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Italo Calvino

(tratto da: G.M. Anselmi - G. Fenocchio, Tempi e immagini della letteratura, vol. 6: Il Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 645-681) 

1. Gli anni del dopoguerra: la «smania di raccontare»

 

IL PRIMO ROMANZO: IL SENTIERO DEI NIDI DI RAGNO. Nel 1947, con l'intenzione di partecipa­re a un concorso indetto dall'editore Mondadori, Calvino scrive il suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno; l'opera non vince il concorso, ma incontra l'approvazione di Pavese ed è pubblicata da Einaudi. La particolarità del momento storico è fondamentale per questo romanzo: come numerose opere della narrativa neorealista dell'immediato dopoguerra, II sentiero dei nidi di ragno propone una rilettura della vicenda bellica appena trascorsa. Ma la particolarità che lo rende un romanzo quasi unico nella tradi­zione letteraria italiana consiste nel fatto che la guerra è raccontata attraverso gli occhi trasognati e di­spettosi di un bambino, Pin, che vede il mondo con asciutta e inconsapevole chiarezza, senza saper di­stinguere il bene dal male e senza saper decifrare gli eventi della storia. Pin, il «bambino vecchio» prota­gonista della vicenda, osserva le esistenze misteriose e ingarbugliate dei grandi: gli amplessi animale­schi della sorella, spiati dalla sua camera stretta e scura; l'umanità storta, rabberciata della brigata parti­giana con cui viene in contatto; le parole oscure e affascinanti del mondo degli adulti («GAP», «troschi­sta», «STEN», «SIM» ecc.), alle quali attribuisce significati favolosi. Tutto questo è la storia, ma Pin non lo sa: alla Storia appartiene anche la pistola che egli ruba a un ufficiale tedesco, amante della sorella, che però diventa l'oggetto magico delle favole, l'anello che rende invisibili, la bacchetta magica per entrare nel mondo dei grandi.

 

IL SAPORE ASPRO DELLA VITA. Secondo lo stesso Calvino, «l'esplosione letteraria» del secondo dopoguerra fu «prima che un fatto d'arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo», la pulsione irrefre­nabile a dire, a raccontare, a illustrare gli anni della lotta silenziosa, della paura, della morte e anche del disinganno. La guerra, la vita partigiana con le sue contraddizioni e miserie, sono considerate il riflesso storico di una più vasta condizione esistenziale; assumono un valore sostanziale e diventano gli stru­menti più immediati e preziosi per un'intera generazione di scrittori che, appena usciti da lunghi anni di buio e morte, sono spinti da una inesauribile ansia di esprimere. Esprimere che cosa? Nella prefazione scritta nel 1964 per una nuova edizione del Sentiero dei nidi di ragno, Calvino dà una risposta che, nei toni appassionati, è una viva testimonianza del suo profondo coinvolgimento nel clima dell'epoca: «Noi stes­si, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse veramente in quel momento sapevamo ed eravamo. Personaggi, paesaggi, spari, didasca­lie politiche, voci gergali, parolacce, lirismi, armi ed amplessi non erano che colori della tavolozza, note del pentagramma, sapevamo fin troppo bene che quel che contava era la musica e non il libretto, mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti che eravamo, mai lirici così effusivi come quegli og­gettivi che passavamo per essere».

 

VERSO UN NUOVO REALISMO. In questa rilettura a posteriori dei propri esordi letterari, Calvino punta il dito su uno dei nodi cruciali di tutta la, sua poetica: il complesso e talora conflittuale rapporto tra il conte­nuto e la forma dell'opera letteraria, Nel caso del Sentiero dei nidi di ragno il contenuto politico e ideologico sembrerebbe imporsi con la sua drammatica urgenza; tuttavia Calvino non tralascia di sottolineare l'impor­tanza fondamentale delle scelte linguistiche e stilistiche. Negli anni difficili e tormentati dell'immediato do­poguerra, riflettendo su una realtà composita, spuria, caotica come la lotta partigiana, dove sembrerebbero venire meno ogni regola e ogni gerarchia, Calvino avverte un'esigenza imprescindibile di ordine, di rigore mentale, in grado di far convivere in un giusto equilibrio i due poli dell'esperienza letteraria, la forma (lo sti­le terso ed esatto) e il contenuto (la complessità del mondo), lo slancio lirico e l'oggettività.

Dopo la seconda guerra mondiale, Calvino e gli altri autori del movimento neorealista si impegnano dunque nella costruzione di una lingua narrativa vicina alla realtà del popolo e capace di dare voce alle espe­rienze della quotidianità, di calare le vicende della "grande storia" nel piccolo orizzonte dei personaggi più oscuri e dimenticati. Non è un caso, allora, che tra i punti di riferimento del Neorealismo ci siano i ve­risti, Verga soprattutto, uno dei modelli dichiarati da Calvino per il Sentiero dei nidi di ragno. Se i veristi perseguono il canone dell'impersonalità, i neorealisti vogliono che le proprie opere si esprimano con una voce anonima, collettiva, quasi fossero il riflesso immediato e istintivo di quanto è accaduto, di quegli «elementi extraletterari» che, con le parole di Calvino, si impongono come «un dato di natura», più forte di qualsiasi ragione. Attraverso la semplificazione delle forme narrative, come è stato osservato da Maria Corti, Calvino aspira «a offrire delle vicende che dovrebbero raccontarsi da sole», come per una genera­zione spontanea ma al tempo stesso controllatissima, in cui mai un elemento sovrasti gli altri, mai una voce spicchi in quello che vuole essere un coro uniforme e compatto.

 

IL VALORE E LA RESPONSABILITÀ DELL’OPERA LETTERARIA. L’Italia del secondo dopoguerra è un mondo particolarmente difficile. Calvino vi si butta con passione, convinto che esistano una peculia­rità, un'energia e una responsabilità specifiche con cui la letteratura può agire sulla realtà e contribuire al suo farsi; il calviniano «trasformare in opera letteraria il mondo» significa individuare un ordine, un senso, una finalità laddove sembrano prevalere solo la confusione e lo sconforto. In questa fase della sua vita Calvino crede profondamente nella forza propositiva ed educatrice del lavoro letterario, e un entusiasmo simile continua a sostenere la sua produzione narrativa per quasi tutti gli anni cinquanta: egli nutre nei confronti della letteratura una fiducia profonda e totale, un ottimismo della volontà che però non vuole nascondere le durezze e i drammi del vivere e che rifugge da ogni schermo consolatorio. La realtà, nelle sue prime opere, è presentata con una secchezza diretta, essenziale, talvolta violenta; la condizione umana si manifesta in tutto il suo dolore, lo scrittore non ne smussa mai le asprezze, non ne omette gli aspetti più duri, difficili o persino ripugnanti.

