LEOPARDI:
L’IMMAGINE ANTICA (queste note sono una rielaborazione da Neuro Bonifazi, Leopardi. L’immagine antica, Einaudi, Torino 1991)
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testo in Word
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1.
La malinconia, “quasi” un lutto
Dalle
lettere di L. emerge un desiderio erotico sensuale inespresso. E’ vero
che il L. soffriva per questo, ma perché evitava di trattare con
ragazze e restava in disparte? Perché non aveva compagni?[1]
Non è colpa solo di Recanati perché nelle altre città era lo stesso.
Era malato, ma non molto, era brutto, ma non più di tanto. Chi lo ha
fatto nascere così? Egli incolperà la natura, il padre, la madre, ma
anche queste sono ragioni sostitutive. La vera ragione è una
inguaribile malattia dello spirito, una “barbara malinconia”,
strettamente legata al pensiero[2],
ma da lui attribuita a ragioni fisiche (deforme = insoddisfazione
amorosa). L. avverte la somiglianza degli effetti tra malinconia e
lutto, ma non poteva cogliere (Freud non era ancora nato!) la differenza
tra l’una e l’altro: la prima è inconscia, il primo è conscio. La
mancanza di un amore non era la causa della malinconia, ma l’effetto,
perché essa è incapacità di amare, essa lo spinge ad
autorimproverarsi e a stare in attesa della punizione. E allora egli
mostra di voler reagire, ma in fondo non lo vuole e non lo può, perché
la ribellione gli aumenta la colpa e la colpa, a sua volta, gli richiede
una maggiore dimostrazione di pena. La rappresentazione patetica che fa
di se stesso è una deformazione della sua reale infelicità. Per
recuperare l’innocenza è necessario sottoporsi al lavoro malinconico,
simile a quello luttuoso, al cui culmine c’è l’inclinazione al
suicidio, il quale non è altro che un commiserevole eroismo. Il poeta
si accorge che il suo discorso di morte non è reale, ma è legato ad un
profondo desiderio di vita e di amore: in questo consiste la sua
“presa di coscienza”[3].
L. ci chiarisce che il suo discorso di morte è immaginario ed
esagerato, ma è necessario per esprimere l’opposto, cioè il
desiderio di vita. Se il fondo del cuore produce malinconia e desiderio
di morte, lo fa per compensazione ed espiazione: è una proiezione di se
stesso come eroe martire[4].
È facile allora la conclusione sulla “vita strozzata” e sulla
“delusione storica”: l’atteggiamento lacerato e ossessivo di L.
deriva solo in piccola parte da fatti esterni o personali o storici,
perché la vera ragione del suo dolore è interiore e antica, è
un’istanza primaria che accentua, inconsciamente, i mali, inibisce i
possibili piaceri ed esalta, al contrario, la rinuncia, l’impotenza,
la virtù e la morte. Da questa necessità nasce il ciclo idillico
elegiaco ed eroico, e il suo stesso linguaggio “indefinito”.
Per
una conferma si vedano Le memorie del primo amore (1817): emerge
un desiderio di amore impedito dalla virtù, avvelenato inconsciamente
dalla colpa (non a caso si innamora di una cugina più anziana e già
sposata); da questa esperienza nascerà Il primo amore[5].
Quel vago desiderio di vita e di amore colpevolizzato è il nucleo di
tutto ciò che sarà “vago e indefinito” nel linguaggio e nelle
visioni del L., perché nascosto anche a lui, cioè inconscio. Le stesse
figure femminili dei Canti sono solo vagamente autobiografiche,
perché si tratta di finzioni della mente e sostituzioni del soggetto
lirico[6],
il quale può amare solo donne immaginarie. Silvia e Nerina sono le
raffigurazione di quella infantile fantasia di privazione, che è
all’origine della malinconia e che può essere recuperata solo
attraverso l’immagine poetica vaga e indefinita. Solo così la poesia
può restituire catarticamente quel diletto perduto dalla
fanciullezza che la vita non può concedere. Così, la malinconia e il
lutto (inconscio e conscio) si intrecciano e si confondono, sostenendo
l’una e l’altro le ragioni della poesia.
2.
Il discorso di morte
Nel
1816 (un anno prima dell’inizio della corrispondenza con Giordani e
quindi del suo contatto con il mondo), il L. scrive l’idillio Le
rimembranze e Appressamento della morte, in cui si ribadisce
quanto dirà poi in Amore e morte (del 1833): «Quando
novellamente / Nasce nel cor profondo / Un amoroso affetto / Languido e
stanco insiem con esso in petto / Un desiderio di morir si sente» (vv.
