Giuseppe Baudo, Dante e l'islam

Dante, che riposa venerato a Ravenna, morì nel 1321 a cinquantasei anni di età, dopo aver concluso la Divina Commedia e aver dato una forma sufficientemente chiara all’unica sua opera incompiuta, il Convivio.

Narra una profezia medievale riportata da Luigi Valli che il vero senso dell’opera di Dante sarebbe stato svelato soltanto seicento anni dopo la sua morte.[1]

Aggiungendo seicento anni alla data della sua morte si arriva al 1921.

Certo è che in questo nostro secolo e proprio intorno al 1920 sono apparse diverse opere molto significative che hanno permesso di beneficiare con una nuova freschezza dell’opera dantesca, in particolare quella che data 1925 di René Guénon,[2] musulmano di origine occidentale, maestro riverito conosciuto nell’Islâm come lo Shaykh ‘Abd al Wâhid Yahya, Giovanni Servo dell’Unico Dio, primo di quegli uomini spirituali del nostro tempo in grado di fare effettivamente da ponte tra Oriente ed Occidente.

Fra gli antecedenti dell’opera di Guénon – antecedenti che hanno fornito alla penetrazione spirituale dell’autore molti importanti elementi – è certamente degna di menzione l’opera uscita alle stampe nel 1919 intitolata L’escatologia musulmana nella Divina Commedia del sacerdote spagnolo Don Miguel Asin Palacios, opera soltanto ora tradotta in italiano,[3] dopo settanta anni di attesa. In quest’opera Asin Palacios rileva un’impressionante serie di corrispondenze tra testi appartenenti alla tradizione islamica (ispirati all’ascensione notturna ai cieli del Profeta Muhammad) e tutta l’opera di Dante, in particolar modo la Divina Commedia.

Anche nella tradizione islamica, infatti, il viaggio notturno di Muhammad a cavallo di al-Burâq, simbolo dell’amore divino, parte dalla Mecca per arrivare a Gerusalemme, ed è a partire da qui che ha luogo prima la discesa alle regioni infernali (al Isra’), e poi l’ascensione nei diversi paradisi o sfere celesti (al Mi’raj). Lo scopo del viaggio è la prossimità a Dio, che nell’Islâm esprime l’idea stessa di santità, stazione spirituale che permette la contemplazione diretta della divinità, alla distanza simbolica di “due tiri d’arco”. Se i profeti sono eccezionali rispetto a tutti gli uomini per aver ricevuto lo spirito profetico, il loro viaggio spirituale rappresenta il modello di ascesi da imitare per tutti i santi, per tutti i viaggiatori spirituali che si cimentano nel viaggio dell’estinzione di se stessi in nome di quella scienza per eccellenza che è la conoscenza di Dio.

Così Dante, in perfetta conformità con la tradizione cristiana, comincia il suo viaggio di lunedì santo nella selva oscura nei pressi di Gerusalemme, viaggio che durerà tutta la settimana santa fino alla Pasqua di resurrezione.

Naturalmente, a differenza della maggior parte degli orientalisti non è certo nostra intenzione avallare la concezione secondo la quale il linguaggio simbolico proprio alle differenti tradizioni sarebbe ovunque sempre simile in virtù di reciproche prese a prestito o tutt’al più in nome di una comune matrice psicologica propria all’animo umano. Per noi tali vicinanze rilevano dalla verità intrinseca alle differenti tradizioni che tutte derivano dalla comune fonte spirituale trascendente e immanente al tempo stesso che è Dio.

Vi è però una vicinanza tutta particolare durante il Medio Evo fra la tradizione cristiana quella islamica di cui  vorremmo qui parlare.

Dante stesso dichiara espressamente fin dall’inizio della Commedia il fatto che il suo viaggio ultraterreno, compiuto nel corso stesso della sua esistenza corporale, non è qualcosa di unico, anzi: egli infatti confessa inizialmente a Virgilio di sentirsi indegno per una tale impresa compiuta prima di lui da grandi uomini come Enea e San Paolo. Dunque gli antecedenti, se volessimo dire “storici”, della Divina Commedia sono esplicitamente riferiti alla tradizione romana e al Cristianesimo delle origini; del viaggio notturno del Profeta, com’è naturale, non si fa menzione. Eppure la presenza della spiritualità islamica fin nei dettagli dell’architettura dantesca è abbagliante, e il silenzio su di essa non fa che rimandare alla vitalità dello spirito in contrapposizione alla lettera morta di quei riferimenti al passato virgiliano che Dante può compiere senza tema di urtare alcuna suscettibilità proprio per il fatto stesso che non sono più attuali.

