salvati: la contraddizione insanabile tra il risentimento incancellabile della vittima che vede i propri aguzzini rialzare la testa come se niente fosse, e il fastidio che l'opinione pubblica sembra provare di fronte ai discorsi delle vittime. Impressionante, anche alla luce della tragica fine di Amery, che si è suicidato nel 1978, è la conclusione del libro, in cui l'autore sente venir meno le sue forze e teme di non riuscire a trasformare la sua rabbia di vittima in un impulso positivo alla testimonianza.

Il brano che presentiamo mette a fuoco l'esperienza della impossibilità per la vittima di abbandonarsi liberamente alle proprie fantasie. Anche l'intellettuale che potrebbe trovare dentro di sé motivi di consolazione, di conforto, è trascinato dalla realtà del Lager alla pesantezza della materia. Lo stimolo per la riflessione, per l'esercizio dello spirito, gli deriva soltanto dalla soddisfazione del bisogno primario del cibo. Perché il Lager cancella l'umanità dell'uomo, riducendo ogni essere umano ad una macchina biologica, senza interiorità.

 

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Lo spirito e il corpo

Il cosiddetto Muselmann, come nel linguaggio del Lager veniva chiamato il prigioniero che aveva abbandonato ogni speranza ed era stato abbandonato dai compagni, non possedeva più un ambito di consapevolezza in cui bene e male, nobiltà e bassezza, spiritualità e non spiritualità potessero confrontarsi. Era un cadavere ambulante, un fascio di funzioni fisiche ormai in agonia. Dobbiamo, per quanto dolorosa ci appaia la scelta, escluderlo dalle nostre considerazioni. Io non posso che prendere lo spunto dalla mia condizione personale, dalla condizione di un prigioniero che pativa la fame ma non moriva di fame, che veniva percosso ma non ucciso di botte, che era ferito, ma non mortalmente, che quindi oggettivamente ancora possedeva quel sostrato sul quale in linea di principio lo spirito può poggiare e sopravvivere. Poggiava, non vi è dubbio, su fragili basi e sopravviveva malamente: e questa è tutta la triste verità. Ho già accennato al fallimento o meglio al dissolversi di catene associative e reminiscenze estetiche. Nella maggior parte dei casi non rappresentavano una consolazione, talvolta apparivano dolorose e beffarde; il più delle volte si disperdevano in un sentimento di assoluta indifferenza.

Le eccezioni si verificavano in determinati momenti di ebbrezza. Penso a quella volta che un infermiere mi regalò un piatto di semolino dolce che divorai voracemente, raggiungendo uno stato di straordinaria euforia spirituale. Con profonda commozione pensai dapprima al fenomeno della bontà umana, al quale associai l'immagine del probo Joachim Ziemssen, un personaggio della Montagna incantata di Thomas Mann. E improvvisamente la mia coscienza si colmò caoticamente del contenuto di libri, di frammenti musicali, e riflessioni filosofiche che mi apparivano come mia produzione originale. Investito da un impetuoso desiderio di spiritualità e da un penetrante senso di autocompassione, proruppi in lacrime. Uno strato non offuscato della mia coscienza era tuttavia perfettamente consapevole del carattere fallace di questa breve esaltazione spirituale. Si trattava di un vero e proprio stato di ebbrezza, provocato da un fattore fisico. In colloqui avuti successivamente con compagni ho potuto constatare che non fui l'unico a vivere, in situazioni analoghe un breve momento di conforto spirituale. Anche nei miei compagni di sventura si verificarono spesso simili stati di ebbrezza provocati dal cibo o da un'ormai rara sigaretta. Come ogni ebbrezza, lasciavano dietro di sé un desolante sentimento di vuoto e di vergogna.

[Jean Amery, Intellettuale a Auschwitz (1966), Torino, Bollati Boringhieri, 1987]

 

 

 

Spunti per la riflessione

1. Chi era il "Muselmann" nel Lager?

2. Perché risulta impossibile all'internato conservare una propria vita interiore di sentimenti e di valori?

3. Che significato si deve attribuire al piatto di semolino dolce di cui parla Améry? Perché è così importante nella sua esperienza?

4. Il racconto si conclude alludendo ad un sentimento "di vuoto e di vergogna". Perché?