27-31): il nascere dell’amore coincide con la nascita di una metafora
di morte («come non so», v. 32). Questi due testi ci confermano che la
malinconia è presente non solo dal 1819 (data della “conversione
filosofica”), ma anche prima della corrispondenza con il Giordani. Non
è un caso che il L. scelga un idillio funebre (ispirato dall’idillio
III di Mosco, tradotto dallo stesso L.[7]):
già qui il L. è in preda ad un bisogno di autopunizione e di rivalsa
che si rivela nelle lettere al Giordani. E’ noto infatti che
l’infanzia di L. è piena di lutti familiari (nove fratelli, di cui
sei morti prima di lui). Nell’idillio c’è una chiara corrispondenza
tra Dameta e il piccolo L.. Questo è forse l’unico vero testo
autobiografico del L., nel senso che
il solo ad andare alle radici della sua vita, cioè
all’infanzia (fondamento privilegiato di ogni autobiografia): qui è
un fratellino piccolo che muore, non un Bruto o una Silvia o una Nerina.
Nell’Appressamento
il voler morire indica una vendetta luttuosa contro di sé, una
dimostrazione di innocenza, mentre la paura di morire allude alla
proibizione e significa la paura di una pena. Prima c’è la paura di
morire (la paura di essere punito), poi di conseguenza c’è il bisogno
di dimostrare la propria innocenza con la dichiarazione di essere pronto
alla morte e portando la svalutazione sino al punto di mostrarsi quanto
più possibile infelice, malinconico e virtuoso.
3.
La “camera oscura”
Le
labili tracce del fantasma che traspare come ricordo di una minaccia di
morte violenta e di una paura traspaiono dalle prima pagine dello Zibaldone,
come pure nella lettera al Giordani del 6 marzo 1820: si tratta di
sensazione infantili di luce impedita; si prosegue poi con la favola di
Aviano con la minaccia di essere mangiato dal lupo: non è solo paura di
morire, ma di morire di morte violenta ed essere privato della
giovinezza e dell’amore. Da notare che anche nel Saggio sopra gli
errori popolari degli antichi (1815) il L., riferendosi agli errori
dell’educazione, ricorda il terrore provocato dal timore che la luna
potesse essere strappata dal cielo: questo deve aver richiamato alla
mente del poeta una fantasia infantile associata all’immagine della
tempesta (simbolo della punizione); già nei testi del 1816-1817 la luna
è associata ad un sentimento di violenza e di minaccia[8].
Si può ritenere che la descrizione dei timori panici contenuta nel Saggio
si riferisca, più che alle fonti, all’esperienza stessa del fanciullo
L. (che infatti ribadirà tali paure nello Zibaldone). Nel cap.
VIII del Saggio, per esempio, si mettono insieme diverse fobie
infantili, tutte in qualche modo legate al pericolo di perdere il
primitivo desiderio (si tratta di un pericolo pulsionale): paura degli
spettri (i genitori), paura del lupo cattivo (il padre), paura dei
temporali (le punizioni[9]).
Al Saggio si possono ricondurre i temi fondamentali e più
scottanti della poesia e del pensiero leopardiano, perché è il testo
che ne riproduce il meccanismo generativo. Ciò viene confermato da Zibaldone
531 (20 gennaio 1821) e 3518-3519 (25 settembre 1823): qui la paura
degli scoppi e degli spari festivi viene definita strana e inspiegabile
razionalmente, L. dice di averla provata nell’infanzia e
nell’adolescenza fino a quando, per il solito capovolgimento
catarchico che gli farà piacere il dolore, diventerà piacevole e
amabile[10].
All’idea della fanciullezza come età vagamente felice si accompagna
il vago ricordo di antiche minacce e solitarie paure e quindi ancora di
sofferenza.
La
paura della morte è iniziata da bambino come paura di una punizione
traumatica e L. più tardi ne attribuisce la colpa all’educazione: così
il Saggio diventa il primo testo leopardiano che contenga la sua
protesta. Infatti, quando decide di cominciare a scrivere lo Zibaldone,
nel 1817, si trova nella stessa situazione dell’infanzia: la luna, il
buio, il rumore dei cani[11].