Gli esempi della vicinanza fra il racconto simbolico dantesco e quelli dell’Oriente islamico riportati da Palacios sono molteplici: vi sono nella poesia mistica di al Ma‘arri[4] tre bestie simboliche che sbarrano la via al pellegrino e sono le stesse bestie – la lonza, il leone e il lupo (nella Divina Commedia è una lupa) – che fanno indietreggiare Dante... Dante è accompagnato da Virgilio come maestro, mentre Muhammad, nella considerazione del suo ruolo di Inviato, direttamente dall’arcangelo Gabriele, ma entrambe queste guide sono giunte per ordine divino; entrambi, durante il viaggio, soddisfano la curiosità del pellegrino. L’Inferno è descritto in modo analogo come tumulto violento e confuso, caratterizzato dalla presenza del fuoco.... L’architettura dell’Inferno dantesco, espressa in questi termini per la prima volta in Occidente, è calcata su quella dell’Inferno musulmano: entrambi consistono in un gigantesco imbuto formato da una serie di piani, di gradi, o di scale circolari che discendono gradualmente fino al fondo della terra; ognuno di essi racchiude una categoria di peccatori, la cui colpevolezza e la pena corrispondente si aggravano a mano a mano che abitano un cerchio più profondo.

Ogni piano si suddivide in differenti altri, destinati a varie categorie di peccatori; infine, questi due Inferni sono entrambi situati sotto la città di Gerusalemme.... Per purificarsi all’uscita dell’Inferno e per potersi elevare al Paradiso, Dante si sottomette ad una triplice abluzione. Una stessa triplice abluzione purifica le anime nella tradizione islamica: prima di penetrare nel Cielo, esse sono immerse successivamente nelle acque di tre fiumi che irrigano il giardino di Abramo... L’architettura delle sfere celesti attraverso cui si compie l’ascensione di Dante è analoga a quella riportata in precedenza in note tradizioni islamiche: nei nove cieli sono disposti, secondo i loro meriti rispettivi, le anime beate che, alla fine, si riuniscono tutte nell’Empireo o ultima sfera... Come Beatrice si ritira d’innanzi a san Bernardo che guida Dante nelle ultime tappe, così Gabriele abbandona Muhammad presso il Trono di Dio dove sarà attirato da una ghirlanda luminosa... La prossimità a Dio è descritta in maniera analoga, come un focolare di Luce intensa, circondato da nove cerchi concentrici formati dalle file serrate d’innumerevoli spiriti angelici emettenti raggi luminosi; una delle file circolari più vicine al focolare è quella dei Cherubini; ogni cerchio circonda il cerchio immediatamente inferiore, e tutti e nove girano senza tregua intorno al centro divino... I piani infernali, i cieli astronomici, i cerchi della rosa mistica, i cori angelici che circondano il focolare della luce divina, i tre cerchi simboleggianti la trinità di persone, spesso sono ripresi da Dante parola per parola dalle opere che raccontano e commentano la personale ascensione di Muhiddyn Ibn Arabi lo Shaykh al-Akbar, il più grande dei maestri del Sufismo, la dimensione interiore dell’Islâm.

Asin Palacios conclude il suo lavoro dicendo: “Risulterà evidente che una sola letteratura religiosa, quella islamica, in uno solo dei suoi temi, quello escatologico, [...] offre al ricercatore una serie di idee, immagini, simboli e descrizioni, corrispondenti a quelle dantesche più abbondante che non tutte le letterature messe insieme finora consultate dai dantisti”.[5]

Si sa che Dante dovette cambiare la struttura del Paradiso in conseguenza di “fatti nuovi” che sconvolsero la vita spirituale e politica dei suoi tempi, come in particolare, nel 1312, la soppressione dell’Ordine dei Templari imposta a Papa Clemente V dal Re di Francia Filippo il Bello, e come infine, nel 1313, il fallimento del tentativo di rivivificazione del Sacro Romano Impero dell’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, morto in circostanze misteriose.

È noto che una delle funzioni principali della cavalleria occidentale e dei Templari era proprio il mantenimento della comunicazione con l’Oriente, e che tramite la tradizione islamica veniva mantenuto il contatto con l’Oriente più lontano e dunque in un certo senso con quella tradizione Primordiale simboleggiata nel Cristianesimo dai tre Re Magi. La rottura di questa comunicazione e l’estrema testimonianza di Dante sono fra gli avvenimenti più importanti nella storia dell’Occidente moderno che da quel momento in avanti ha cominciato ad incamminarsi in una progressiva parabola discendente. Già Ottone di Frisinga (1111 ca. - 1158), un monaco cistercense, aveva scritto che: “Ogni potere e ogni sapere hanno avuto inizio in Oriente, ma vengono a finire in Occidente, manifestando così la caducità e la decadenza di tutto ciò che è umano”.[6] D’altra parte, con lo scisma tra Cattolici e Ortodossi si era già creata una soluzione di continuità in questo flusso “naturale” di rivitalizzazione tradizionale proveniente dall’Oriente, mutando così la stessa “geografia sacra” del tempo.