 

UNA VISIONE ANTIRETORICA DELLA RESISTENZA. Nel Sentiero dei nidi di ragno Calvino costrui­sce un'immagine della Resistenza assolutamente antieroica, lontana dalle celebrazioni agiografiche che in questo periodo sembrano incombere su chiunque intenda affrontare questo tema. Gli uomini della bri­gata partigiana rappresentano un'umanità umile, dolente, prosaica, e proprio per questo tanto più vera: essi sono dipinti senza alcun intento di abbellire o attenuare la loro esistenza fatta di dolore, perdite, con­traddizioni e tradimenti, con un gusto che rasenta talora l'espressionismo: Pietromagro appare con una «faccia gialla, pelosa come quella di un cane»; Cugino ha «un'aria da mascherone per quella grande bocca maldentata e quel naso spiaccicato sulla faccia»; la Giglia «ha gli occhi verdi e muove il collo come una schiena di gatto». Pin è un bambino privo di quella grazia affettata e falsa che spesso imbelletta l'infanzia in letteratura. Calvino lo descrive con «le mani nelle tasche della giacca troppo da uomo per lui» e «una voce rauca da bambino vecchio», come un tipico ragazzo del sottoproletariato cittadino del tempo.

 

I RACCONTI DI ULTIMO VIENE IL CORVO. La medesima forza espressiva ritorna anche nei trenta racconti di Ultimo viene il corvo, pubblicati nel 1949 raccogliendo testi di varia provenien­za, scritti dal 1945 in poi e comparsi su varie riviste e giornali. In seguito, la raccolta confluirà parzial­mente nel volume Racconti del 1958 e avrà infine una terza edizione nel 1969, riveduta nella scelta dei ti­toli e nell'impianto generale.

I racconti di Ultimo viene il corvo sono una sorta di laboratorio di forme e di temi quanto mai ricco ed effi­cace: Calvino vi sperimenta le varie possibilità della propria gamma espressiva, dai toni crudamente rea­listici a quelli mitico-onirici o comico-grotteschi, seguendo tre linee tematiche, spesso intrecciate tra loro, descritte dallo stesso scrittore in una nota editoriale del 1969: «la prima è il racconto "della Resistenza" (o comunque di guerra o violenza) vista come avventura di suspence o di terrore [...]. La seconda linea [...] è il racconto picaresco del dopoguerra [...]. Nella terza domina il paesaggio della Riviera, con ragazzi o adolescenti e animali, come personale sviluppo d'una "letteratura della memoria"». Particolarmente si­gnificativo è il filone picaresco, già presente nel Sentiero dei nidi di ragno, con cui Calvino si ricollega a un'illustre tradizione letteraria, che va dall'anonimo spagnolo del Cinquecento Lazarillo de Tormes, attra­verso il romanzo del Settecento inglese, fino alle Confessioni di un italiano di Nievo: vengono così narrate le storie di formazione di piccoli antieroi che vivono le loro minime esperienze con la carica vitale e l'en­tusiasmo di una grande avventura. Il commento più azzeccato a Ultimo viene il corvo rimane quello di Vittorini, che la descrive come un «mazzo di racconti che in parte parvero spontanei e selvatici, dei fiori di campo, e in parte un po' sforzati o comunque coltivati, dei fiori di serra».

 

 

2. Tra realismo e moralismo

 

UNO SGUARDO CRITICO SULLA REALTÀ CONTEMPORANEA. Nel corso degli anni cinquanta Cal­vino si cimenta nella forma del racconto lungo, per affrontare tematiche di grande rilievo politico, sociale e morale; nascono così La formica argentina (1952), La speculazione edilizia (1957) e La nuvola di smog (1958), parte di un filone narrativo che lo stesso Calvino definisce «autobiografico-intellettuale»: spunti tratti da una contemporaneità sempre più caotica vengono filtrati dalla lucida intelligenza letteraria dello scrittore, che ne ricava rappresentazioni emblematiche del proprio tempo. Queste opere apparentemente conservano un impianto narrativo neorealista; in realtà si caricano di profondi significati simbolici, di cui l'autore si serve per avviare un'indagine critica sulla realtà contemporanea, soffermandosi soprattutto sui problemi posti dalle nuove prospettive urbane e industriali. Calvino, in particolare, intende offrire una visione amara e criti­ca del progresso industriale e sociale, del cosiddetto “boom" o "miracolo economico" decantato in quegli anni, lasciandone scorgere i risvolti negativi: la diffusione della miseria, dell'avidità, dell'egoismo, della disu­guaglianza e la perdita di valori come la libertà, la bellezza, la spontaneità, la naturalezza.

Proprio questi diventano i temi più importanti della narrativa e della saggistica di Calvino negli anni ses­santa, quando, con il passaggio dal mondo rurale delle tradizioni a quello industrializzato, si impongono nuovi ritmi, nuovi valori, nuovi modelli di riferimento, ai quali egli guarda sempre con occhio attento, con una curiosità temperata di scetticismo, ma senza cadere mai in atteggiamenti nostalgici. Così nella serie di racconti MarcovaIdo ovvero le stagioni in città (1963) sono esposti, con toni amari e ironici, i sintomi più gravi del malessere contemporaneo: la degradazione del paesaggio, la qualità alienante e spesso grotte­sca della vita condotta nelle grandi città, l'inquinamento diffuso dalle industrie, le conseguenze funeste del consumismo pubblicitario, la decadenza dei costumi pubblici e privati (con il trionfo dell'imbroglio, della corruzione e della truffa).

 

LA FINE DELLE ILLUSIONI: LA SPECULAZIONE EDILIZIA. Pubblicata per la prima volta nel 1957 sulla rivista "Botteghe oscure", La speculazione edilizia viene inserita l'anno dopo nella raccolta dei Racconti ed edita infine come volume autonomo nel 1963. Il titolo, fatto non consueto in Calvino, rinuncia a ogni suggestione evocativa per riassumere in maniera piana e oggettiva l'argomento dell'opera.

Come nella successiva Giornata d'uno scrutatore, anche qui lo scrittore mette a fuoco una sorta di alter ego, Quinto Anfossi, un intellettuale ligure che ha partecipato alla Resistenza e vissuto in prima persona gli entusiasmi, le speranze e gli ideali del dopoguerra, ma che ora è senza un'occupazione stabile: egli interpreta la figura dell'intellettuale in crisi degli anni cinquanta, che vede sfumare ogni reale possibilità di agire nella storia, di cambiare il flusso stanco e avvilito dell'esistenza umana, limitandosi a subire il mondo invece di partecipare alla sua costruzione. Nel romanzo questo atteggiamento di disfatta storica prende la forma di un fenomeno tipico nell'Italia del boom economico: la speculazione edilizia, respon­sabile di molte delle brutture architettoniche e urbanistiche che ancora oggi deturpano il nostro paese. Alla speculazione edilizia, che proprio sulla costa ligure familiare a Calvino divenne particolarmente sel­vaggia, Quinto sceglie di prendere parte entrando in società con un imprenditore dalla reputazione al­quanto dubbia, perché vuole conquistarsi una fetta di quella ricchezza che sembra alla portata di tutti, pur riconoscendo lo scempio della città in cui è cresciuto e la bassezza morale di coloro che lo hanno causato. Ma la tentata speculazione di Quinto, incapace di seguire adeguatamente i la­vori di costruzione e di destreggiarsi fra le pastoie burocratiche, è destinata a fallire miseramente: diven­ta simbolo dell'incapacità di una generazione nutritasi dell'utopia di ricostruire il paese su solide basi morali, e dell'avanzare della nuova società industriale e borghese, senza ideali, tenacemente aggrappa­ta ai valori materiali.