Nei
Canti gli errori non saranno più le minacce spaventose che hanno
colpito la sua immaginazione infantile, ma saranno gli errori naturali,
le illusioni piacevoli, le speranze; tuttavia, anche nel dolce ricordo
del “primo entrar di giovinezza” si nasconde l’antico fantasma di
privazione e di castigo, che il vero colpevole dell’inerzia amorosa
del poeta e dei suoi personaggi femminili, perché ha impedito fin da
prima i loro sogni d’amore
con la minaccia e poi li ha troncati con la realtà della morte, sentita
come punizione. L’amore per Silvia era già prima impossibile. Il
poeta accusa la natura e il destino, perché ormai ciò che per il
fanciullo era privazione e paura della punizione da parte dei genitori
è diventato, per la coscienza razionale e morale del poeta, un destino
mortale, una legge di natura.
Già
la scrittura epistolare (specialmente al Giordani) contiene
un’esplosione di metafore legate alla paura del divoramento e al
desiderio di divorare l’oggetto amato (la malinconia lo divora;
lo studio lo alimenta; si beve i suoi giorni amari). Tra
gli effetti più clamorosi c’è l’evidente esagerazione espressiva
di La quiete dopo la tempesta (vv. 32-41): come può un semplice
temporale aver provocato questo effetto? C’era bisogno di esagerare
così?[12]
In Zibaldone 36 compare l’immagine della camera oscura:
la situazione è detta continua, cioè dalla fanciullezza alla vita
adulta[13]:
l’angoscia consiste in terrori notturni. La camera oscura è sentita
come il luogo dell’esecuzione punitiva da parte dei genitori (e
specialmente del padre), motivata dalla solitudine e dall’oscurità e
dalla minaccia di divoramento che proviene da rumori esterni; è il
luogo in cui si è determinata nel bambino la colpevolizzazione del suo
desiderio di piacere; è il luogo in cui il dolore della perdita ha
innescato la svalutazione malinconica di se stesso, l’istanza
autocritica che lo porterà al pessimismo filosofico e morale; è il
luogo della rivalsa e della consolazione perché, soffrendo, potrà
proclamare la sua innocenza: qui è la radice del titanismo leopardiano,
il quale è coraggio di esagerare per rivalsa alla propria sofferenza,
di invocare sempre la morte pur temendola: è l’eroismo della vittima.
L’immagine della camera oscura rimane nella filigrana dei Canti
sia esplicitamente sia nell’immagine del luogo chiuso ed aperto come
centro di un ascolto e di una visione. Essa è il polo attorno a cui
ruota l’universo fantastico e memoriale del L., ma non è unico, bensì
doppio: ha in sé un’altra stanza, l’altra sponda, la stanza perduta
che è dolce immaginare e rimpiangere malgrado la paura notturna. E’
la stanza da dove il poeta da grande sente venire voci femminili[14],
è la stanza dei genitori che, indicando il divieto, accende la fantasia
e il desiderio. Fuori e lontano da quelle finestre il poeta guarderà e
ascolterà e non potrà immaginare se non un indefinito piacere[15].
Quanto
alla luna, essa fa parte integrante della scena fanciullesca; è la
scintilla che accende il fuoco del ricordo e dell’estasi immaginativa.
Il buio della camera è dovuto all’assenza della luna: la si può
vedere, ma solo riflessa. La luna è figura fruttuosa di quella luce che
resta nella camera sognata e quindi è la guida verso quella stanza: è
l’indizio principale del legame profondo tra il poeta e i fantasmi
della sua infanzia, è un luminoso cordone ombelicale che lo lega alla
natura che l’ha generato. Nel proemio dello Zibaldone e in Le
ricordanze, la luna appare come al di là di ogni rappresentazione,
una specie di fuori-testo. Immagine allucinatoria e sostitutiva,
soggetta però al divieto paterno (che può tirarla giù dal
cielo), la luna esprime un contrasto tra la serenità e la paura[16].
Nel Canto notturno alla luna si chiede, come alla madre, il perché
della nascita[17];
la luna de Il tramonto della luna è la metafora della fine della
giovinezza[18]
(senza l’oggetto del desiderio e la guida luminosa, la giovinezza è
oscura).
L’oscurità
della notte e il buio della camera, come mancanza della luce della luna
e privazione dell’amore, sono spesso qualificati con metafore che si
riferiscono all’accecamento, in opposizione al “mirare”, che è
l’azione tipica del soggetto poetico, soprattutto in riferimento agli
occhi, i quali sono nominati 37 volte nei Canti, non solo ad
indicare lo sguardo, ma ad accogliere spesso o il pianto o la paura (si
ricordi il mal di occhi del L.).
4.
