Muhammad all'inferno

Solitamente si sostiene che l’episodio di Muhammad, in cui la violenza realistica della rappresentazione tocca uno dei suoi culmini in tutta l’opera di Dante, sia ispirato esclusivamente all’immagine che di Muhammad aveva tracciato la leggenda in Occidente, argomento appena accennato, ma magistralmente analizzato da Alessandro D’Ancona nel secondo volume dei suoi "Studi di critica e storia letteraria", Bologna 1912. Secondo noi, chi avanza questa tesi, più che giustificare l’operato di Dante, inconsapevolmente, lo scredita, evidenziando due aspetti del tutto estranei, o meglio sconosciuti, del comportamento e della personalità del fiorentino:

1.    Dante cade nella trappola della voce popolare e in un errore grossolano, ignorando chi fosse il Profeta, nonostante la fama e il rispetto di cui godeva Muhammad anche da parte di giuristi insigni come il Buoncompagni che in pieno Duecento, nella vicina Bologna, ricordava il Profeta fra le fonti giuridiche del "De origine iuris".

2.    Dante inserisce l’episodio volutamente all’interno di un canto irto e tortuoso, con la sola intenzione di lusingare qualche suo contemporaneo, assetato di vendetta contro quell’invidioso e malvagio prete, anzi cardinale, che scatena lo scisma per rancore a causa della sua mancata elezione al papato, o per soddisfare altre sue basse passioni.

In tutte e due le ipotesi Dante dimostrerebbe limiti e debolezze inconsueti (salvo con la Chiesa, ovviamente), assumendo per di più un atteggiamento quanto mai negativo e oltraggioso nei riguardi dell’islam. Tuttavia non si capisce perché Dante l’avverroista, stimatore, senza mai manifestarlo, della cultura arabo-islamica, uomo solitamente indulgente, abbia voluto fornire di Muhammad l’immagine più rozza e più realistica della Commedia. Che Dante fosse incorso in un banale errore e ignorasse chi fosse Muhammad, non è opinione affatto credibile, se non altro perché sarebbe lesiva della sua intelligenza e offensiva per il suo alto ingegno. Né tanto meno risulta facilmente accettabile il fatto che Dante avesse voluto scendere a quel bassissimo livello, sì da offrire quel carname dilaniato (introdotto da una volgarissima similitudine) solo per appagare il desiderio di qualche suo contemporaneo assetato di sangue saraceno. In questa sede volgiamo avanzare una ipotesi mai azzardata e suggestiva, ma probabilmente più aderente a quello stato psicologico che potremmo chiamare "sindrome del debitore". E’ senz’altro un luogo comune, particolarmente nella letteratura umoristica: la violenta antipatia che caratterizza il personaggio del creditore. Colui verso il quale si è in debito è sempre, e con una costanza impressionante, persona odiata; particolarmente se il creditore, come in questo caso, è un corpo estraneo, rifiutato dalla coscienza della collettività, odiato dalle stesse istituzioni politiche, sociali, culturali e religiose. Anzi, l’accanimento contro il creditore in queste condizioni diventa un dovere quasi morale e un obbligo per la sopravvivenza in quella società. Nel trattamento atroce, volgare e violento, anche nel linguaggio che Dante riserva ingiustificatamente al Profeta, di cui peraltro non rivela la vera identità, ma lo accomuna ad un oscuro e altrimenti ignoto personaggio, il novarese Fra Dolcino, ci sembra si possa insinuare un sospetto di "sindrome del debitore". Quanto deve l’Occidente all’islam? E quanto deve lo stesso Dante alla cultura arabo-islamica? Non è questa la sede opportuna per affrontare questa pagina della storia dell’occidente: per quanto riguarda Dante, basterà leggere "L’escatologia islamica nella Divina Commedia" (ora tradotta anche in italiano) che l’insigne arabista spagnolo Miguel Asin Palacios scrisse già in epoca non sospetta, siamo nel 1919, per dimostrare la diretta dipendenza dell’impianto della Commedia dalla visione del profeta Muhammad e del suo viaggio nei regni dell’oltretomba, noto come "Libro della Scala", ipotesi poi suffragata dalle ricerche di Enrico Cerulli che, oltre ad essere l’editore delle tre versioni del Libro della Scala - in catalano, francese e latino, fatte in Spagna per ordine di Alfonso X il Savio -, in un discorso "pronunziato nel Salone dei Duecento del Palazzo della Signoria in Firenze" il 31 maggio 1956 indicò nel senese Bonaventura, notaio e scrivano di re Alfonso, il traduttore delle due versioni latina e francese, già in circolazione in Toscana fin dalla seconda metà del Duecento. Sfugge a questa norma e non senza motivi plausibili, il Saladino. La generosità era, com’è noto, considerata nel Medioevo, almeno tra i poeti e per motivi facili da intuire, come la virtù dei principi. Infatti quella che si attribuisce, e non senza ragione, al Saladino nella poesia medioevale, lo rese celebre quasi alla stregua di Alessandro. Anche Dante non è estraneo a questa consuetudine, esclama infatti nel "Convivio", IV, XI 14: "E cui non è ancora nel cuore di Alessandro per li suoi reali benefici? Cui non è ancora lo buono re di Castella o il Saladino o il buono Marchese di Monferrato..." Ed è assai probabile che, per questa stessa considerazione, Dante abbia collocato nel Limbo il Saladino, il solo dei musulmani, in mezzo agli eroi dell’antichità risparmiati dal vero inferno:

