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(tratto da: G.M. Anselmi - G. Fenocchio, Tempi e immagini della letteratura, vol. 6: Il Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 360-365) 

 

1. La poesia e la poetica

 

1.1. Ungaretti maestro della modernità

un pioniere del novecento. «È da tutti riconosciuto che la parte più rilevante nella "scoperta" e definizione di alcune posizioni fondamentali della nostra poesia del Novecento l'ebbe Ungaretti: egli fu il pionie­re che si spinse su un terreno su cui gli altri lo raggiunsero più tardi»: così Andrea Zanzotto, uno dei gran­di poeti italiani della seconda metà del secolo, affermava il ruolo innovatore di Ungaretti, che condusse la poesia italiana in territori inesplorati; un'idea confermata anche dai piccoli ritratti allegorici che il poeta ha riservato a se stesso, raffigurandosi prima come «superstite lupo di mare» che «riprende il viaggio» do­po il naufragio, poi come «capitano sereno» e «pronto a tutte le partenze». La poesia, nella concezione ungarettiana, è un viaggio verso luoghi sconosciuti, è un processo aperto, un'elaborazione testuale dina­mica e a tappe, sempre in progress, sempre approssimativa, che nel singolo testo trova non tanto un pun­to di arrivo quanto un avvio, un indicatore di direzione.

il tema dell’annichilimento. Ma Ungaretti va considerato un iniziatore e un maestro almeno per altri due motivi, ben più autentici e influenti, uno tematico e uno formale.

Anzitutto si deve a lui, soprattutto nei testi del Porto sepolto, una delle prime espressioni poetiche di un motivo tipico dell'Esistenzialismo filosofico e letterario novecentesco: quello dell'uomo afflitto da un trauma radicale e smisurato che si sente naufragare nel mare dell'essere, «specchio impassibile» fra le cose, ridotto come una «pietra», da persona a minerale. È quanto accade nell'esperienza della trincea: la guerra di­venta così simbolo del naufragio di tutta l'umanità, che, perseguendo la violenza e il profitto, perde se stes­sa. Ne derivano le immagini fondamentali del primo libro di Ungaretti: il soldato «in dormiveglia» che in trincea compie la propria discesa agli inferi e che, «abbandonato nell'infinito», diviene quasi contempora­neo della propria morte, o forse già cadavere senza saperlo, fissando un singolo istante temporale come se fosse l'eterno. In questo soldato, Ungaretti coglie un "tipo" antropologico e psicologico, riassume l'espe­rienza umana dell'annichilimento e della perdita di sé, come avviene, per fare solo un esempio, con l'uo­mo insetto della Metamorfosi di Franz Kafka.

la dialettica formale tra l’allegria e il sentimento del tempo. In secondo luogo, l'opera di Ungaretti rappresenta un momento di rinnovamento radicale nella lunga storia delle forme della poesia italiana. La sua caratteristica innovativa più forte è quella di sperimentare una parola poetica che attinge le proprie risorse da più prospettive simultaneamente, ovvero di vedere la parola come qualcosa di instabile e contraddittorio nell'ordine sia stilistico sia contenutistico.

La poesia ungarettiana riesce nell'intenso sforzo sintetico di presentare contemporaneamente diversi mo­di di scrittura, che convivono pur dichiarandosi fra loro opposti. La dialettica profonda fra stili diversi coin­volge interamente l'Allegria e Sentimento del tempo, i due libri a cui Ungaretti lavora parallelamente per cir­ca vent'anni. Le due raccolte, infatti, sembrano offrire l'esempio di due poetiche per molti aspetti inconci­liabili: da una parte il lessico elementare e concreto, dall'altra un vocabolario di nobile ascendenza lettera­ria; da una parte la frantumazione della grammatica e i periodi di minima estensione, dall'altra una sintas­si ricca e fluida, aperta e ritmata; da una parte gli enunciati perentori e lapidari, dall'altra le espressioni sfu­mate.