 

LA GIORNATA D'UNO SCRUTATORE. Pubblicato nel 1963, La giornata d'uno scrutatore viene giudica­to da Calvino il suo racconto «più pensoso». L’opera, costruita con un linguaggio asciutto e meditativo, narra della giornata che, in occasione delle votazioni politiche del 1953, il giovane Amerigo Ormea tra­scorre, come scrutatore iscritto al Partito comunista, nel seggio elettorale allestito all'interno del Cotto­lengo, uno dei più famosi ospizi di Torino in cui sono ricoverati minorati mentali e portatori di handicap fisici senza speranze di guarigione. Amerigo vi arriva già consapevole di dover fronteggiare un tentativo di imbroglio organizzato dal clero, con l'aiuto delle suore, per far votare i malati a favore della Democra­zia Cristiana. A tale disegno il protagonista si ribella, condannandone la natura illegale e offensiva: con esso, infatti, si danneggia la dignità di creature prive di coscienza e di autocontrollo, obbligandole a un gesto per esse incomprensibile e finalizzato agli altrui interessi.

La narrazione registra anche le riflessioni di Amerigo, che, osservando il microcosmo di sofferenze e or­rori in cui è piombato, si interroga in maniera quasi ossessiva sul senso della politica, della storia, della vita. Il contatto con le forme estreme e più insensate che il dolore umano può assume­re mette in crisi la sua schematica e razionale visione del mondo. Così, oltre a essere un pamphlet sulle contraddizioni e le ipocrisie della politica italiana nel secondo dopoguerra, La giornata d'uno scrutatore diventa anche un diario interiore «d'uno storicista», secondo le parole di Calvino stesso, «che vede a un tratto il mondo trasformato in un immenso "Cottolengo" e che vuole salvare le ragioni dell'operare storico insieme ad altre ragioni, appena intuite in quella sua giornata, del fondo segreto della persona umana».

Calvino era stato al Cottolengo durante le elezioni del 1953 come candidato del Partito comunista e vi era ritornato come scrutatore nel 1961, ed è questa l'esperienza che dà l'impulso decisivo a un progetto nar­rativo su cui lo scrittore stava rimuginando da tempo. La giornata d'uno scrutatore non può però conside­rarsi come la cronaca impressionistica di un'esperienza autobiografica; al contrario, l'autore si mantiene sempre su un registro di pacata riflessione, i cui toni si fanno tanto più accesi quanto più certa è la consa­pevolezza che nessuna teoria, nessuna logica o progetto politico potranno mai risolvere fino in fondo quel groviglio di contraddizioni e misteri che è la realtà umana.

 

 

3. Fiabesco, comico e fantastico: approcci "obliqui" alla complessità del reale

 

I TRE ROMANZI FIABESCHI DEGLI ANNI CINQUANTA. Durante il medesimo decennio (dal 1950 al 1960), accanto alle opere realistiche e ideologicamente impegnate nell'analisi della società contempo­ranea, la vena fiabesca guida Calvino alla composizione di tre romanzi fantastici, dove, dietro la trama surreale e immaginosa, sono simboleggiati valori e verità essenziali nella vita umana: Il visconte dimezza­to, II barone rampante e Il cavaliere inesistente.

Il visconte dimezzato, pubblicato nel 1952, narra una vicenda irreale, emblema della lotta tra il bene e il male. La storia si svolge nel tardo Cinquecento, durante le guerre fra cristiani e turchi: in uno di questi scontri il visconte Medardo di Terralba viene letteralmente diviso in due da una cannonata, ed è costretto a continuare la propria vita così, scisso in due personaggi che rappresentano uno la sua parte buona, l'al­tro quella malvagia, quasi un nuovo dottor Jekyll costretto a rivelare il proprio mister Hyde, il lato oscuro rimasto sempre in ombra. Calvino rivisita il tema romantico del "doppio", conferendogli le tonalità ironi­che che sono tipiche del suo stile più maturo: alla fine dell'opera, infatti, in seguito a un duello tra le due parti, a un chirurgo viene consentito di ricongiungerle.

Il barone rampante, del 1957, racconta la strana vita di Cosimo di Rondò, nobile ligure che all'età di dodici anni decide di salire su un albero, e dagli alberi non scende più, fino alla morte. L’pera è ambientata alla fine del Settecento, il secolo dei Lumi, l'epoca di cui Calvino ammira il vigile e costante razionalismo, simboleggiato dal protagonista della fiaba, che non è integrato o immerso nelle passioni irrazionali, ma vive sugli alberi in una condizione di isolamento, di autocontrollo emotivo e di superiore forza intellet­tuale. Con questa vicenda giocosa e assurda Calvino intende rappresentare la possibilità dell'uomo di partecipare al processo storico, tanto più concreta quanto più egli si dimostra capace di ironia e distacco, accompagnati però dall'impegno e dalla pervicacia nel seguire i propri scopi, per quanto velleitari. Pro­prio questo è l'atteggiamento che distingue Cosimo di Rondò nel corso della sua lunga esistenza sugli al­beri, separato dalla società cosiddetta "civile", ma nello stesso tempo partecipe: perché, spiega Calvino, «per essere con gli altri veramente, la sola via era d'essere separato dagli altri, d'imporre testardamente a sé e agli altri quella sua incomoda singolarità e solitudine in tutte le ore e in tutti i momenti della sua vita, così come è vocazione del poeta, dell'esploratore, del rivoluzionario».

Nel 1959, infine, Calvino pubblica Il Cavaliere inesistente, che, ispirandosi al genere del romanzo cavallere­sco, narra le avventure di.Agilulfo, un cavaliere dell'esercito di Carlo Magno, di cui però esiste solo la luc­cicante e vuota armatura. Il non-essere del cavaliere rappresenta un tipo umano peculiare del mondo moderno, l'individuo roso dal dubbio e dall'incertezza fino a diventare un'ombra o un'ipotesi di identità. Gli si contrappone il personaggio di Gurdulù, il suo scudiero, pura fisicità priva di qualsiasi coscienza, «identificazione generale col mondo oggettivo», secondo la definizione di Calvino stesso.

I NOSTRI ANTENATI: L’ALBERO GENEALOGICO DEGLI UOMINI D'OGGI.   Nel 1960 i tre ro­manzi sono raccolti da Calvino in un unico volume, a formare una vera e propria trilogia, dal titolo I nostri antenati; il libro è accompagnato da una postfazione che illustra il senso e l'importanza che que­sti tre testi rivestono nel cammino creativo dell'autore. Caduti gli ideali della Resistenza, ormai venuta meno la spinta morale dell'immediato dopoguerra, lo scrittore si trova a fronteggiare una realtà nuova, il più delle volte difficile e ostile: nuovi rapporti tra le classi sociali, nuove prospettive aperte dallo svi­luppo urbano e industriale, che il canone neorealista si dimostra inadeguato a rappresentare. Al grigio­re fiacco e placidamente rassegnato di questa nuova realtà, Calvino decide di opporre il vigore imma­ginifico di storie fantastiche, che però non rappresentano una fuga, ma una chiave di lettura del mon­do, un metodo per aderire obliquamente alla storia, salvandone quel tanto di vitalità, purezza e ideali­smo che ancora è rimasto. L'intenzione di Calvino è dunque quella di allontanarsi dalla realtà per di­stinguerne meglio le linee essenziali, la direzione profonda. Il genere fiabesco è utilizzato dallo scritto­re in chiave etica, perché il suo fine, pur con la leggerezza di un racconto inventato, è educare il letto­re a indagare, scoprire e proporre nuovi modi di partecipazione al processo storico in atto. Medardo, Cosimo e Agilulfo sono dunque «i nostri antenati», perché in loro possiamo riconoscere la stessa ricer­ca assillante, le stesse domande, gli stessi dubbi che abitano la vita dell'uomo moderno: le loro storie, inverosimili ma così piene di verità, formano, come dice Calvino, «un albero genealogico degli antena­ti dell'uomo contemporaneo, in cui ogni volto cela qualche tratto delle persone che ci sono intorno, di voi, di me stesso».