Dunque nel detto che abbiamo voluto ricordare, sarebbero passati sei secoli prima che l’opera di Dante potesse tornare ad essere compresa. Al di là del valore storico della profezia, dobbiamo comunque scorgere un insegnamento profondo che riguarda la riapertura stessa della comunicazione con l’Oriente, preludio forse necessario affinché venga testimoniata la verità degli insegnamenti sapienziali tradizionali, premessa indispensabile per poter riconoscere la venuta escatologica del Cristo, la seconda per i cristiani e musulmani, la prima per gli ebrei, ma comunque la stessa per tutto il monoteismo abramico.

Se nel Medio Evo la tradizione islamica ha svolto un particolare ruolo di mediazione fra Oriente e Occidente soprattutto tramite la Spagna e la Sicilia musulmane, oggi, dopo seicento anni, l’Islâm torna a riaffacciarsi direttamente in Occidente. Questo ritorno spirituale è stato accompagnato anche da nuovi elementi sul piano speculativo. Infatti, a partire dall’epoca di René Guénon hanno cominciato a essere tradotte con maggiore consapevolezza in lingue occidentali l’opera di Ibn ‘Arabî e anche quella di altri importanti santi dell’Islâm che presentano straordinarie analogie con quella di Dante, come ad esempio Farîd ad-Dîn ‘Attâr, che scrisse il Verbo degli Uccelli,[7] il Viaggio nel Regno del Ritorno di Sana‘î (1080 ca. -1150 ca.),[8] o Ibn Hazm, autore del trattato sull’Amore intitolato Il collare della Colomba.[9] Recentemente, inoltre, è stata tradotta in italiano un’opera islamica diffusa nel XIII secolo in lingua castigliana, provenzale e anche in latino e da Dante certamente conosciuta: Il libro della Scala di Muhammad, (o di Maometto come purtroppo si dice ancora in italiano)[10] riscoperto soltanto nel 1949 e che, a motivo delle consuete concordanze con la Divina Commedia, scrive l’orientalista Carlo Saccone, “costituisce a buon diritto uno dei casi letterari più clamorosi e controversi della prima metà di questo secolo”.[11]

L’inizio di questo ritorno della presenza orientale tramite la forma islamica in Occidente può essere fatto risalire, come abbiamo detto, alla pubblicazione delle opere di René Guénon, che, riferendosi ai lavori di Asin Palacios a proposito delle corrispondenze della Divina Commedia con le opere di Muhiyyddin Ibn Arabi, il Vivificatore della Religione, morto vent’anni prima che Dante nascesse, scriveva: “Tali coincidenze fin nei dettagli estremamente precisi, non possono essere accidentali, e noi abbiamo molte ragioni per ammettere che Dante si sia effettivamente ispirato, per una parte abbastanza importante, agli scritti di Muhiyyddin; ma come li ha conosciuti? Si considera intermediario Brunetto Latini, che aveva dimorato in Spagna; ma questa ipotesi ci pare poco soddisfacente. Muhiyyddin era nato a Murcia, donde il suo nome di Al Andalusi, ma non passò tutta la sua vita in Spagna, e morì a Damasco; d’altro lato, i suoi discepoli erano sparsi in tutto il mondo islamico, ma soprattutto in Siria e in Egitto, e infine è poco probabile che le sue opere siano state fin da allora di dominio pubblico, quando anzi alcune non lo sono mai state. Infatti Muhiyyddin fu molto differente dal “poeta mistico” che immagina Asin Palacios; ciò che quest’ultimo ignora verosimilmente è che, nell’esoterismo islamico, è chiamato Esh-Shaykh al-Akbar, vale a dire il più grande dei maestri spirituali, il maestro per eccellenza, che la sua dottrina è di essenza puramente metafisica, e che parecchi dei principali Ordini iniziatici dell’Islâm, fra quelli che sono i più elevati e i più chiusi nello stesso tempo, procedono direttamente da lui. Abbiamo già indicato che nel XIII secolo, vale a dire all’epoca stessa di Muhiyyddin, tali organizzazioni furono in relazione con gli ordini della Cavalleria, e, per noi, è così che si spiega la trasmissione constatata”.[12]

Ma, vediamo meglio, che cosa furono questi Ordini Cavallereschi di cui ci parla René Guénon?