semplificazione e complessità. II sistema stilistico dell'Allegria ha il suo centro espressivo nel­la evidenza e nella forza della parola singola e nell'uso del tempo presente (congeniale al diario e alla cro­naca). Con gusto quasi teatrale, la retorica dell'Allegria impone la semplificazione assoluta della scrittura; vuole come strategia di fondo una «pronuncia isolata», sillabata, delle unità testuali (nomi comuni, verbi, preposizioni ecc.), lasciando emergere vere e proprie parole tema. Secondo l'immagine metaforica pro­posta dall'autore, ogni parola viene «trovata» nel silenzio, «scavata» nella vita «come un abisso», e poi, quasi si trattasse di un oggetto (di un «fiore», suggerisce Ungaretti), disposta "nuda" sul bianco della pagi­na, senza tecniche decorative. Perciò le fi­gure retoriche sono ridotte a poche sinestesie fondamentali e all'uso costante del "come" comparativo.

In modo quasi speculare, la poetica di Sentimento del tempo si fonda sul recupero di forme e stilemi della tradizione letteraria italiana. La versificazione riscopre le misure canoniche dell'endecasillabo e del sette­nario, i componimenti assumono strutture strofiche più articolate e simmetriche, il repertorio di metafore e simboli si apre alla mitologia classica, mentre la retorica del testo, quasi a compensare l'immediatezza del­la parola-testimonianza dell'Allegria, riscopre le figure che alterano l'ordine delle parole (l'anastrofe, l'iper­bato, l'allitterazione), o quelle fondate sull'antitesi semantica (1'ossimoro, il chiasmo). Anche la sintassi ac­centua la subordinazione, e si distende in periodi molto lunghi e spesso volutamente ambigui e polisemici: dal tempo presente dell'Allegria si passa all'imperfetto narrativo, adatto a un'intonazione evocativa.

 

1.2. I modelli e gli strumenti retorici

la lezione degli autori francesi, del futurismo e del simbolismo. Ma quali sono le principali caratteristiche delle due raccolte? Per evidenziarle occorre partire dai rapporti fra la poeti­ca ungarettiana e il contesto letterario dell'epoca, accostando i due libri all'esperienza del Simbolismo e delle Avanguardie storiche.

La formazione letteraria ungarettiana si compie tra l'Egitto, la Francia e l'Italia. Durante i primissimi anni del secolo Ungaretti legge e studia soprattutto le opere di Baudelaire e Mallarmé: sulle loro pagine matura il suo giovanile ideale di poesia come forma di scrittura e comunicazione assoluta. Da Baudelaire e Mallarmé, e dall'amico Apollinaire, egli impara l'arte di una versificazione sintetica, concentrata intorno a poche immagini simboliche, a pochi vocaboli allusivi.

In questa ottica la poesia ungarettiana può essere vista come il prodotto originale di due movimenti letterari di­versi ma concordi nel giudicare la parola poetica della tradizione giunta al suo limite espressivo. Da una par­te sta la spinta anticlassica dell'avanguardia futurista, che impone alla parola di farsi immagine, rumore, spazio, gesto e segno grafico. Su un altro versante, invece, grazie alla sperimentazione dei simbolisti e in partico­lare di Mallarmé, la scrittura si sviluppa come «lavoro linguistico autonomo» sotto «l'influsso estraneo» della musica. La pagina scritta diventa una «partitura» da «leggere ad alta voce» e la parola, trasformatasi in «immaginazione pura e intellettuale», può anche risultare astratta, quasi priva di un senso immediato.

l'essenzialità dell'allegria.      A porre sia l'Allegria sia Sentimento del tempo sotto la doppia  luce dell'avanguardia e del Simbolismo europei contribuiscono anzitutto alcuni aspetti formali e retorici. Nella prima raccolta risulta decisivo il processo di frantumazione metrica e sintattica del componimento: le strofe sono brevi e rapidissime (a volte ridotte alla misura di un solo verso); ogni parola è soppesata, isolata ed esaltata, tanto da occupare spesso un intero verso. In tal modo si viene a imporre una ­lettura lentissima e sillabata, che accolga ogni testo e ogni vocabolo come se emergessero da un asso­luto silenzio, simboleggiato tipograficamente dallo spazio bianco che circonda le liriche sulla pagina (secondo una tecnica già impiegata da Mallarmé nel poema Un coup de dés jamais n'abolira le hasard). Ogni parola è testimone di un senso spesso misterioso; il bagaglio lessicale è minimo e primitivo, fatto di parole umili e quotidiane, che vengono però rese vi­branti dalla tensione con cui sono impiegate. Poiché a ogni voce del testo segue una pausa, lo sviluppo ­del discorso è frantumato e l'organizzazione sintattica della frase viene polverizzata: il poeta cerca la parola "nuda" ed "essenziale", espressione di verità assolute e sacre, primitive e originarie. Le poesie si riducono a rapide sequenze di associazioni, similitudini, metafore, ossimori (a comin­ciare da «allegria di naufragi»), veicolo di un nucleo intimo e segreto di emozioni. Esse non sono testi parafrasabili o traducibili, ma messaggi enigmatici la cui decifrazione tocca al lettore.