 

LA LEZIONE DI ARIOSTO: IMMAGINARE DA SVEGLI. Il guardare le cose da lontano, da un pun­to esterno e privilegiato, è un procedimento conoscitivo tipico dell'umorismo, che Calvino apprende so­prattutto da Ariosto, suo grande modello e fonte di ispirazione: la lezione dell'Orlando furioso emerge chiaramente (e Calvino non cerca di nasconderlo) nelle avventure cavalleresche di Agilulfo, così come nella levità rigorosa a cui sembra improntata la vita del Barone rampante, o ancora nella pensosa ironia di certi passi del Visconte dimezzato. Non a caso al 1970 risale la pubblicazione dell'Orlando furioso di Lu­dovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, in cui attraverso la "riscrittura" del capolavoro ariostesco l'auto­re ribadisce le ragioni della propria passione, sottolineando l'attualità dell'esempio di Ariosto: «egli ci in­segna come l'intelligenza viva anche, e soprattutto, di fantasia, d'ironia, d'accuratezza formale, come nessuna di queste doti sia fine a se stessa ma come esse possano entrare a far parte d'una concezione del mondo, possano servire a meglio valutare virtù e vizi umani».

L’umorismo di Calvino, come quello di Ariosto, consiste in una partecipazione riflessiva alle vicende nar­rate e, nello stesso tempo, nella rinuncia a formulare una morale certa e definitiva. Queste storie riman­gono sospese con tutti i loro significati irrisolti; non sono parabole univoche e inequivocabili. Il loro senso più profondo non viene esplicitato, ma rimane racchiuso nella forza suggestiva delle immagini attraverso le quali si costruisce la vicenda: un ragazzo sospeso tra cielo e terra, un soldato diviso a metà per il lungo, un'armatura vuota che vive e si muove come un uomo vero. Non a caso, uno degli elementi che avvici­nano Calvino ad Ariosto è il gusto per le immagini, la concretezza della rappresentazione che crea nella mente del lettore il quadro dell'azione, i paesaggi e le situazioni che le fanno da sfondo. Nulla resta nel vago, nulla è affidato all'astrazione, tutto si traduce in rappresentazioni veloci, immediate, incredibilmen­te efficaci: parrebbe quasi che questi romanzi nascano dalle immagini, invece di crearle, ed è lo stesso Calvino a confermarcelo: «all'origine di ogni storia che ho scritto c'è un'immagine che mi gira per la testa, nata chissà come e che mi porto dietro magari per anni. A poco a poco mi viene da sviluppare questa im­magine in una storia con un principio e una fine, e nello stesso tempo [...] mi convinco che essa racchiu­de qualche significato».

La prosa fiabesca di Calvino è piana, lineare, nitida nella sua estrema semplicità: in nessun caso sono tol­lerate imprecisioni linguistiche o narrative, né tanto meno Calvino si abbandona a eccessi di lirismo o a divagazioni oniriche. Lo scrittore mette bene in chiaro che il proprio distacco dalla realtà non ha nulla in comune con le prospettive visionarie dei surrealisti, e afferma con decisione di preferire, all'indetermina­tezza dei sogni, la precisione dell'«immaginazione da sveglio».

 

LE FIABE ITALIANE. Della medesima passione si nutre anche una raccolta di circa duecento rac­conti popolari delle varie regioni d'Italia, pubblicata nel 1956 da Einaudi con il titolo Fiabe italiane. In essa Calvino, influenzato dalle teorie elaborate sulla fiaba dallo strutturalista russo Vladimir Propp (1895-1970), rivendica il valore, la ricchezza e la profondità di questo genere letterario e intende ripro­porlo ai suoi contemporanei come strumento di riflessione. «Le fiabe sono vere», dichiara Calvino nel­l'introduzione alla raccolta: sono allegorie della vita umana che, dietro alla patina del divertimento, ne svelano i lati più difficili e profondi, e richiedono dunque lettori sostanzialmente seri e attenti. Per due anni lo scrittore si impegna in un meticoloso lavoro di raccolta, selezione e riscrittura dei ricchissimi materiali offerti dalla tradizione favolistica italiana. Ma anche in questo territorio, molteplice e sconfi­nato, non è il piacere della narrazione spontanea e popolaresca a prevalere, né il gusto del fantasioso fine a se stesso. Ciò che interessa a Calvino è l'infinita gamma di possibilità presenti nell'universo del­la fiaba italiana, il suo essere un modo diverso, nuovo e utile, di guardare il mondo e, forse, di cam­biarlo in meglio.

 

 

4. Scienza e letteratura: la «sfida al labirinto»

 

IL COMPITO EPISTEMOLOGICO DELLA LETTERATURA. Sin dalla fine degli anni cinquanta l'inte­resse di Calvino si rivolge con determinazione sempre maggiore alle problematiche della nuova cultura industriale. Dal 1959 fonda con Vittorini la rivista "Il menabò", un progetto che, superati definitivamente gli orizzonti dell'impegno postresistenziale, intende indagare le effettive possibilità del lavoro intellettua­le e letterario nella complessità del mondo moderno. Calvino mantiene intatta la fiducia nella specificità operativa del fare letterario: scrivere romanzi, osservare il reale dal particolare punto di vista dello scritto­re o del lettore, continuano a essere per lui operazioni importanti, con un preciso e peculiare valore epi­stemologico, che nessun'altra facoltà della conoscenza umana potrà mai rimpiazzare. Ma occorre che la letteratura si senta corresponsabile nella costruzione di un mondo che ha perso i propri punti di riferi­mento tradizionali e non chiede più di essere semplicemente rappresentato. Compito della letteratura sarà allora sviluppare un atteggiamento di «non accettazione della situazione data, dello scatto attivo e cosciente, della volontà di contrasto, della ostinazione senza illusioni». Nel saggio del 1960 intitolato Il mare dell'oggettività, da cui è tratta questa citazione, Calvino auspica il passaggio da una «letteratura del­l'oggettività», completamente appiattita sulla realtà, a una «letteratura della coscienza», intesa non come ripiegamento intimistico, ma come slancio vitale, energia propositiva, rifiuto a rassegnarsi al dato di fatto. La nuova prospettiva storica, sociale e culturale è troppo complessa, mette in gioco troppi fattori diversi e discordanti per potersi accontentare di quella che Calvino definisce «la ruggine naturalistica».