E solo in parte, vidi ‘l Saladino (Inf. IV, 129)

A dire il vero il Saladino non è l’unico musulmano risparmiato dall’inferno dantesco. Anche Avicenna e Averroè "che il gran commento feo", per altri motivi, sicuramente più nobili della generosità dei principi, trovano posto nel Limbo fra "li spiriti magni" che "sovra ‘l verde smalto... con occhi tardi e gravi... parlavano rado, con voci soavi" insieme al "maestro di color che sanno", cioè Aristotele. (Inf. IV, 143-44). Dante comunque non risparmia dal suo Inferno chiunque si sia avvicinato alla cultura arabo-islamica; basti ricordare la sorte di Michele Scotto (Michael Scott), il filosofo e scienziato scozzese celebre per le sue traduzioni dall’arabo in latino di parecchi libri dello Stagirita e di un compendio aristotelico di Avicenna e per i suoi studi di alchimia, condannato alla quarta bolgia dell’Inferno, quella degli indovini, dove i dannati hanno la testa capovolta e con passi lenti e stentati camminano all’indietro. Nemmeno papa Silvestro II (Gerberto, il Franco), reo di aver frequentato la cultura arabo-islamica "fonte di tutti i mali", sfugge al duro giudizio di Dante, che lo ricorda addirittura come consigliere di frode.

Del resto anche Bertrand de Born, signore del Castello di Hautfort in Guascogna, poeta provenzale del XII secolo, ricordato da Dante nel Convivio (IV.xi.14) tra i più grandi uomini degni di onore e nel "De Vulgari Eloquentia" tra i grandi cantori della lirica eroica, Dante infligge, alla fine dello stesso canto, la mutilazione più straordinaria di ogni altra e, aggiungiamo, più di ogni altra atroce e sconcia. Anzi sembra che l’architettura di tutto il canto, nella sua progressione di scenari orrendi di "sangue e piaghe", porti volutamente a culminare nella rappresentazione di Bertrand de Born. Anche qui, come nell’episodio di Muhammad nulla ricorda il poeta provenzale della sua poesia eroica, dei suoi serventesi, ma solo di una presunta colpa scismatica che, francamente non giustifica in nessun modo quella terribile pena del contropatimento. Qui ci chiediamo, e ci sembra che la domanda sia d’obbligo, quali sono i reali motivi che hanno spinto Dante a raffigurare in questa raccapricciante e esemplare mutilazione il tanto celebrato e lodato cantore delle armi del De Vulgari Eloquentia. Più di un critico ha voluto vedere nel canto XXVIII dell’Inferno un canto epico. Ma basterà l’insistenza dell’esordio sullo spettacolo raccapricciante dei campi di battaglia gremiti di cadaveri e di ossami e la chiusa, ricollegata simmetricamente all’esordio sull’eccezionalità dello spettacolo, a dimostrare il carattere epico del canto? Noi, invece, vediamo nell’accanimento di Dante contro il poeta provenzale lo stesso motivo psicologico che abbiamo supposto per Muhammad. Dante non è cantore di armi, non è poeta epico e, se è vero che avesse tentato di fare poesia epica in cinque canti dell’Inferno, dal XXVI al XXX, come asserisce qualche insigne critico, Bertran de Born, stimatissimo poeta delle armi, è stato certamente una fonte preziosa e un modello a cui Dante si è ispirato. Ed è in questa chiave che si scatena il meccanismo del fiorentino quello stato di rabbia e di ira contro il "creditore". Comportamento identico e, se si vuole anche simmetrico, con quello dell’esordio con Muhammad. La nostra è ovviamente una mera ipotesi, una delle tante avanzate nel tentativo di gettare luce su questo oscuro, intricatissimo canto; è una ipotesi tutta ancora da discutere, da vagliare e da verificare, ma è soprattutto un invito agli amici musulmani di accantonare quel senso di frustrazione e di offesa che finora ha caratterizzato la loro reazione alla lettura del canto XXVIII dell’Inferno. E’ un invito a vedere quell’episodio, non l’offesa recata al Profeta, ma lo stato di inferiorità di Dante che egli stesso, per inconscia ammirazione e per intima gratitudine, lascia trasparire dalla noncuranza e perfino dall’ironia dell’atteggiamento di Muhammad e, più ancora, dalla fierezza della sua risposta, spavalda e insieme superba:

..."or vedi com’io mi dilacco!
Vedi come storpiato è M a o m e t t o!"

La posizione del nome, alla fine del verso, suona alto in tutta l’imponenza della sua larga sillabazione e suscita infiniti significati. Ma questi due versi, secondo noi, suggeriscono una sola interpretazione "Saziati pure alla vista del mio carname, ma ricordati chi sono io: M a o m e t t o, qui non fiaccato dal martirio, su in terra venerato da milioni di uomini, che riempiono il mondo con la loro fede e la loro scienza".

Con l’Umanesimo il periodo detto della "cultura araba", venne considerato un’epoca di barbarie, responsabile dell’adulterazione dell’ideale dell’antichità greco-romana, della quale occorreva riappropriarsi per assumerla come modello. Singolare può apparire che tra i protagonisti di una simile "crociata" si trovi pure uno dei padri fondatori dell’Umanesimo letterario, Francesco Petrarca. Non solo il Petrarca esprime con vigore la sua avversione per lo stile dei poeti arabi - a lui per altro completamente sconosciuti - ma nelle "Invective contra medicum", scritto nel 1352 in risposta ad un medico avignonese che curava Papa Clemente VI, si scaglia violentemente contro i fisici suoi contemporanei, accusandoli di dipendere troppo dalla scienza araba in cui stava "la fonte di tutti i mali". Il Petrarca vedeva nel medico avignonese un suo nemico capitale, non solo l’antiumanista, ma soprattutto lo scienziato avverroista. Era il periodo della "guerra di religione", della lotta fra le due concezioni di vita, fra le due culture, fra le due tendenze dello spirito umano, che continuano tuttora a scontrarsi, sia pure su diversi livelli. Ma era anche il periodo in cui, mescolando scienze e religione, era notevolmente sentita la necessità di cancellare quegli "effetti nefasti" della scienza islamica che aveva caratterizzato il duecento, detto appunto "il secolo arabo" o "il secolo senza Roma".

E con questa netta avversione dell’umanista Petrarca per la cultura arabo-islamica cala praticamente il sipario sul mondo dell’islam fino ai nostri giorni. Ciò non significa affatto che sono mancati i contatti fra l’Europa e il mondo dell’Islam. Anzi i rapporti non sono mai cessati, neppure le ostilità - le cosiddette crociate durano fino al Settecento -, mentre è più recente la guerra contro l’Impero Ottomano, per non parlare dell’occupazione militare europea di vasti territori di paesi a maggioranza islamica e il perdurante colonialismo economico e culturale che investe la totalità dei paesi dove si confessa la fede islamica. Ma, al di là dei luoghi comuni, della ricerca dell’esotico e del misterioso, l’Europa non ha mai cercato di capire realmente l’islam nella pluralità del suo pensiero, il suo messaggio, la sua cultura e la sua civiltà.