illusionismo e astrazione in sentimento del tempo. Il gioco illusionistico delle figure retoriche, il sommarsi progressivo di traslati metaforici e sinestesie sono invece la principale sigla stilisti­ca di Sentimento del tempo. Qui la concentrazione linguistica non è assunta come scarnificazione della parola ma come densità sensuale, emotiva, fisica, affettiva del linguaggio, che, proprio in quanto capace di imporsi alla vista, all'udito, alle nostre capacità sensitive e immaginative, assume un senso ambiguo agli occhi del lettore, diventa oscuro, suscettibile di una pluralità di interpretazioni. Come accade in gene­re per le arti non figurative - Astrattismo, Informale, Action painting -, il contenuto semantico dei testi di Sentimento del tempo è spesso ricostruibile compiutamente solo a partire dal titolo, che diviene quindi parte integrante dei singoli componimenti, sia orientando la lettura immediata sia, per converso, sottoli­neando lo scarto fra le parole della poesia e l'uso comune.

un sistema fondato sull’analogia. Ancora da Mallarmé, ma anche da Leopardi e dai teoremi del primo Marinetti, Ungaretti deriva un altro attributo primario della propria scrittura, ossia il fitto ricorso al­l'analogia, che consente di istituire un rapporto di somiglianza fra due o più termini o immagini sulla base del loro accostamento. L'Allegria e Sentimento del tempo sono da questo punto di vista concordi nel sostituire ai rapporti logici (razionali) le associazioni soggettive (giustificabili solo a livello fantastico o emotivo). L'Alle­gria presenta un sistema analogico esplicito, fondato sull'uso del "come" comparativo («come questa pietra / è il mio pianto»: Sono una creatura), mentre Sentimento del tempo procede piuttosto per ellissi analogiche, cioè per giustapposizioni di termini («le mani del pastore erano un vetro»); ma, come avverte Luciano Anceschi, il più attento studioso dell'analogia ungarettiana, entrambi i libri na­scono da un'intuizione comune, quella della «poesia come distanza», come «illuminazione favolosa».

Già i futuristi avevano parlato di immaginazione «senza fili», utilizzando l'analogia per accostare parole lontane fra loro, in modo quasi casuale. Analogamente Ungaretti sostiene che tramite un «uso ambiguo delle parole nel loro senso concreto e astratto» il poeta deve «mettere in contatto ciò che è più distante. Maggiore è la distanza maggiore è la poesia. L’accostamento inedito di immagini fra loro distanti (e ra­zionalmente inconciliabili), il corto circuito semantico che ne deriva, le frequenti spezzature logiche della sintassi rappresentano l'approdo ungarettiano a una parola che non è più comunicativa, ma si fa spia di un disaccordo fra segno e significato.

una sintesi di realtà e mistero. Questa interpretazione non va però assolutizzata. Se la poe­sia di Ungaretti appare anzitutto sfuggente, ombrosa, a tratti impenetrabile, e dunque condivide la speri­mentazione critica e dissolvitrice delle Avanguardie nei confronti del linguaggio lirico tradizionale, d'altro canto essa mostra anche una dimensione non riducibile al sistema ermetico postsimbolista. Ungaretti fu anche tra quelli che, dall'interno di questo scenario di crisi, di "distruzione del segno", continuavano a credere nella poesia come testimonianza, come contatto dell'io col mondo, come descrizione precisa ed efficace del reale vissuto. Occorre comprendere bene che cosa intenda Ungaretti indicando la sua poesia come «limpida meraviglia» e insieme come «delirante fermento», come parola trovata nel «silenzio». All'«inesauribile segreto» di una parola che ha solo in se stessa la propria origine, capace di dare vita a un mondo di immagini diverso da quello reale, si affianca una parola intensamente percettiva e descrittiva, scaturita dall'attenzione al quotidiano e al vissuto.