 

LA SFIDA PERPETUA AL LABIRINTO.  Nel 1962 Calvino pubblica sul "Menabò" il fondamentale saggio La sfida al labirinto, nel quale definisce i termini di un progetto culturale che cerca una letteratu­ra aperta «a tutti i linguaggi possibili»; per rappresentare la complessità del mondo contemporaneo propone l'efficace metafora, cara anche allo scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986), del labi­rinto, un guazzabuglio di linee, forme, tendenze apparentemente in disaccordo, in realtà costruito se­condo regole rigorose che solo un occhio particolarmente attento e paziente riesce a distinguere. La letteratura non deve riprodurre naturalisticamente l'apparenza intricata e confusa del labirinto, ma ha il compito di tracciare la mappa, «la più particolareggiata possibile», del complesso mondo di oggi; per, aiutare gli uomini-lettori a orientarsi: «Quel che la letteratura può fare è definire l'atteggiamento mi­gliore per trovare la via d'uscita, anche se questa via d'uscita non sarà altro che il passaggio da un la­birinto all'altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto». Spetta quindi alla letteratura la continua ricerca di un metodo, un modo di dialogare con il caos senza per questo illudersi che sia possibile cancellarlo. Si tratta di un atteggiamento di scettica ostinazione che la letteratura può impa­rare dalla scienza moderna, così lontana dalle certezze presunte del Positivismo, abituata a ragionare per approssimazioni progressive, accettando il dubbio e l'indeterminatezza come parti ineludibili della conoscenza stessa.

 

L’ESEMPIO DI GALILEI: PRECISIONE E PROGETTUALITÀ. Per Calvino ciò che avvicina la scien­za e la letteratura, due campi del sapere umano in apparenza lontani, e ne rende possibile il dialogo è la comune tensione conoscitiva, la dimensione di progettualità continua che, nell'una e nell'altra, de­termina il legame con la realtà: per entrambe «il problema di fondo è sempre quello della possibilità o impossibilità di conoscere il mondo». Non è un caso che, tra i modelli assunti quali punti di riferimen­to, accanto ad Ariosto Calvino ponga anche Galilei, grande scienziato e grande scrittore, soprattutto per la mirabile capacità di costruire congetture attraverso uno speciale tipo di «immaginazione scien­tifico-poetica» e per la precisione di linguaggio. La tensione costante alla ricerca del termine preciso è infatti un'altra lezione preziosa che la letteratura potrà apprendere dalle scienze esatte. «In questo momento», dice Calvino, «il modello del linguaggio matematico, della logica formale può salvare lo scrittore dal logoramento in cui sono scadute parole e immagini per il loro falso uso», fermo restando che la letteratura conserverà sempre un proprio peculiare approccio conoscitivo alla realtà. In questo senso il modello più importante per Calvino è proprio Galilei, scienziato nutrito di una vasta e intima cultura letteraria, il quale «usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura ludica».

 

 

5. Il progetto «cosmicomico»

 

LE COSMICOMICHE: SCIENZA E LETTERATURA. Anche se nell'ottica di Calvino c'è sicuramente l'intenzione di superare l'umanesimo tradizionale, la letteratura non è mai da lui situata in una posizione di subordine rispetto alla scienza: anzi, mentre mantiene la sua specificità, il rapporto con la scienza la stimola a interrogare con severità i propri mezzi conoscitivi ed espressivi, senza rinchiudersi in prospetti­ve consuete e scontate, e le offre punti di vista nuovi e impensati da cui affrontare l'indagine sulla realtà. Proprio questo è il percorso intrapreso da Calvino con un progetto narrativo che fra scritture, edizioni e riedizioni lo impegnerà per quasi vent'anni, dal 1965, data di uscita delle Cosmicomiche, attraverso Ti con zero (1967), La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche (1968), fino a Cosmicomiche vecchie e nuove (1984).

Le cosmicomiche si compongono di dodici racconti (La distanza della Luna, Sul far del giorno, Un segno nel­lo spazio, Tutto in un punto, Senza colori, Giochi senza fine, Lo zio acquatico, Quanto scommettiamo, I dino­sauri, La forma dello spazio, Gli anni-luce, La spirale), i primi quattro dei quali avevano già visto la luce nel­la rivista "Il caffè" nel novembre del 1964.

Ciascuna cosmicomica si apre con un enunciato scientifico: può essere sull'allontanamento della Luna dalla Terra, o sul tempo impiegato dal Sole per compiere una rivoluzione completa della Galassia, o anco­ra sull'assenza dei colori prima del formarsi dell'atmosfera terrestre. Da ciò lo scrittore trae lo spunto per creare narrazioni spesso buffe e paradossali: scenari cosmogonici e interplanetari fanno da sfondo a situazioni tipiche della quotidianità più banale e ordinaria, dove atomi, particelle, dinosauri e batteri dialogano tra loro come comuni personaggi di una qualsiasi narrazione. "Cosmica" è l'ambientazione, che ricostrui­sce galassie, nebulose e pianeti alle origini dell'universo; "comico" è l'effetto creato dal "corto circuito" tra l'enormità della cornice e l'assoluta normalità delle situazioni e dei modi espressivi immaginati da Calvino. In questo «delirio dell'antropomorfismo», secondo la definizione dello stesso Calvino, cellule primordiali parlano e si comportano come esseri umani; e le origini del cosmo gettano una luce nuova sui meccanismi della nostra modernità, aprendo la strada a una visione in cui anche il mito diventa una possibile chiave di lettura del reale. Viene così creata e descritta una dimensione al di fuori del tempo e della realtà, nella qua­le si manifestano, come esse appaiono a Calvino, le verità profonde e originarie del mondo e della vita.

 

NEL MONDO DI QFWFQ. L’invenzione narrativa di Calvino sceglie per argomento le teorie cosmolo­giche e astronomiche formulate dalla scienza moderna. Il protagonista è un essere indefinito, un organi­smo primordiale il cui nome è un impronunciabile palindromo: Qfwfq, creatura vecchissima, che esiste da quando l'universo e il genere umano hanno cominciato a vivere. Non c'è avvenimento di milioni o mi­liardi di anni lontano dal presente di cui non si dichiari «testimone oculare e spesso parte in causa»: egli parla della creazione del sistema solare, dei cataclismi geologici, dei dinosauri, come fos­sero vicende e creature della sua infanzia o giovinezza. Così scrive l'autore nel risvolto di copertina: «Il protagonista di questo libro si chiama Qfwfq. Altro non si sa, non è nemmeno detto che sia un uomo: probabilmente possiamo considerarlo tale dal momento in cui il genere umano comincia ad esserci [...]. Non è nemmeno un personaggio, Qfwfq, è una voce, un punto di vista, un occhio (o un ammicco) umano proiettato sulla realtà d'un mondo che pare sempre più refrattario alla parola e all'immagine».