Infinito e indefinito
Nel
Discorso (1818) il L. afferma che l’antichità e la
fanciullezza sono le età più propizie per la poesia: immagine antica e
immagine fanciullesca sono la medesima cosa; ma questa poesia
immaginativa è solo teorica perché dell’infanzia non resta che il
sogno o il ricordo, un senso di delusione, di inganno: il rappresentarci
felici è l’unica illusione che ci rimane.
Accanto
al compianto luttuoso e al lavoro malinconico, il L. teorizza il ricordo
della fanciullezza, una rimembranza poetica dilettosa (mentre i
romantici insistono sul terribile e sull’orrido). Se la poesia
romantica riproduce i “terrori” della fanciullezza, la poesia
leopardiana della rimembranza indefinita deve rendere dilettosi anche
quei timori e paure, deve neutralizzare l’affiorare del fantasma.
Contro la poesia realistica dei romantici, il L. sostiene una poesia
“meravigliosa” (cfr. il Discorso). La poesia del L. non sarà
mai realistica, anche quando tratta di cose reali e quotidiane; sarà
invece “vaga, oscura e indefinita”, metterà sempre un velo di
pianto, di compianto, di rimpianto e di rimembranza tra il suo sguardo e
le cose. Il L. non farà mai poesia “popolare” e non cercherà mai
l’orribile e il pauroso; egli si preoccuperà di agire sempre sulla
“immaginativa” e sul “sentimento” del lettore.
L’infinito
rappresenta in forma intensa il dispositivo generale di tutta la poesia
di L. Il “colle” diventa, catarticamente, “caro” e rappresenta
la scena della camera oscura: infatti è “ermo” e ha una siepe che
impedisce di vedere, ossia provoca una specie di accecamento[19],
un ostacolo a vedere l’oggetto amato e quindi ad amare e avere
piacere. Il “ma” (v. 4) segna la protesta, perché il poeta
“mira” ugualmente e, se non può avere, allora immagina. Non potendo
immaginare la persona amata, perché smarrita dalla coscienza, si
“finge” (v. 7) l’interminato, ossia l’infinito che allude al
finito, al passato, raffigurando così la morte e il suo sovrumano
silenzio e la profondissima quiete (vv. 5-6). Nella quale raffigurazione
(“ove”, v. 7), prima il “cor per poco non si spaura” (v. 8),
pensando alla propria morte e alla minaccia; poi, dopo l’infinito,
ecco l’eterno, che viene in mente per contrasto tra il silenzio e la
“voce” del presente che passa, come sono passate le “morte
stagioni” (v. 12). Ma questa volta, nell’immensità del lutto e
della malinconia, che lo riporta alle radici dell’animo, dove il
pensiero “s’annega” e diventa confuso, vago e indefinito, la morte
non spaventa più perché diventa eroica, espiatrice, e si intravede in
essa come un fondo di luce e di allegria, un desiderio che sopravvive
ormai innocente e rende piacevole e “dolce” il naufragare nel mare
immaginario, metaforico, della pena scontata e dell’amore ritrovato.
5.
I Canti: estraneità e mito (I
fase: 1818-1823)
Il
libro leopardiano si forma, anche editorialmente, su una linea che
esclude le Rimembranze e mette ai primi tre posti All’Italia,
Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai: ne esce un L.
di maniera che si occupa di politica e di attualità (come Foscolo,
Monti, Giordani e Manzoni). Tuttavia, neppure in questi testi mancano i
motivi tipicamente leopardiani: in All’Italia l’immagine
della morte campeggia e proprio l’enfasi retorica serve ad esagerare
il pianto, il dolore e la delusione. Nel Monumento vengono
ripetuti gli stessi temi e le stesse forme: presente vs passato,
il pianto e le lacrime, i figli e la madre, il voler morire[20]
e il rammarico di morire[21].
Ma
la sua ispirazione più schietta è il tema amore-morte. Ne Il primo
amore (X) la poesia nasce dalla malinconia che aumenta con il suo
vuoto quando le immagini poetiche si allontanano e resta l’alienazione
dei piaceri: “Tornami a mente” (v. 1), oltre alle rimembranza
petrarchesca, è un tipico esempio di come L. trasferisca nel passato
ogni attualità penosa[22].
Ai vv. 4-6[23]
il verbo mirare: gli occhi sono impediti di mirare
(guardare concretamente) perché abituati già da prima a vagheggiare
interiormente una figura antica; poi subentrano i rumori[24]
e il poeta diventa “orbo”[25]:
allora può agire solo la ricordanza[26]
che gli fa chiudere gli occhi di fronte alla diversa realtà[27].