Con la conquista di Gerusalemme, durante le crociate, alcuni cavalieri cristiani presero i voti monastici e ottennero dalla gerarchia ecclesiastica di potersi costituire come Ordini contemplativi cavallereschi rinnovando così quell’unità tra spirituale e temporale simboleggiata dal Cristo, Re e Sacerdote, prefigurata già in Melkisedek, Re di Giustizia e di Pace che consacrò Abramo in nome di Dio l’Altissimo e che è nella tradizione giudaico-cristiana una figura di quel Re del mondo che rimanda sempre alla nozione di una Tradizione Primordiale, di una Sophia Perennis, di cui le forme rivelate sono come i prolungamenti nella nostra età, l’età del ferro, l’età della decadenza e della perdita dei principi spirituali. Tali prolungamenti, le tradizioni ortodosse attualmente esistenti, permettono però sempre agli uomini di buona volontà di risalire fino alla conoscenza di Dio, bevendo alla fonte di vita eterna rappresentata da quel Graal che era un simbolo cavalleresco molto importante ai tempi di Dante.

D’altra parte la dottrina dei Fedeli d’Amore presente, oltre che in Dante, anche in Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi, Lippo de’ Bardi, Dino Compagni, per citare solo i più famosi, così come prima di loro la dottrina dei poeti siciliani alla Corte di Federico II, è da considerarsi davvero ispirata da questa dimensione primordiale riportata dall’Oriente.

L’Amore di cui parlano gli stilnovisti non è che Dio stesso e la Donna amata, pur considerata nella sua concretezza umana, non fornisce che l’occasione simbolica per ricordarsi del suo prototipo celeste che altro non è se non il primo riflesso dell’Intelletto divino in questo mondo.

L’unione fra l’amante e l’amata è la stessa contemplazione divina, e il saluto è l’irrompere dell’intelligenza celeste nell’anima umana; e si ricordi tutta la sofferenza di Dante per il fatto che Beatrice gli avesse tolto per lungo tempo il saluto. Il fatto poi che da ultimo però Beatrice ceda il passo a san Bernardo nell’ascesa celeste è la riprova della superiorità dell’Intelletto divino primo, nei confronti di quella realtà che, per quanto elevata, è già una realtà creata.

 

Al cor gentil ripara sempre Amore, - aveva cantato Guido Guinizzelli, e Dante riprendeva nella Vita Nuova: Amore e il cor gentil son una cosa,[13] e sottolineava con ciò proprio la conoscenza di Dio per identificazione. Procedeva poi dicendo come l’Amore risieda nel cuore come nella sua magione, dove dorme e riposa talvolta lunga talvolta breve stagione; finché la Bellezza, che appare in una saggia donna, piace così tanto agli occhi del fedele, che nel suo cuore nasce un desiderio di essa che talvolta dura così a lungo da far risvegliare lo spirito d’Amore. Dante conclude dicendo che la stessa cosa provoca nella donna la vista di un uomo di valore. E in un altro sonetto questo spirito d’amore risvegliato viene attratto dall’intelligenza celeste fin oltre il cielo empireo.

 Oltre la spera che più larga gira

passa ’l sospiro ch’esce dal mio core:

intelligenza nova, che l’Amore

piangendo mette in lui, pur su lo tira.[14]  

In cielo lo Spirito incontra Beatrice, archetipo celeste della bellezza, il desiderio della quale era stato risvegliato nel cuore di Dante dalla vista della saggia donna terrena.

Ma la sensibilità spirituale che consente l’operatività dei simboli necessita di un risveglio che non è facile per l’uomo decaduto dal Paradiso Terrestre, e richiede uno sforzo di purificazione simboleggiato proprio dalle lacrime amarissime di Amore. Lo specchio del cuore, per quanto nobile sia in potenza in tutti gli uomini, deve divenire puro e gentile in atto purificandosi dalle passioni terrene e distogliendosi dagli oggetti esterni, così da poter attrarre l’Amore Divino il quale, essendo la Realtà e Luce, non può mancare di riflettersi ove vi sia uno specchio limpido che Gli venga esposto davanti.

Si può ricordare qui come il Profeta Muhammad ricevette in tenera età la visita di due angeli che gli aprirono il petto per estrarne il cuore e purificarlo con la neve in vista della ricezione sacrale del Sacro Corano che Dio fece poi discendere in lui, ricettacolo eletto tra gli uomini, nel suo quarantesimo anno d’età.

Una tradizione islamica esprime il simbolismo iniziatico così: “Vi è per ogni cosa un mezzo per levigarla e ripulirla dalla ruggine. E ciò che serve a levigare il cuore, è il ricordo di Dio (il dhikruLlâh)”. I segreti del ritmo e dell’armonia delle sfere che si rispecchiano in ogni espressione sacra sono presenti proprio nel dhikruLlâh islamico, come ancora forse nella preghiera del cuore dell’esichiasmo cristiano ortodosso, chiamata anch’essa mnemé, cioè ricordo, ed anche nei riti interiori di tutte le tradizioni ortodosse finalizzati al ricordo di Dio tramite l’invocazione del Suo nome. Attraverso l’incantamento dell’anima che avviene per mezzo del ritmo dell’invocazione è possibile risalire la scala dell’armonia celeste fino alla prossimità Divina in cui si realizza l’identificazione del nomen divino col Numen che ne costituisce l’essenza.