 

 

2. La storia poetica

 

2.1. Le parole e i silenzi della guerra

le prime poesie e i primi modelli. Fin dalle prime poesie apparse nel 1915 su "Lacerba", Un­garetti si segnala per la sua grande capacità di descrivere liricamente una situazione d'insieme, donando straordinaria visibilità ai particolari. A rileggere i testi d'esordio, poi confluiti nella sezione Ultime che apre l'Allegria, si coglie questo candore evocativo, sintetico e immediato. I «minareti» egizi e le «ghirlande di lumini» di Notte di maggio, i «fili tranviari sull'umido asfalto» e «le teste dei brumisti nel mez­zo sonno» di Noia, la «linea vaporosa» che «muore al lontano cerchio del cielo» di Levante, l'«acquario di sonnambula noia» come metafora della Galleria milanese (In Galleria), sono osservazioni eleganti della realtà, rilievi di un occhio prezioso e leggero. Il giovanissimo Ungaretti ha un gusto affine a quello dei pit­tori impressionisti e dei poeti crepuscolari; i suoi primi componimenti ricordano quelli di Palazzeschi, ma senza i paradossi ironici di quest'ultimo. Interrogato sulle fonti ispiratrici dei suoi primi versi, Ungaretti accenna inoltre all'influenza del francese Jules Laforgue (1860-87), l'autore dei Lamenti (Les complaintes, 1885), testi impostati sul tono descrittivo, sul racconto anche in prosa di luoghi ed esperienze individuali.

il mondo del poeta-soldato. Il passaggio da tale impressionismo della memoria alle liriche di guerra del Porto sepolto avviene per contiguità non solo temporale. Proprio l'esperien­za biografica della guerra, infatti, da una parte produce la chiusura dell'io lirico in se stesso, nel mondo occulto dell'incomunicabile, dall'altra pone il soggetto al centro di un luogo e di un'esperienza reali e tut­tavia quasi indescrivibili. Dentro e fuori di sé il poeta-soldato scopre un "altrove" che deve essere conser­vato e riprodotto nelle sue sfumature più segrete. Quando, nel dicembre del 1915, Ungaretti arriva sul Carso, non a caso comincia a scrivere poesie in forma di diario o di lettera, appuntandole sui «rimasugli di carta» che ha a disposizione, cartoline, buste, scatole di proiettili. Questo diario a brandelli, frammentato e composito, concepito e ambientato nella terra di nessuno delle linee di battaglia, trova via via un suo ritmo spoglio e desolato, in armonia con l'esperienza estrema del fronte: «Nella trincea, nella necessità di dire rapidamente, perché il tempo poteva non aspettare, e di dire con precisione e tutto come in un testa­mento, e di dirlo, poiché si trattava di poesia, armoniosamente, - in tali condizioni estreme trovai, senza cercarla, quella mia forma d'allora nella quale il più che mi fosse possibile volli resa intensa di sensi la pa­rola intercalata di lunghi silenzi».

La genesi diaristica dei testi (enfatizzata dalla loro immediata pubblicazione nel 1916) contribuisce a met­tere in luce il carattere concreto e impulsivo delle trentatre poesie scritte in zona di guerra. Con le liriche del Porto sepolto Ungaretti sperimenta una poesia materica e oggettuale, che si esprime e rivela attraver­so varie immagini: il pianto-pietra di Sono una creatura, il vibrare cosmico «della docile fibra dell'universo» delineato nei Fiumi, le scene viste quotidianamente dal soldato, le manifesta­zioni tangibili di una realtà distrutta. Il paesaggio devastato delle trincee, dirà poi Ungaretti, non è luogo di filosofia, ma di un'esperienza concreta che comprende il contatto prolungato con i cadaveri descritto in Veglia, le «budella di macerie» intrecciate dalle trincee (Pellegrinaggio), muri cadenti di San Martino del Carso.