Anche
in Per una donna inferma di malattia lunga e mortale e in Nella
morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per
mano e arte di un chirurgo[28]ritorna
la raffigurazione dell’oggetto del lutto e della malinconia: dalla
morte del fratellino alla perdita della cugina si passa alla morte di
donne innocenti e pietosamente compiante; da una poesia più
autobiografica si passa ad una poesia più letteraria (Petrarca) e da
questa ad un’espressione originale e moderna, tipicamente leopardiana,
che arriverà sino a Silvia e a Nerina, passando attraverso Saffo e
Aspasia.
Lo
stesso regime ambiguo della ricordanza è presente in Alla luna (XIV)
che illustra più chiaramente il fenomeno del compiacimento del proprio
dolore mostrandolo quasi come un destino (vv. 10-15). L’indefinito che
congiunge il poeta al suo passato (o meglio al suo inconscio) è
piacevole proprio perché contiene in sé l’idea vaga della morte come
espiazione sacrificale in vista di una speranza ancora più
indeterminata (la luna lo indirizza verso la sorgente del piacere). La
stessa mimesi mortale compare ne La vita solitaria (XVI), dove
ritorna l’estraneità amorosa[29],
il sentirsi escluso (è un’autoesclusione)[30]
che è l’effetto non di una delusione reale, ma di un’angoscia che
si instaura nel momento in cui si accorge dell’amore[31].
Tra
il 1821 e il 1823 L. compone sette canzoni “classicheggianti”: sono
tutte collegate dall’intellettualistica contrapposizione tra antichi e
moderni che nasconde la polemica antipaterna e, più sotterraneamente,
il conflitto di fondo tra la paura (della morte e della solitudine) e il
coraggio (dell’immaginazione e della protesta). Nella nozze della
sorella Paolina (IV): virtù delle donne antiche; A un vincitore
nel pallone (V): contro la cultura dei padri; Bruto Minore
(VI): contro Giove, figura paterna[32];
Alla primavera o delle favole antiche (VII): contro la scomparsa
delle favole antiche; Inno ai Patriarchi o de’ principii del genere
umano (VIII): desiderio di un padre mai avuto; Ultimo canto di
Saffo (IX): rimprovero al padre per averlo fatto brutto (vv. 50-54),
il poeta non può godere del paesaggio sereno (vv. 1-6) e allora gode di
visioni luttuose (il rumore del carro, vv. 11-12, richiama quello del
tuono); c’è una colpa nel suo animo, ma non sa quale (vv. 37-39): il
sospetto di avere una colpa archetipica gli deriva dall’atteggiamento
punitivo del padre e della madre che l’hanno privato della bellezza e
della salute; ma, come al solito, imputa la cosa al fato (vv. 46-49).
In
queste canzoni il poeta vorrebbe far tacere, sotto il mito, la sua
paurosa inquietudine, la quale ritorna proprio da quell’antichità che
la fantasia poetica vorrebbe descrivere felice; tuttavia, se si va in
profondità, si capisce il valore simbolico di questa scelta: la sua colpa
non può essere del tutto nascosta. Anche in Consalvo (XVII)
ritorna la coppia amore-morte[33]:
il desiderio di morire è la punizione per aver nutrito il desiderio
amoroso. Così pure, in Alla sua donna (XVIII), il desiderio
d’amore non riguarda una donna reale: sembra trattarsi di un amore
platonico, ma in realtà è un fantasma primario che ne incarna il
desiderio[34].
6.
I Canti: compianto e interrogazione (II fase: 1828-1837)
Quando
riprende la poesia, nel 1828, con Il risorgimento (XX), L. si
rivolge ancora alla “prima età” (vv. 1-6; 25-28; 97-100). In A
Silvia (XXI) l’interrogativo iniziale è rivolto ad una donna
morta: si tratta quindi di una commemorazione funebre in cui la morte è
poetica; si piange si di una perdita iniziale, epoca di sentimenti che
non si possono dire se non con metafore di morte. L’immagine
della morte permette al poeta di incolpare la natura e il destino (vv.
36-39), di nascondere sotto finzioni “ragionevoli” l’accusa
parentale. E’ il pianto su una tomba che racchiude un amore di donna combattuto
e vinto in battaglia da un morbo “chiuso” (ritorna l’idea
delle imposte chiuse, della stanza chiusa): è un circuito dominato da
una legge carceraria di esclusione. Silvia torna sul limite ultimo del
girare degli occhi del poeta; così, il compianto su una donna perduta
diventa un affetto acerbo e sconsolato su se stesso (vv. 49ss.), affetto
acerbo perché radicato nell’infanzia dolorosa e sconsolata.