TRA RIGORE SCIENTIFICO E IMMAGINAZIONE. Non si tratta però di letteratura fantascientifica, come più volte lo stesso Calvino tiene a precisare: se la fantascienza lancia il proprio sguardo verso un fu­turo ancora sconosciuto e che spesso rappresenta la materializzazione delle paure presenti, il racconto cosmicomico, al contrario, affonda le radici in un passato ancestrale, quando l'uomo era ancora un'entità non distinta dal resto del mondo animale, vegetale o minerale; quando ancora non era stato formulato alcun codice comunicativo, alcun canone estetico o morale, ed era ancora possibile non distinguere la differenza tra una sconfinata galassia e un organismo infinitesimale. Le cosmicomiche mettono in atto una sfida applicare l'immaginazione artistica al rigore oggettivo degli enunciati scientifici; mentre la scienza sembra confermare lo spaesamento dell'uomo, la perdita di un contatto vivo e diretto con la realtà, con agile e sottile ironia la letteratura può impadronirsi delle sue formule fredde e asettiche, per farle funzionare come una sorta di filtro, di lente deformante che ci permette di vedere e interpretare il mondo in un modo nuovo e impensato, in cui anche il mito diventa una chiave di lettura possibile. «La scienza contemporanea non ci dà più immagini da rappresentare», spiega Calvino; «il mondo che ci apre è al di là d'ogni possibile immagine. Eppure, al profano che legge libri scientifici, ogni tanto una frase ri­sveglia un'immagine. Ho provato a segnarne qualcuna, e a svilupparla in un racconto "comicosmico" (o "cosmicomico").» Calvino legge la scienza con l'occhio ingenuamente appassionato di un dilettante, che non per questo è meno preciso e rigoroso: al contrario, il suo è un gioco molto serio, con regole impre­scindibili, che si esprime con un linguaggio misurato, di sorprendente semplicità, senza mai sconfinare nel divertissement fine a se stesso.

Il risultato è un guizzo ironico di grande finezza, che ridicolizza amabilmente il posto occupato dall'uomo nell'universo. «Io credo», dirà Calvino, «che il mondo esiste indipendentemente dall'uomo; il mondo esi­steva prima dell'uomo ed esisterà dopo, e l'uomo è solo un'occasione che il mondo ha per organizzare alcune informazioni su se stesso.» In queste parole è possibile riconoscere l'eco di Leopardi, un autore sempre presente nella mente di Calvino.

 

 

6. La passione combinatoria

 

LA TENSIONE VERSO UN ORDINE POSSIBILE MA ILLUSORIO. Gli anni trascorsi a Parigi sono per Calvino l'occasione per conoscere e partecipare alle esperienze che animano il panorama culturale del­la città, all'epoca uno dei più vivaci e innovativi in Europa. Particolarmente significativi risultano l'avvicina­mento allo Strutturalismo e la partecipazione all'Oulipo, fondato da Queneau. Calvino, preso dall'assillo di scovare un ordine, un sistema, una razionalità nascosti nel caos della realtà, è attratto dal lavoro di questo movimento "di confine", dove si cerca di applicare il pensiero matematico alle strutture e alle forme della letteratura, con giochi e acrobazie mentali sempre dominati dal divertimento e dal gusto della sperimenta­zione ardita. Ma per Calvino non si tratta semplicemente di un divertissement colto: il suo interesse per la combinatoria, la sua curiosità per le infinite possibilità presenti in ogni minima situazione dell'agire umano sono il sintomo di un'inquietudine, di un rovello che accompagnano lo scrittore anche in quelle opere che potrebbero sembrare puri sfoggi di virtuosismo. La preoccupazione di Calvino è sempre di tipo conosciti­vo: il nitore cristallino delle prove combinatorie diventa quindi il segno visibile, l'emblema di questa ricerca ostinata. «Quello che m'interessa», dice ancora Calvino, «è il mosaico in cui l'uomo si trova incastrato, il gioco dei rapporti, la figura da scoprire tra gli arabeschi del tappeto»: nel lavoro dello scrittore agisce la ten­sione verso un ordine possibile, per cercare, oltre le apparenze multiformi e disordinate del reale, il disegno che possa capire e spiegarne la natura e le finalità. Ma è un disegno del quale lo stesso Calvino riconosce il carattere illusorio; e proprio da questa consapevolezza deriva la sottile vena malinconica che percorre le opere, in apparenza limpide e rigorose, composte nel corso degli anni settanta.

 

LETTERATURA E TAROCCHI. Gli stretti rapporti con l'avanguardia intellettuale francese conducono Calvino a riflettere sulle forme e sulle funzioni della letteratura. Talvolta il gioco combinatorio si ferma al­la esposizione diretta delle regole che lo sottendono, e non riesce a comunicare i significati più profondi di questo tipo di sperimentazione: è il caso del Castello dei destini incrociati, pubblicato in forma definitiva nel 1973 (ma apparso in una lussuosa edizione illustrata già nel 1969, per i tipi di Franco Maria Ricci).

La storia narrata si fonda sul gioco dei tarocchi: l'anonimo protagonista, giunto in un misterioso castello, scopre di essere diventato muto per magia, come tutti i commensali riuniti per la cena; ognuno può rac­contare la sua storia solo scegliendo e combinando le carte di un mazzo di tarocchi. In un clima sospeso e incantato, ogni personaggio accenna alla sua vicenda con le carte che gli altri si sforzano di interpreta­re. Le figure dei tarocchi diventano "pedine narrative", simili alle funzioni dei personaggi studiate da Propp nell'ambito della fiaba popolare russa. Il mazzo di carte, suggerisce Calvino alla fine del romanzo, è come la letteratura: contiene infinite possibilità combinatorie e offre allo scrittore-narratore l'opportu­nità di inventare, tramite la combinazione di elementi preesistenti, storie sempre nuove e diverse.

 

CITTÀ INVISIBILI E STILI DELLA CONOSCENZA. Diverso è il caso dell'opera Le città invisibili, pub­blicata nel 1972: qui la riflessione di Calvino diventa più assorta e intensa e il libro, pur mantenendo l'a­spetto di un meccanismo perfetto e controllatissimo, si fa portatore di un'intensa meditazione sul rapporto tra ordine e caos e sulle reali possibilità di conoscenza di cui l'uomo può disporre. Lo scrittore si ispira al trecentesco Milione: Kublai Kan e Marco Polo sono i protagonisti, il primo sempre rinchiuso a palazzo in­sieme alle carte e alle mappe che rappresentano il suo impero, l'altro che, invece, quell'impero percorre durante le sue spedizioni, visitando le città che lo compongono. Marco torna sempre dal Kan per raccon­targli ciò che ha visto: e i suoi dettagliati resoconti, ciascuno relativo a una diversa città, sono divisi per gruppi tematici e disposti secondo uno schema matematico che ricalca la struttura della sestina medieva­le; sono inoltre intervallati da brani in corsivo che riportano i dialoghi ipotetici fra i due interlocutori.