il poeta girovago.     Questa espressività più aperta caratterizza pienamente anche l'altra grande fi­gura biografica che pervade l'Allegria, il «girovago», a cui si intitolano una poesia e un'intera sezione del libro. Rielaborando un archetipo di stampo romantico, quello del leopardiano «pastore errante», o del Wanderer ("viandante") di Goethe e Novalis, il girovago ungarettiano si fa testimone di una condizione esistenziale, di una volontà ostinata di aderire al proprio vissuto, anzi di ricostruirlo proprio attraverso i luoghi visitati, anche quando il senso di appartenenza continua a sfuggire. Il pellegrino unga­rettiano, però, non è l'eroe che compie un viaggio iniziatico alla ricerca di se stesso. Quasi a rovescio girovago è colui che in ogni luogo vive un'esperienza di spaesamento (Dolina notturna).

 

2.2. Modernità e classicità

un'arte nuova e classica. Nel frattempo, nel 1919, conclusa la guerra, Ungaretti pubblica uno dei suoi più importanti manifesti di poetica, con il titolo programmatico di Verso un'arte nuova classica. In questo saggio, pensato in origine come prefazione ad Allegria di naufragi (ristampata proprio in quei gior­ni), il poeta si rifà anche sul piano teorico alla lezione dei Canti e delle Operette morali di Leopardi, oltre che alla sensualità di Baudelaire. Nella loro lezione egli scorge il modello profondo del proprio estro poe­tico, che si propone di coniugare passato e avvenire, tradizioni e scoperte. Queste indagini sul valore at­tuale dell'esempio degli autori della tradizione (i classici ottocenteschi) lo avvicinano agli scrittori della ri­vista "La ronda", che proprio a partire dal 1919 formulano il loro programma classicistico di «ritorno al­l'ordine» dopo la stagione delle avventure avanguardistiche. Rispetto ai rondisti, di cui pur condivide al­cuni motivi di fondo, l'articolazione ungarettiana presenta tuttavia numerose differenze, risultando assi­milabile, al limite, all'esperienza del solo Vincenzo Cardarelli. La poetica dell'ordine che si sta affermando in Italia, infatti, pare a Ungaretti qualcosa di statico, un riuso «sempliciotto e fanatico» delle scritture del passato. Piuttosto che all'Italia, egli guarda con attenzione soprattutto al dibattito francese, dove Paul Valéry (1871-1945) definisce «l'essenza del classico» non come un annullamento del "disordine", ma co­me un «venire dopo il disordine», come una ricomposizione a posteriori che però presuppone la presen­za di un caos originario.

la riscoperta del barocco. È Sentimento del tempo a chiarire l'idea problematica di classicità di Ungaretti. In essa svolge un ruolo essenziale la ripresa degli elaborati moduli espressivi tipici dell'im­maginario barocco, con la sua ricchezza e preziosità figurativa spinta a stravolgere la percezione del reale. Questa grammatica compositiva genera poesie molto complesse, organizzate spesso in strutture circolari e anaforiche o composte di un solo periodo sintattico, in cui il significato delle parole è voluta­mente indeterminato e quanto mai ricco di sfumature. Questa prospettiva stilistica trova un corrispetti­vo diretto, a livello tematico, nella celebrazione dell'architettura del Barocco romano e nel motivo, già caro a D'Annunzio, della natura invasa dall'estate e da una sensualità sublime, ornata di elementi mito­logici. La città di Roma e il paesaggio laziale forniscono alla raccolta il suo sfondo paesaggistico predi­letto: un insieme di luoghi che, dice Ungaretti, divisi fra spazio urbano e contadino, co­municano un forte «sentimento del vuoto» e quindi un «orrore del vuoto» che la sua poesia, così come l'arte del Seicento, cerca di colmare con una «pienezza implacabile» di elementi. I testi sono largamen­te scanditi da riflessioni sul tempo e sulla morte, già care alla cultura barocca: Ungaretti assume se stes­so come termine di riferimento per indagare il senso permanente della vita umana, della condizione ter­rena. La sua scrittura abbandona la cronaca, il diario, e si concentra sui motivi ciclici, ricorrenti nella vi­ta di ogni individuo: nascita e morte, infanzia e maturità, innocenza e peccato, oblio e memoria.

il linguaggio del dolore. L’edizione definitiva di Sentimento del tempo (1943) e il volume Poe­sie disperse (1945) conferiscono una sistemazione complessiva alla prima, e storicamente fondamentale, fase creativa di Ungaretti.