I
nomi di Silvia e di Nerina non sono reali ma arcadici: l’unica realtà
che esiste è quella psichica del ricordo, a cui si aggiunge il riflesso
inevitabile dell’epoca più lontana. Ne Le ricordanze (XXII) il
L. ritorna agli anni della delusione e all’inizio della
rappresentazione eroica di se stesso[35].
Le ricordanze sono al centro della poesia dei Canti, perché
il ricordo è fondamentale nell’universo poetico leopardiano[36]:
dopo sette anni di studio tranquillizzante (perché espiatorio) ritorna
il “vero”; lo studio e la virtù nutrivano un ideale di gloria che
il ritorno della colpa mostra essere mero desiderio, vago immaginare,
per cui resta solo l’ombra catarchica della morte (vv. 77-103). Il
ricordo è duplice: dolce quello delle speranze e acerbo quello della
delusione che rinvia al trauma infantile; anche a distanza di un
decennio, il L. ripercorre il suo cammino partendo da una fanciullezza
austera e speranzosa, ma segretamente segnata dai terrori della
precedente infanzia che ha cercato di nascondere e di assimilare. La sua
poesia ne riceve un’impronta definitiva, un marchio di rimpianto dolce
e straziante, tipico di chi non riesce a superare del tutto l’antica
paura di essere violentato. Contro questi sussulti del profondo, il L.
adopera il farmaco mimetico e luttuoso della morte desiderata o subìta,
protestata in una figura femminile (Silvia e Nerina: vittime sacrificali
uccise per pagare un peccato antico di cui sono ignare come lui).
Nerina non c’è più, ma non c’era neppure da viva: era una
sembianza che veniva da una memoria nascosta (altrimenti penseremmo ad
un L. che passa da una donna all’altra). La realtà poetica finge e
nasconde una reale assenza, un’immagine d’amore perduta per sempre;
la pietà per la sua scomparsa è pietà per se stesso, del viver suo
così vile: in questo modo, la donna di ogni suo sospiro diventa
“compagna d’ogni mio vago immaginar” (v. 171).
Il
Canto notturno di un pastore errante nell’Asia (XXIII) è come
l’amplificazione poetica dell’inconsapevolezza leopardiana, del suo
non capire perché, il perché di un atteggiamento straniero, un
perché che diviene cosmico e filosofico. La domanda sul “perché
delle cose” sarebbe banale se non sfociasse in una insistita
disperazione, in una commossa personificazione della luna. La situazione
idillica e pastorale è quella a cui il L. ricorre più facilmente per
ritornare verso l’originaria natura: è un’immaginare ancora la
morte (l’inattività del pastore confina con la morte). La vendetta
leopardiana verso i genitori, colpevoli di averlo fatto nascere (averlo
staccato dal seno materno), si esalta nel distruggere la vita: lo
spaurimento iniziale ha generato una visione catastrofica
dell’esistenza.
La
quiete dopo la tempesta (XXIV)
non descrive, come sembra a molti, una situazione idillica, ma è un
canto amaro che termina con l’invocazione della morte. La serenità
iniziale è fittizia: il piacere è vano e non esiste in sé (vv.
42ss.). Anche Il sabato del villaggio (XXV) ha il valore
di un apologo triste basato sulle vane speranze dell’attesa: la
donzella ha davanti a sé l’immagine della vecchierella che diventerà,
mentre i rumori sono di gente che si illude di essere felice.
Il
pensiero dominante (XXVI) è
(finalmente) il pensiero di un amore senza oggetto reale e senza
speranza, che si allieta di se stesso come di un sogno[37]
che fa dimenticare la realtà. Tutto fa credere che il pensiero sia
quello di Alla sua donna, ma non è così. Il pensiero d’amore
continua in Amore e morte (XVII), in cui l’amore risveglia il
coraggio[38],
ma di morire tale è il suo effetto malinconico[39].
L’invocazione finale della morte[40]
ben si collega con A se stesso (XXVIII).
Chiunque
sia Aspasia (XXIX), il suo personaggio viene collegato in uno
spazio sentimentale immaginario[41].
La regressione all’immagine primaria della donna è espressa in
termini chiari, insieme con l’opposizione reale vs ideale,
vista vs visione, presente vs passato, vita vs
sepolcro[42].
