ROBERT ANTELME

La specie umana(1947)

 

L'opera di Robert Antelme (francese, nato nel 1919, morto nel 1980) è certo una delle più ricche in termini di qualità letteraria fra le tante dedicate alla vicenda del Lager. Animata com'è da un profondo intento di comprensione, essa si muove tra i ricordi dell'internato cercando continuamente, negli eventi e nei protagonisti, il dato umano e quello disumano; essa si sforza, cioè, di rappresentare non soltanto la violenza spaventosa del campo di annientamento, ma anche la verità interiore, profonda, essenziale, che quelle vicende estreme portano alla luce. Una verità che riguarda da un lato il progetto dell'annientamento scientificamente realizzato, e dall'altro l'insieme dei valori che il dramma mette in luce nelle sue vittime: l'attaccamento alla vita, il bisogno del contatto con l'altro, la resistenza interiore alla fame, alla privazione, alla brutalità, alla tortura, alla distruzione della personalità che il campo perseguiva.

La sensazione che si ricava dalla lettura di un'opera di questa natura è che il rischio della violenza assoluta, dell'annientamento, va oltre la vicenda storica del Lager, ma resta come una possibilità drammaticamente presente nella storia, nella cultura, della nostra società. Così come resterà sempre la forza per resistere, per ribadire il proprio rifiuto ad ogni tentativo di cancellare l'umanità dell'uomo.

Nel brano che presentiamo Antelme mette in scena in modo straordinario, l'esperienza della sofferenza e della morte che nel Lager significano appunto la vittoria delle forze che puntano a fare dell'uomo, con la sua storia e la sua identità, un oggetto, un numero, una unità in più o in meno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spunti per la riflessione

1. Perché il protagonista non riconosce l'amico pur ben sapendo di averlo di fronte a sé? Cosa significa "riconoscere" un amico in questo contesto? Si tratta solo di una questione d'identità, o piuttosto del realizzarsi di una relazione umana più profonda?

2. Quale sensazione ricava il protagonista di fronte al volto dell'amico?

3. K., pur ancora vivo, è diventato "nessuno". Cosa significa questo secondo l'autore?

4. "Colui che la moglie aveva visto partire era diventato uno qualsiasi di noi, uno sconosciuto per lei." Commenta questa frase.

 

torna

Il volto

- K. sta morendo, - mi avevano detto. Era all'infermeria da circa otto giorni.

K. era professore. Al campo avevamo avuto un suo amico che in Francia lo aveva conosciuto bene e che qui non lo riconosceva più. - K. era un militante solido, - mi aveva detto. Ma io non avevo conosciuto che un uomo curvo dalla voce debole, che cercava di fare quello che gli si diceva.

Sono andato all'infermeria a trovarlo. Era notte. Attraversando la piazza deserta, sono passato vicino alla baracca del Lagerältester da dove veniva un rumore di radio. Ho camminato lungo la baracca. In alto a destra si distingueva la massa della foresta. La baracca dei russi e quella dei polacchi erano state montate direttamente sulla terra fangosa, così che apparivano come delle escrescenze nere. Più su c'era quella delle SS.

A quell'ora tutti erano rientrati. Sole vegliavano le sentinelle. Le SS passavano la serata da SS e i detenuti la loro. I quattro uomini in uniforme sulla scarpata, che ogni tanto si dicevano una parola, garantivano la prigionia. L'insieme SS-detenuti, grazie a loro, restava coerente, e la notte erano queste sagome che impedivano il confondersi del sonno SS con quello dei detenuti.

Ho camminato lungo la baracca dell'infermeria, passando davanti alla piccola persiana chiusa. In terra il fango era denso e ogni tanto c'erano delle pozzanghere. Ero il solo ad essere fuori.

Arrivato in fondo alla baracca, ho aperto la porta. Nella stanza la luce era fioca, si respirava un'aria tiepida e pesante. Tutti erano nei loro letti; delle teste immobili appoggiate sui cuscini, con ombre nelle guance incavate del viso. Sulla stufa, in mezzo al corridoio che divideva i letti, l'infermiere si faceva abbrustolire delle fette di pane. Altri che, come me, erano venuti a trovare un compagno, parlavano a bassa voce. Ogni tanto arrivavano fino a noi le grida del medico spagnolo.