Quanto detto crediamo sia importante per poter concepire come possano aver avuto origine capolavori assoluti dell’arte e del ritmo come ad esempio le Cattedrali gotiche della Francia o la Divina Commedia in Italia, per riprendere l’accostamento suggestivo fatto da Etienne Gilson.

Molti studiosi non riescono a concepire come nell’opera di Dante l’influsso da parte dell’Islâm possa inserirsi armoniosamente nell’ambito di un contesto di evidente  ispirazione cristiana. Noi pensiamo che entrambe le cose, sia l’influenza islamica, sia l’ispirazione cristiana abbiano potuto, senza entrare in contrasto, complementarsi in una sintesi al vertice, corrispondente alla loro comune origine divina.

Anzi, il fatto che Dante riconoscesse l’Islâm come una Tradizione autentica rivelata dallo stesso ed unico Dio, a tal punto da trarre da essa la struttura del suo poema celeste, avvalora ancor più la sua posizione di cristiano metafisico e di maestro realizzato, non ignaro dell’unica Rivelazione posteriore al Cristianesimo, che riconferma quest’ultimo senza affatto abrogarlo, mentre la mancanza di una tale consapevolezza sarebbe da considerare un sintomo di un’incompletezza di conoscenza che Dante non accusa in alcun modo. D’altra parte, la conoscenza dell’unità trascendente delle religioni non è necessariamente alla portata di tutti, né è un requisito indispensabile per quella salvezza dell’anima che rappresenta il minimo cui un uomo possa aspirare tramite la pratica della propria religione e la conformità nella vita ai suoi precetti, perciò non è strano che Dante abbia potuto, specialmente nella Divina Commedia, impiegare delle formulazioni tali da non urtare la sensibilità degli uomini semplici. In questo senso, il modello universale del viaggio spirituale, così fortemente riproposto dalla tradizione islamica, viene vissuto nella Divina Commedia con tutto il supporto del simbolismo cristiano, ad imitazione della vita sacra di Cristo, il quale salì sul Golgota, morì crocefisso, e nei tre giorni successivi discese agli Inferi, risorse nella Gloria Divina e ascese al Cielo, da dove si attende la sua seconda Venuta.

La vicinanza di Dante alla tradizione islamica è però, come espresso anche dal titolo dell’opera di Asin Palacios, soprattutto sul piano escatologico, e non solo relativamente all’escatologia individuale bensì anche, su di un piano macrocosmico, relativamente all’escatologia universale. Un’importante concordanza, infatti, tra il viaggio dantesco e le tradizioni islamiche sul viaggio attraverso i mondi, che rappresentano simbolicamente i molteplici stati dell’essere, fino a Dio, consiste nell’avere lo stesso punto di partenza: Gerusalemme. È questa la “novità” del viaggio dantesco rispetto ai viaggi della tradizione greco-romana.

Se Enea comincia il suo viaggio nel Lazio, poiché in quell’epoca era Roma il centro spirituale che doveva svolgere una particolare funzione per la sua epoca, Dante riporta prepotentemente il senso escatologico per il quale ogni autentico percorso verso Dio deve essere fatto nella prospettiva e nell’anticipazione di quel momento ultimo in cui il Cristo verrà, a Gerusalemme, come giudice nel giudizio universale a cui nessuna anima potrà sottrarsi.

In questo senso, Dante svolge pienamente quella funzione escatologica di richiamo alle realtà essenziali dell’Ora della fine, funzione raccomandata vivamente nella tradizione islamica. Si dice, infatti, che il Profeta Muhammad raccontasse ai suoi compagni della fine di questo mondo in termini tali che essi temevano che il Dajjâl, l’Anticristo, fosse ormai in mezzo a loro e che si sarebbe dovuto manifestare quindi il vero Cristo.           

È in questo senso che si manifesta particolarmente la fratellanza spirituale tra il Cristo e Muhammad, che ha infatti detto stringendo assieme le dita di una mano: “In questo mondo e nell’altro non c’è nessuno che mi è più vicino di Saydna ‘Isa (‘a.), il Cristo”.

D’altra parte è emblematico che, secondo una tradizione islamica veridica, l’imperatore cristiano Eraclio abbia mostrato ad alcuni ambasciatori inviati dal primo califfo Abu Bakr a Gerusalemme un cofano che conteneva le immagini di tutti i profeti e nell’ultimo scomparto, la figura di Muhammad apparsa, nelle parole degli ambasciatori, “come se lo vedessimo ancora vivo davanti ai nostri occhi”.