Aspasia ha ispirato al poeta la solita accusa al “fato mortale” (è
morte la perdita delle illusioni infantili). Meglio morire che vivere
senza amore. In Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, dove una
giovane morta è rappresentata in atto di partire, accomiatandosi dai
suoi (XXX), la donna viene uccisa nell’immaginazione del poeta
perché non si allontani da lui, e la morte è l’unico mezzo per non
perderla e per associarla alla sua sorte[43];
lo stesso tema compare in Sopra il ritratto di una bella donna
scolpito nel monumento sepolcrale della medesima[44].
Nemmeno
La ginestra (XXXIV) rappresenta una svolta, anzi riannoda tutti i
fili. Al centro del poemetto ritorna il tema della paura, il terrore
della sua infanzia[45],
e il ripetersi della sensazione fanciullesca dell’indefinito (vv.
158-185).
Finita
la poesia e tramontata la luna, Il tramonto della luna (XXXIII),
ritornano definitivamente il buio e la solitudine della “camera
oscura” iniziale, immagine antica[46].
Agli
amici suoi di Toscana Firenze, 15 dicembre 1830.
Amici
miei cari,
Sia
dedicato a voi questo libro, dove io cercava, come si cerca
spesso colla poesia, di consacrare il mio dolore, e col quale al
presente (né posso già dirlo senza lacrime) prendo comiato dalle
lettere e dagli studi. Sperai che questi cari studi avrebbero
sostentata la mia vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli
altri piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e della
gioventù, avere acquistato un bene che da nessuna forza, da nessuna
sventura mi fosse tolto. Ma io non aveva appena vent'anni, quando
da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia
vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu
ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi
è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre. Ben sapete che
queste medesime carte io non ho potute leggere, e per emendarle m'è
convenuto servirmi degli occhi e della mano d'altri. Non mi so più
dolore, miei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza della mia
infelicità, non comporta l'uso delle querele. Ho perduto tutto: sono
un tronco che sente e pena. Se non che in questo tempo ho acquistato
voi: e la compagnia vostra, che m'è in luogo degli studi, e in luogo
d'ogni diletto e di ogni speranza, quasi compenserebbe i miei mali, se
per la stessa infermità mi fosse lecito di goderla quant'io vorrei, e
s'io non conoscessi che la mia fortuna assai tosto mi priverà di
questa ancora, costringendomi a consumar gli anni che mi avanzano,
abbandonato da ogni conforto della civiltà, in un luogo dove assai
meglio abitano i sepolti che i vivi. L'amor vostro mi rimarrà
tuttavia, e mi durerà forse ancor dopo che il mio corpo, che già
non vive più, sarà fatto cenere. Addio.
Il vostro Leopardi [1] Il passero solitario, vv. 18-22. [2] Lettere 32 e 42 al Giordani. [3] Lettera del 18 giugno 1820 e Zibaldone 137-140. [4] Cfr. Zibaldone 3837-3838 del 5 novembre 1823, dove c’è il malinconico e luttuoso compiacimento del soffrire o, meglio, del rappresentarsi a se stesso come sofferente. [5] Ahi come mal mi governasti, amore! / Perché seco dovea sì dolce affetto / Recar tanto desio, tanto dolore? (vv. 7-9). [6] Cfr. Saffo, la “donna mia” de La sera del dì di festa (v. 4), Alla sua Donna; Silvia e Nerina muoiono realmente per permettere a lui di morire insieme a loro, percosso dal comune fato e privato ancora giovane del piacere dell’amore: con lui esse hanno un rapporto di pietà, non d’amore; infatti, le donne del L. o sono irreali o sono puttane. [7] Cfr. in Leopardi. Prose e poesie, a cura di M.A. Rigoni, vol. I, Milano 1987, pp. 499-504. [8] La luna che cade diventerà il tema dell’idillio Lo spavento notturno. [9] Cfr.il cap. XIII dedicato al tuono. [10] Cfr. anche Zib. 211-212 (16 agosto 1929) e 3078 (1 agosto 1823). [11] Zib. 515-.516 del 16 gennaio 1821. [12] Cfr. anche La ginestra, vv. 237-268. [13] «Era conforto / Questo suon, mi rimembra, alle mie notti / Quando fanciullo, nella buia stanza / Per assidui terrori io vigilava, / Sospirando il mattin» (Le ricordanze, vv. 51-55; il testo è del 1829). [14] Cfr. Le ricordanze, vv. 136-173. [15] Cfr. La sera del dì di festa, La vita solitaria, A Silvia, Alla sua donna, Canto notturno. [16] Si veda l’inizio e la fine di La sera del dì di festa, ma anche Alla luna, Bruto, Saffo. «Spenta per me la luna», Il risorgimento, v. 22. [17] «Ed io che sono?» (v. 89). [18] «Tal si dilegua, e tale / Lascia l’età mortale / La giovinezza» (vv. 20-22); «Ma la vita mortal, poi che la bella / Giovinezza sparì, non si colora / D’altra luce giammai» (vv. 62-64). [19] Si tratta di una variante del buio e del divoramento. [20] “Perché il nascer ne desti o perché prima / Non ne desti il morire, / Acerbo fato?” (vv. 121-123). [21] “Quando più bella a noi l’età sorride, / A tutto il mondo ignoti / Moriam per quella gente che t’uccide” (vv. 151-153). [22] Qui non siamo molto lontani dalle Rimembranze: è amore per una donna -la cugina- perduta non perché muore, come Nerina, ma perché parte. [23] “Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi, / Io mirava colei ch’a questo core / Primiera il varco ed innocente aprissi”. Nel manoscritto c’è vagheggiava. [24] “Senza sonno io giacea sul dì novello, / E i destrier che dovean farmi deserto, / Battean la zampa sotto al patrio ostello” (vv. 39-41). [25] “Orbo rimaso allor, mi rannicchiai / Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi, / Strinsi il cor con la mano, e sopirai” (vv. 55.57). [26] “Amarissima allor la ricordanza / Locommisi nel petto, e mi serrava / Ad ogni voce il core, ad ogni sembianza” (vv. 61-63). [27] “E l’occhio a terra chino o in se raccolto / Di riscontrarsi fuggitivo e vago / Né in leggiadro soffria né in turpe volto: / Che la illibata, la candida imago / Turbare egli temea pinta nel seno, / Come all’aure onda di lago” (vv. 84-90). [28] Si tratta di due canzoni, non inserite nei Canti, del 1819. In: Leopardi. Prose e poesie, cit., pp. 385-394. [29] “Amore, amore, assai lungi volasti / Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno” (vv. 39-40). [30] “Talor m’assido in solitaria parte, / Sovra un rialto, al margine di un lago / Di taciturne piante incoronato” (vv. 23-25). [31] Anche nella canzone Il sogno il sogno non è reale e la donna è trasfigurata. [32] Si veda la lettera scritta a Monaldo a proposito della tentata fuga (12 luglio 1819). [33] “Due cose belle ha il mondo: / Amore e morte” (vv. 99-100). [34] “Viva mirarti omai / Nulla spene m’avanza; / S’allor non fosse, allor che ignudo e solo / Per novo calle a peregrina stanza / Verrà lo spirto mio” (vv. 12-16). [35] Cfr. le lettere al Giordani degli anni 1817-1820. [36] Già nel 1817 il L. aveva scritto Le rimembranze (Leopardi. Prose e poesie, cit., pp. 345-349). [37] “Ahi finalmente un sogno / In molta parte onde s’abbella il vero / Sei tu, dolce pensiero” (vv. 108-111). [38] “Ch’ove tu porgi aita, / Amor, nasce il coraggio” (vv. 22-23). [39] “Quando novellamente / Nasce nel cor profondo / Un amoroso affetto, / Languido e stanco insiem con esso in petto / Un desiderio di morir si sente” (vv. 27-31). [40] “Null’altro in alcun tempo / Sperar, se non te sola; / Solo aspettar sereno / Quel dì ch’io pieghi addormentato il volto / Nel tuo virgineo seno” (vv. 120-124). [41] “Torna dinanzi al pio pensier talora / Il tuo sembiante, Aspasia” (vv. 1-2). Corsivo mio. [42] “Perch’io te non amai, ma quella Diva / Che già vita, or sepolcro, ha nel mio core” (vv. 78-79). [43] “Morte ti chiama (...) Il loco / A cui movi, è sotterra: / Ivi fia d’ogni tempo il tuo soggiorno. / Forse beata sei” (vv. 18.22-25). [44] “Così riduce il fato / Qual sembianza fra noi parve più viva / Immagine del ciel” (vv. 19-21). [45] “formidabil monte / Sterminator Vesevo” (vv. 2-3). Da notare che l’aggettivo formidabil era già in Amore e morte, v. 46. [46] “Abbandonata, oscura / Resta la vita” (vv. 27-28); cfr. anche vv. 63-68. |