Ho cercato K. nei letti. Ho riconosciuto delle facce, alle quali ho fatto un cenno di saluto. Ho camminato senza far rumore lungo i letti. Cercavo K.

Ho chiesto all'infermiere, che mi ha risposto sorpreso:

- Come, - ha detto, - se ci sei passato davanti! E' là.

Mi ha accennato un letto davanti al quale ero effettivamente passato. Sono tornato sui miei passi e nei letti vicino alla porta ho guardato tutte le teste. Non ho visto K. Arrivato in fondo, mi sono girato e ho visto un tipo che prima era steso e che ora cercava di sollevarsi facendo leva sui gomiti. Aveva un lungo naso, due buche al posto delle guance, occhi blu quasi spenti, e una piega della bocca che poteva anche essere un sorriso.

Mi sono avvicinato pensando che mi guardasse, niente, ho spostato la mia testa da un lato; la sua non si è mossa e la bocca ha mantenuto la stessa piega.

Sono andato allora al letto del vicino e a lui ho chiesto dov'era K.

Ha voltato la testa e, senza parlare, mi ha indicato colui che era appoggiato sui gomiti.

Ho guardato allora quello che era K. ed ho avuto paura, paura di me. Per rassicurarmi ho guardato altre teste, le riconoscevo bene, sapevo chi erano ancora, non mi sbagliavo. L'altro era ancora nella posizione di prima, la testa ciondoloni e la bocca semiaperta. Di nuovo mi sono avvicinato e, chino su di lui, ho guardato a lungo i suoi occhi blu, poi mi sono allontanato: gli occhi non si sono mossi.

Ho guardato gli altri. Erano calmi e io li riconoscevo ancora. Subito sono tornato verso di lui.

Questa volta l'ho guardato dal sotto in su, l'ho esaminato talmente a lungo che ho finito per dirgli (anche per prova) con voce bassa ma vicinissima:

- Buona sera, vecchio mio!

Non si è mosso. Eppure io non potevo mostrarmi di più. Lui continuava ad avere sulla bocca quella specie di sorriso.

Non riconoscevo nulla ma proprio nulla di lui.

Mo fissato il suo naso, un naso lo si doveva pur riconoscere! Mi sono aggrappato a quello, niente. Ero impotente.

Mi sono allontanato dal suo letto, voltandomi spesso sempre con la speranza di ritrovare la faccia che conoscevo, no, nemmeno il naso. Solo quella testa ciondoloni con la bocca semiaperta di nessuno. Ho lasciato l'infermeria.

Tutto quel cambiamento era avvenuto in otto giorni.

Colui che la moglie aveva visto partire era diventato uno qualsiasi di noi, uno sconosciuto per lei. Ma in quel momento c'era ancora la possibilità di un doppione di K. che noi stessi non conoscevamo, non riconoscevamo. Eppure c'era ancora qualcuno che lo riconosceva. Quella trasformazione non era avvenuta senza testimoni. Quelli che avevano il letto vicino al suo, lo riconoscevano ancora. Nessuna possibilità di diventare nessuno per tutti, dunque. Quando avevo chiesto al suo vicino: - Dov'è K.? - me lo aveva subito indicato; K. era ben K. per lui.

Ora restava quel nome, K., che ondeggiava su colui che rivedevo in officina. Ma guardandolo in infermeria, non avevo potuto dire: - Ecco K. - La morte non occulta tanto mistero.

K. sarebbe morto quella notte. Questo significava che non era ancora morto; che bisognava aspettare per dichiarare morto colui che avevo conosciuto e di cui avevo ancora l'immagine in testa e di cui l'amico ne aveva un'altra ancora più antica, bisognava aspettare che colui che era là e che nessuno di noi due riconosceva più, morisse.

Questo era successo mentre K. era ancora vivo. Era un K. vivo che avevo trovato “nessuno”. Poiché non ritrovavo quello che conoscevo, perché lui non mi aveva riconosciuto, per un momento avevo dubitato di me. Ed era stato per assicurarmi che io ero ben io, che avevo guardato gli altri come per riprendere fiato.

Come le facce pressoché uguali degli altri mi avevano rassicurato, anche il morto K. ci avrebbe rassicurato, rifatto l'unità di questo uomo. Restava tuttavia, tra quello che avevo conosciuto e il morto K. che avremmo conosciuto tutti, questo “nessuno”.

[Robert Antelme, La specie umana, Torino, Einaudi, 1969]