Nel complesso, l'opera risulta composta da diciotto dialoghi e cinquantacinque descrizioni di città, suddivi­se in nove capitoli in cui ruotano le diverse tipologie (Le città e la memoria; Le città e il desiderio; Le città e i se­gni; Le città sottili; Le città egli scambi; Le città egli occhi; Le città e il nome; Le città e i morti; Le città e il cielo; Le città continue; Le città nascoste). Il dialogo tra Marco Polo e il Gran Kan è il simbolo di un incontro fra la co­noscenza diretta, che sperimenta continuamente l'imperfezione e le incongruenze del mondo, e l'astra­zione pura, che vorrebbe racchiudere l'esistente in uno schema compiuto e lineare. Due modalità di cono­scenza, due stili, due approcci alla realtà che coesistono nel pensiero di Calvino in un rapporto insieme di conflitto e di complementarità. Se da un lato il Kan, nel silenzio e nella solitudine delle sue stanze, non può percepire che un'eco lontana della vita che scorre nei territori del suo impero sconfinato e i racconti di Marco Polo sono per lui l'unico legame con il mondo, dall'altro non è detto che Marco, con il suo viaggiare senza sosta, possa raggiungere la vera conoscenza. La memoria e l'immaginazione si frappongono tra lui e la realtà come schermi opachi, o lenti deformanti, cosicché le città che descrive forse non esistono, né sono mai esistite, e sono solo il riflesso dei desideri e dei ricordi che affollano la sua mente. La conoscenza, suggerisce Calvino per voce di questi assorti personaggi, è un'avventura particolare, che procede per ap­prossimazione e si definisce attraverso quello che non riesce a ottenere. Il valore che trasmette non sta tanto nel suo oggetto, sempre incerto e sfuggente, invisibile come le città visitate da Marco Polo, ma in un'attitudine di ricerca, di attenzione assidua e profonda verso la realtà.

 

UN ROMANZO SULLA LETTERATURA. Nel 1979 esce il romanzo di maggior successo di Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore. Il libro, attraverso un gioco combinatorio funambolico, sviluppa una ri­flessione sul senso della scrittura e, soprattutto, analizza il rapporto tra l'opera e il lettore. Appunto nel corso degli anni settanta la critica aveva cominciato a spostare la propria attenzione dal testo letterario al pubblico, arrivando a elaborare, secondo la formula di Hans Robert Jauss (1921-97), un'«estetica della ri­cezione»: lo sguardo particolare del lettore entra a pieno diritto tra gli elementi costitutivi del testo, im­prontandone la storia, la tradizione e la ricezione successiva.

Ed è proprio un Lettore il protagonista di Se una notte d'inverno un viaggiatore: nel romanzo si immagina che questo Lettore entri in una libreria per comprare Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino e che, una volta acquistato il libro, scopra di averne una copia difettosa, composta dalle pagine iniziali del romanzo ripetute per tutto il volume. Comincia da qui la sua quête, la ricerca di una copia corretta, completa e regolare, che però non viene mai rinvenuta a causa di una fantomatica congiura ideata dal traduttore-falsario Ermes Manara. Costui ha in mente di diffondere nell'universo dei lettori la sua particolare nozione di letteratura, quale meccanismo mistificatorio, riproduzione matematica di forme e stilemi, pastiche di modelli creativi. Si può ravvisare in questo personaggio un accenno ironico di Calvino ai limiti intrinseci della letteratura combi­natoria. Ma il colossale piano di falsificazione perseguito da Manara è una ripicca nei confronti di una donna un tempo amata, Ludmilla, lettrice con un'idea assai diversa di letteratura: la donna, infatti, ama gli scrittori che scrivono libri «come una pianta di zucca fa le zucche», con una naturalezza immediata del tutto estranea ai lavori di Manara, artificiosi e menzogneri, per quanto perfetti. Per Ludmilla, «leggere vuol dire spogliarsi d'ogni intenzione e d'ogni partito preso, per essere pronta a cogliere una voce che si fa sentire quando meno ci s'aspetta, una voce che viene non si sa da dove, da qualche parte al di là del libro, al di là dell’autore, al di là delle convenzioni della scrittura». Nella vicenda entra anche controfigura dello stesso Calvino, che cerca strenuamente di difendersi dai subdoli trucchi di Manara.

Il romanzo è costruito mettendo in gioco l'astuta perizia narrativa dell'autore; in quest'opera la consueta tensione conoscitiva di Calvino si attenua e cede il passo al gusto della costruzione narrativa e dell'in­treccio, e anche al gioco mimetico dei diversi stili letterari: si va dal giallo al romanzo erotico, dal thriller psicologico al racconto realista. Ma al di là del raffinato divertimento narrativo, rimane soprattutto la ri­flessione sul valore della scrittura e della lettura, sul rapporto tra queste due facoltà peculiari della condi­zione umana e sul ruolo che lo scrittore, nonostante tutto, continua a rivestirvi. Il romanzo è un magnifi­co monumento all'amore e alla fiducia nell'arte di leggere; «come fare a sconfiggere non gli autori ma la funzione dell'autore, l'idea che dietro ogni libro ci sia qualcuno che garantisce una verità a quel mondo di fantasmi e d'invenzioni per il solo fatto d'avervi investito la propria verità, d'aver identificato se stesso con quella costruzione di parole?», è la domanda che si pone Manara. La risposta di Calvino è che una si­mile impresa non potrà mai essere realizzata, finché esisteranno dei lettori.

 

 

7. Gli anni "retrospettivi"

 

DALL’IMPEGNO ALLA PERPLESSITÀ SISTEMATICA. A partire dalla fine degli anni settanta, Calvi­no comincia un capillare lavoro di raccolta e sistemazione dei propri saggi e articoli, che porta a tre im­portanti pubblicazioni: Una pietra sopra (1980), che contiene testi scritti dal 1955 al 1978, Palomar (1983) e infine la raccolta Collezione di sabbia (1984).

Il significato di tale lavoro è in gran parte racchiuso nel titolo della prima di queste opere: «una pietra so­pra» indica la volontà di chiudere definitivamente un'esperienza esaurita. Calvino considera dunque sva­nita la possibilità per la letteratura di costruire un modello attendibile ed esauriente per spiegare la realtà; quindi si interroga sull'effettiva efficacia della spinta conoscitiva che ha sostenuto ogni sua ricerca e spe­rimentazione, dal Neorealismo fino alle più recenti prove legate alla visione scientifica e alla combinato­ria. Non si tratta di una resa, bensì della constatazione che la realtà si è fatta sempre più complessa, mul­tiforme e contraddittoria: alla letteratura spetta l'elaborazione di una coscienza critica, di un'analisi atten­ta e instancabile di ciò che sembrerebbe aver perso ogni senso e coerenza. Il pensiero di Calvino avverte il peso della nuova situazione storica, ma non si rassegna a soccombere: si tratta di cambiare atteggia­mento, costruendosi nuovi strumenti per comprendere una realtà sempre più refrattaria a qualsiasi ridu­zione schematica. «Il senso del complicato e del molteplice e del relativo e dello sfaccettato» è quanto si impone nella nuova visione dello scrittore, e non può che determinare ciò che lui stesso definisce «un'at­titudine di perplessità sistematica»: l'atteggiamento riconoscibile in tutte le sue ultime opere.

 

L’OSSERVATORIO DEL SIGNOR PALOMAR.  Edito nel 1983 da Einaudi, Palomar è un libro eterogeneo e unitario nello stesso tempo e comprende ventisette brani, disposti in una struttura ternaria. Le tre parti, rispettivamente intitolate Le vacanze di Palomar, Palomar in città, l silenzi di Palomar, corrispondono - spie­ga l'autore in una nota - «a tre aree tematiche, a tre tipi di esperienza e d'interrogazione che, proporziona­ti in varia misura, sono presenti in ogni parte del libro»: la descrizione, il racconto, la meditazione.