Fra gli anni trenta e gli anni quaranta eventi tragici (la morte del fratello Costantino e del figlio Antonietto, la catastrofe della seconda guerra mondiale, la scoperta dei campi di sterminio nazisti) im­pongono all'autore di abbandonare i testi su cui sta lavorando - quelli che poi formeranno, nel 1950, la Ter­ra promessa - per dedicarsi alla composizione del nuovo libro, Il dolore, che sarà pubblicato nel 1947.

La commozione e la pena muovono Ungaretti a scrivere poesie interamente dedicate al dolore, e in parti­colare alle iperboli di un dolore che, uccidendo gli altri, toglie la vita anche a chi rimane. Si introduce così nella produzione ungarettiana una chiave espressiva nuova. Fra quelle di Ungaretti, infatti, I1 dolore è la grande raccolta comunicativa, in cui risultano predominanti l'estroversione del sentimento, la volontà di trasmettere le inquietudini di una sensibilità dolente, e quasi di stringersi al lettore in una comune urgenza del cuore. Il «dolore» del titolo, vero e proprio tema unitario della raccolta, deve essere inteso come dolore vivo, come sofferenza in atto. Ogni poesia coglie un istante di dolore, un aspetto particolare del dolore che si prova per l'esperienza della morte altrui, sia su un piano intimo sia a livello collettivo (il libro esce all'in­domani degli stermini nazisti), staccandolo e insieme conservandolo, secondo l'insegnamento di Bergson, nel flusso continuo del medesimo dramma. Ma esprimere la pena significa anche, ed è la prima volta per Ungaretti, scegliere un linguaggio piano, condivisibile da chiunque e subito comprensibile alla lettura.

l’epica frammentaria del vecchio poeta. L’intonazione intima e scorata, quasi bisognosa d'ascolto, del Dolore si rivela tutt'altro che una scelta dettata da uno stato d'animo transitorio. I libri unga­rettiani del secondo dopoguerra, infatti, da Un grido e paesaggi del 1952 all'estremo Taccuino del vecchio, uscito nel 1960, alternano i due stili codificati dalle raccolte precedenti: il gusto per il diarismo interiore, per la poesia malinconica e monologante, legata a temi e angosce autobiografici, e la rinnovata maniera neoclassica e baroccheggiante, che riporta la scrittura verso strutture metriche e retoriche assai comples­se, con la pratica concomitante di un più grande virtuosismo stilistico.

Un caso diverso è rappresentato dall'opera La terra promessa: frammenti, che Ungaretti progetta fin dagli anni trenta ma lascia a lungo interrotta e pubblica solo nel 1950. La raccolta è formata da sette componi­menti: testi collocati fuori del tempo storico e dominati dal travestimento mitologico. Ungaretti vi illustra i tratti eterni e immutabili della natura umana, portando in scena ora le vicende raccontate dai primi libri della Bibbia, ora i casi di Didone, Enea e Palinuro, attinti dall'Eneide di Virgilio. Secondo quanto recita il sottotitolo, il libro si presenta come una serie di «frammenti», da intendere però, soprattutto, nel senso di brani musicali, di pezzi elaborati per un'opera incompiuta. E infatti le poesie vengono indicate come can­zoni, recitativi, cori, variazioni, sfocianti nel conclusivo Finale. Attraverso il flusso discontinuo di tali «mo­menti musicali», per riprendere la formula dei compositori romantici, La terra promessa compie un ulte­riore viaggio a ritroso, nel tempo lungo della tradizione. Al di là del titolo-citazione dalla Genesi, il dialogo del poeta moderno si svolge con la parola antica dell'epica e in particolare dell'Eneide. Il problema del rapporto fra mito e storia si ristruttura nella trama fitta delle allusioni al poema virgiliano, che viene recu­perato attraverso personaggi celebri, come Didone e Palinuro, e soprattutto attraverso le simbologie del viaggio di Enea agli inferi, dove i fiumi ungarettiani della memoria che compaiono nell'Allegria sono co­stretti a perdersi nel Lete, il fiume infernale dell'oblio.

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© luciano zappella