La realtà metafisica della Gerusalemme terrena esprime un’anticipazione di quella Gerusalemme celeste che è effettivamente il raggiungimento di quello stato primordiale al di là del tempo al quale l’umanità ritornerà alla fine del ciclo, per intraprendere, dopo la fine, un nuovo ciclo di esistenza, un nuovo mondo.

Cristianesimo ed Islâm, le uniche due tradizioni cattoliche, nel senso etimologico, cioè universali, destinate indifferentemente a tutti i popoli e tutte le razze di questo mondo, si trovano unite così nel riconoscimento della realtà spirituale del Cristo, e nella comune attesa della sua seconda venuta, a Gerusalemme, al-Quds, la Città Santa, immagine di quella pace dello Spirito che è la vera patria d’elezione dei santi e dei cavalieri di tutti i tempi.

 

Il poeta nomade tra le nebbie dell'aldilà

Maria Corti: lo straordinario mondo dell'Alighieri


Molte cose - gli studi, la scuola, le vie e le piazze che in tante città sono a lui intestate - hanno abituato a ritenere Dante un monumento e non più un poeta. Un organismo muto nel fondo della memoria letteraria e incapace di produrre alcuna vibrazione. Le conseguenze di questa imbalsamazione possono far credere che di Dante si sappia tutto e che la critica abbia cessato di esercitarsi su di lui a causa della conclamata fissità di un personaggio incapace di sorprendere, chiuso dentro il bozzolo riservato ai padri delle lettere.

Ne parliamo con Maria Corti usando cautela. La domanda, posta in questi termini, potrebbe irritarla. E infatti la sua opinione è del tutto opposta. "Di Dante sappiamo pochissime cose", esordisce. "Non conosciamo da quali volumi fosse composta la sua biblioteca, ad esempio. E ancora sono avvolte da oscurità alcune sue espressioni. Dante amava le ambiguità di significato. Anzi, le ricercava. Come pure le parole che rimandano a universi semantici per noi ignoti, o quanto meno sfuggenti. Capita spesso di domandarsi se talvolta non avesse solo un'intenzione giocosa e invitasse il lettore ad un torneo di interpretazioni".

E lei ancora si imbatte in tante di queste oscurità?

"Ma certamente. Non bisogna mai dimenticare quello che diceva un grande studioso, Ezio Franceschini: dal medioevo sono giunti a noi solo i rottami di un violento naufragio. Accade per Dante quello che accade per molti suoi contemporanei, e a maggior ragione per lui. Ogni tanto brilla un segnale che ci pare evochi una realtà lontanissima: qualcosa a poco a poco si ristruttura, i particolari si legano e cominciano a diventare sistema. E' come quando in montagna, dietro un campanile, si alza la nebbia e il panorama riacquista contorni e proporzioni. Ma la nebbia non si solleva mai veramente. Ed è difficile spingersi molto più in là".

E' questo il punto in cui è approdata la critica dantesca?

"Direi di sì, nonostante migliaia e migliaia di lecturae Dantis e nonostante si siano accumulati quintali di bibliografia. Ma non legga le mie parole in termini di sconforto". Al contrario, il timore era di irritarla proponendo la questione di un Dante ormai mummificato. E con ciò di svalutare il lavoro di scavo che lei conduce da alcuni decenni a questa parte, quel "viaggio testuale" nell'officina dantesca, per citare uno dei suoi più bei libri...

"La parola "viaggio" rende bene il tipo di indagine che si pratica con Dante". E in qualche modo aderisce alla struttura narrativa della Commedia, il viaggio oltremondano. "Sì, ma per me l'idea del viaggio vuol essere soprattutto un invito a considerare il ruolo dell'immaginazione nella critica, l'immaginazione vista come facoltà associativa che coglie ciò che altrimenti si rintraccia per via logica, senza quel sovrappiù che l'immaginazione assicura".

Detto in altri termini?

"L'espressione "viaggio" è la metafora di un processo, creativo o critico, che contiene l'idea dell'inaspettato, della deviazione, del nomadismo della penna: si sceglie un percorso, ma non le avventure che occorrono durante il tragitto. Abbiamo il viaggio dell'autore verso il testo, quello di ogni lettore nel testo e del testo nella realtà e nella storia. Credo che l'inarrestabilità sia la legge di salvezza dell'arte".

Torniamo al viaggio di Dante e dentro Dante, soffermandoci sull’oltremondo. Da dove il poeta trae ispirazione per raccontare la realtà ultraterrena?