Composta da situazioni diverse e lontane tra loro fin dal momento della scrittura (molti dei racconti na­scono infatti come interventi giornalistici su vari quotidiani italiani, a partire dal 1975 fino alla data della pubblicazione), l'opera trova tuttavia una particolare coerenza nel personaggio che le dà il nome, osses­sivamente riproposto a ogni pagina con le sue curiosità, la smania di capire, le domande insistenti e talo­ra assurde, la testarda pulsione ad assorbire e comprendere ogni aspetto della realtà. Palomar è un omino assorto e silenzioso, che ha fatto dell'osservazione l'attività principale delle sue gior­nate solitarie: egli guarda con attenzione rigorosa e freddo distacco tutto ciò che lo circonda, sofferman­dosi anche sugli elementi minimi, apparentemente insignificanti, e ne trae spunto per una sua personale filosofia, che però non si perde mai nell'astrazione ma ritorna sempre ostinatamente alla realtà quotidia­na, anche nelle sue manifestazioni più banali (una gita al mare, una sera stellata, la spesa in un negozio di formaggi), che sembrano nascondere un senso misterioso. «Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose», afferma Palomar, «ci si può spingere a cercare quel che c'è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile.» Negli anni delle Cosmicomiche Calvino era interessato a scoprire la figura nascosta «tra gli arabeschi del tappeto»; lo schema sotteso all'intricato guazzabuglio della realtà: ora sono gli arabeschi stessi a richiamare la sua attenzione, nel loro sinuoso intrecciarsi, nel complicato inseguirsi di nodi, di an­goli e di curve che mai nessuno schema sarebbe in grado di riprodurre.

«La prima idea», racconta lo scrittore, «era stata di fare due personaggi: il signor Palomar e il signor Mohole». II primo nome allude a Mount Palomar, il famoso osservatorio astronomico californiano; l'altro, a un ardito progetto di trivellazione della crosta terrestre. Simboleggiano due atteggiamenti conoscitivi opposti e complementari: l'uno volto a esplorare le strutture macroscopiche dell'universo, l'altro chiuso, involuto, ripiegato verso gli oscuri abissi interiori. Ma lavorando al progetto, Calvino giunge a una scoper­ta inaspettata: «alla fine ho capito che di Mohole non c'era nessun bisogno perché Palomar era anche Mohole: la parte di sé oscura e disincantata che questo personaggio generalmente ben disposto si porta­va dentro non aveva alcun bisogno di essere esteriorizzata in un personaggio a sé». È una conclusione importante. Palomar, controfigura dello stesso Calvino, ci insegna che saper vedere veramente la realtà costituisce la più raffinata e completa esperienza intellettuale a cui l'uomo possa aspirare. In questo libro viene quindi rivalutato un esercizio letterario ormai desueto: la descrizione, la scrittura nutrita e costruita su «un rapporto diretto con ciò che si vede».

Quello del recupero di un rapporto diretto con la realtà è un motivo ripreso anche in un'altra opera di Calvino, pubblicata postuma e incompleta nel 1986: Sotto il sole giaguaro, originariamente concepita co­me una serie di racconti costruiti attorno al tema dei cinque sensi. Calvino riuscirà a scrivere solo quelli dedicati all'olfatto (II nome, il naso), all'udito (Un re in ascolto) e al gusto (Sotto il sole giaguaro).

 

«SABBIA DI PAROLE» MESSE IN FILA. Lo spirito di Palomar, la stessa tensione a recuperare un rapporto originario e immediato con la realtà, fin nelle sue manifestazioni apparentemente insignifican­ti, si incontra negli scritti di Collezione di sabbia, una sorta di «enciclopedia occasionale» in cui Calvino raccoglie articoli, memorie e riflessioni su varie esperienze della sua permanenza parigina. Vi sono reso­conti delle svariate esposizioni o mostre (relative ai mappamondi, ai manichini di cera, alle tavolette con iscrizioni cuneiformi, ai nodi) e altri scritti d'occasione, come l'articolo dedicato a Roland Barthes per la sua morte o la recensione al saggio di Jacques Le Goff L'immaginario urbano nell'Italia medievale (secoli V­XV). Il volume si conclude con tre saggi nati da altrettanti viaggi compiuti da Calvino in Iran, in Messico e in Giappone. Collezione di sabbia è dunque un'opera miscellanea nei contenuti, ma caratterizzata da un atteggiamento mentale costante: la curiosità insaziabile e rigorosa verso ogni aspetto dell'esistenza umana, senza tenere conto di alcuna gerarchia precostituita. All'occhio vigile e acuto di Calvino, un'an­ziana signora in kimono viola che sta aspettando il treno alla stazione di Tokio può costituire uno spun­to interessante tanto quanto la Colonna Traiana o un quadro di Delacroix. Il valore di ogni frammento del mondo, parrebbe essere la lezione finale, sta tanto nell'oggetto in se stesso quanto nell'occhio di chi lo guarda, e nell'intelligenza che l'osservatore sa mettere in questo rapporto. Scrive Calvino: «Sono arri­vato a interrogarmi su cosa c'è scritto in quella sabbia di parole scritte che ho messo in fila nella mia vi­ta, quella sabbia che adesso mi appare tanto lontana dalle spiagge e dai deserti del vivere».

 

LE LEZIONI AMERICANE. Nel 1985 Calvino viene invitato dall'Università di Harvard a tenere una se­rie di conferenze. I testi preparatori ai quali lo scrittore sta lavorando al momento della morte costituisco­no una sorta di testamento morale, e vengono pubblicati postumi nel 1988 con il titolo Lezioni americane e il sottotitolo, assai significativo, Sei proposte per il prossimo millennio. Calvino sceglie alcuni valori consi­derati irrinunciabili, e attorno a essi organizza le proprie riflessioni sulla modernità e sul ruolo della lette­ratura: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità; dell'ultimo intervento, Coerenza, rimane solo il titolo, in inglese (Consistency), poiché lo scrittore non ha potuto stenderne il testo.

In queste pagine Calvino ripercorre con grande eleganza una vita fatta di letture, incontri ed esperienze intellettuali, guidato dalla consapevolezza che nessuna parola può dirsi definitiva; ma non per questo l'uomo deve smettere di ricercare un senso, una definizione, una finalità per la complessa trama della propria esistenza. Le Lezioni americane non vogliono rivolgersi unicamente a chi si occupa di letteratura: le sei tematiche individuate da Calvino coinvolgono chiunque avverta il rapporto con la realtà moderna come un nodo problematico, difficile da sciogliere, e non intenda arrendersi di fronte a questa comples­sità. Pur trattandosi di «proposte», le riflessioni di Calvino non assumono mai toni assertivi o didattici; co­me osserva Gian Carlo Roscioni nella quarta di copertina, «il contrario di ogni virtù letteraria, di ogni "va­lore da salvare" non è un vizio, ma un'altra virtù [...], l'unico vero, imperdonabile vizio essendo l'indiffe­renza nei confronti della perfezione». Le Lezioni americane sono costruite con un metodo che unisce la divagazione libera al rigoroso autocontrollo: non si avverte una parola di troppo, né la minima conces­sione alla nostalgia o all'erudizione compiaciuta. Alla fine, ciascun testo entra a far parte di un sistema misurato ed equilibratissimo che forse, tra tutti gli scritti di Calvino, è quanto rispecchia meglio la sua in­dole di uomo e di letterato.

 

© luciano zappella