"Le fonti sono di vario genere. Dante ricava elementi dai classici, da Virgilio, in primo luogo, e dalla letteratura delle visioni, di cui la cultura cristiana abbonda, dai Dialoghi di Gregorio Magno all'Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda. Da qualche tempo, però, alcuni studiosi, e io fra questi, si sono concentrati su quel che Dante attinge dal mondo arabo. Le coincidenze sono evidenti. Nella letteratura islamica troviamo i viaggi di Maometto nell'oltremondo (Inferno e Paradiso), una graduatoria fra i cieli, l'architettura dei gironi e delle balze infernali, la legge del contrappasso nelle pene e la materialità di alcune di esse, i desideri terreni manifestati dai morti".

E' un'indagine che inizia con l' importante studio di Miguel Asin Palacios, Escatologia musulmana en la Divina Commedia, del 1919.

"Palacios ha individuato i temi che ricorrono nei testi arabi e in Dante. Ora si sta procedendo alla identificazione precisa delle fonti dirette, che è un bel passo in avanti per dimostrare il debito che Dante contrae con quelle opere".

Una questione di grande rilievo. Ma, prima di entrare nel dettaglio, sorge un dubbio: come si concilia il rilievo dell'islamismo nel tessuto della Commedia, grande poema cristiano?

"Non genera nessuna frizione sul piano teologico. Il problema del cristianesimo di Dante è un'altra di quelle montagne avvolte da nubi che spesso si profila davanti ai nostri occhi. E meriterebbe un discorso a sé. L'islamismo in Dante ha un rilievo espressivo. Per dirla in parole semplici: gli serve per attribuire qualità letteraria e narrativa a certe parti del poema tutt' altro che marginali".

Quali parti?

"L'Inferno, innanzitutto, che ha caratteristiche sue proprie rispetto al Purgatorio e al Paradiso, per i quali sono sufficienti a Dante la cultura dell'aldilà di matrice ecclesiastica e pagana. Per l'Inferno il poeta ritiene opportuno ricorrere a un altro aldilà".

E perché questa scelta?

"Io credo che Dante abbia preferito l'oltremondo islamico perché più carico di violenza. La sua predilezione è artistica".

Dunque è l'Inferno dove più forte si avverte la tensione drammatica che risente di questa influenza?

"Sì, a partire dall'ottavo canto, quello di Flegiàs e del veemente scontro con Filippo Argenti, durante il quale Dante esprime voti per vedere il dannato espiare la sua pena. Il centro narrativo di tutto il canto è la visione della Città di Dite, con le sue torri arroventate. Si ricorda come Dante chiama le torri? Le chiama "meschite", parola che viene dall'arabo e che indica le moschee".

Qual è la fonte di Dante?

"E' il Liber Scalae Mahometi, il Libro della Scala, un testo arabo abbastanza noto (una sua edizione la sta curando Anna Longoni per la Fondazione Bembo) che risale all'VIII secolo e che viene tradotto in latino nel 1264 presso la celebre scuola di Toledo, dove regna Alfonso X il Savio. I legami con Dante sono già stati segnalati, ma ora è possibile ricostruire le corrispondenze non solo tematiche, ma formali".

Possiamo fare qualche esempio?

"Per non tediare chi ci legge, mi posso limitare a quelli più evidenti. Torniamo alla Città di Dite, che nel testo arabo è chiamata habitatio dyaboli. A un certo punto, nel libro islamico, si dice che a un gigantesco diavolo cathenis ferreis ligaverunt unam manuum ante et alteram retro. Sa cosa dice Dante del gigante Fialte (o Efialte) nel canto XXXI dell'Inferno? Dice: "el tenea soccinto / dinanzi l'altro e dietro il braccio destro / d'una catena che 'l tenea avvinto".

Forse se ne possono fare altri di esempi.

"Come vuole. Nel Libro della Scala la dimora del diavolo è un castrum (per Dante è una fortezza), cinto da valla (le dantesche "alte fosse / che vallan quella terra sconsolata"). Nella settima bolgia dantesca sono puniti i ladri, costretti a trasformarsi in serpenti e poi di nuovo in esseri umani, affinché la punizione prosegua. La stessa cosa accade nel Libro, dove si dice che Dio fa tornare uomini quei dannati per punirli nuovamente. Inoltre, come nel testo arabo i serpenti hanno un veleno che immediatamente brucia e riduce il dannato in cenere, così Vanni Fucci "s'accese ed arse, e cener tutto / convenne che cascando divenisse"".

Ha qualche rilievo il fatto che Maometto figuri come personaggio della Commedia?

"Sicuramente. Il profeta compare nella nona bolgia, al XXVIII canto, dove sono puniti i seminatori di discordie. Faccia caso all'espressione "seminator di scandalo e di scisma" che Dante fa pronunciare a Maometto. Io penso che derivi da un passo del Libro in cui Gabriele parla, rivolgendosi ancora a Maometto, di coloro "qui verba seminant ut mittant discordiam inter gentes". Ma non è finita. Due paragrafi dopo nel Libro Maometto riflette sul principio del contrappasso, dicendo: "vidi peccatores omnes qui, prout erant singulorum peccata, ita diverso modo suppliciis torquebantur". E' solo un caso che, alla fine dello stesso XXVIII canto, Bertram dal Bornio esclami: "Così si osserva in me lo contrappasso", unico esempio del vocabolo in Dante? A me non pare. E inoltre due studiose, Carla Casagrande e Silvana Vecchio, hanno trovato esempi di contrappasso in alcune pitture murarie spagnole di origine islamica (il loro libro si intitola I sette peccati capitali ed è edito da Einaudi, n.d.r.)".

Questo per l'Inferno. Si rintracciano influenze islamiche anche in altre zone dell'oltremondo, nelle altre cantiche?

"I mussulmani non conoscono il Purgatorio per cui è solo nel Paradiso che si deve scavare. Anche se non possiamo parlare di fonte diretta, sono molto evidenti le corrispondenze fra la metafisica della luce d'origine araba e quella riproposta da Dante, che sembrano andare al di là della generica concordanza fra la mistica islamica e quella cristiana".

Ancora sorprese, quindi?

"Dante ne riserva continuamente. Ed è interessante, individuate queste ed altre eventuali fonti, misurare il colpo d'ala del poeta, il salto immaginativo che gli suscita l'impatto con l'oltremondo islamico".

Questa vicenda possiamo leggerla anche in termini di precognizione al dialogo interculturale. E' una forzatura?

"No. Ma non è affatto una novità: i rapporti fra le culture araba e cristiana, che alla fine del XIII secolo ebbero una suggestiva intensificazione, sono noti: basti ricordare il primato assunto per le traduzioni e per gli scambi da due centri come la Sicilia di Federico II o la Toledo di Alfonso il Savio".



[1] Luigi Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, Luni Editrice, Milano 1994.

[2] René Guénon, L’Esoterismo di Dante, Atanòr, Roma 1951 (prima ed. francese: Ch. Bosse, Paris 1925).

[3] Miguel Asin Palacios, La escatologia musulmana en la Divina Comedia, seguida de la historia y critica de una polémica, segunda edición, Madrid-Granada, 1943.Trad. ital. Dante e l’Islâm, Pratiche Editrice, Parma 1994. Quest’opera non si limita a trovare le corrispondenze della Divina Commedia con opere islamiche anteriori ma rileva anche quelle presenti nelle altre opere di Dante, particolarmente nella Vita Nuova e nel Convivio.

[4] Vedasi Abû al ‘Ala’ al Ma‘arrî, Risalat al Ghofran, trad fr. L’Épître du pardon, traduction, introduction et notes par Vincent-Mansour Monteil, Gallimard, Paris 1984.

[5] Citazione riportata nel saggio di Carlo Saccone, Il “Mi‘raj” di Maometto: una leggenda tra Oriente e Occidente, incluso ne Il Libro della Scala , SE, Milano 1991.

[6] V, Proleg., in Etienne Gilson, La philosophie au moyen age, trad. it. La filosofia nel Medioevo, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 396-397.

[7] Farîd ad-Dîn ‘Attar, Il verbo degli uccelli, SE, Milano 1986.

[8] Sana’i, Viaggio nel Regno del Ritorno, Pratiche Editrice, Parma 1993.

[9] Ibn Hazm, Il collare della colomba, Laterza, Bari 1949, 19832.

[10] Il Libro della scala di Maometto, SE, Milano 1991.

[11] Vedasi il saggio di Carlo Saccone in conclusione de Il Libro della scala di Maometto, SE, Milano 1991.

[12] René Guénon, L’esoterismo di Dante, Atanor, Roma 1951.

[13] Amor e il cor gentil son una cosa,

sì come il saggio in suo dittare pone

e l’uno senza l’altro esser osa

com’alma razional senza ragione.

Falli natura quando è amorosa,

Amòr per sire e il cor per sua magione,

dentro la qual dormendo si riposa

tal volta poca e tal lunga stagione.

Bieltate appare in saggia donna pui,

che piace agli occhi sì che dentro al core

nasce un disio della cosa piacente;

e tanto dura talora in costui,

che fa svegliar lo spirito d’Amore.

E simil face in donna omo valente.

(Dante, Vita Nuova  XX).

[14] Il sonetto continua:

Quand’elli è giunto là dove disira,

vede una donna che riceve onore,

e luce sì, che per lo suo splendore

lo peregrino spirito la mira.

Vedela tal, che quando ’l mi ridice,

io no lo intendo, sì parla sottile

al cor dolente che lo fa parlare.

So io che parla di quella gentile,

però che spesso ricorda Beatrice,

sì ch’io lo ’ntendo ben, donne mie care.

(Dante, Vita Nuova XLIII).