ROMANTICISMO LEOPARDIANO

(in Mario Andrea Rigoni, Il pensiero di Leopardi, Bompiani, Milano 1997, pp. 115-131)

 

 

 

testo in Word

 

 

Se ci si attenesse alle dichiarazioni contenute nello Zibal­done non meno che nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, si dovrebbe escludere qualsiasi appartenenza di Leopardi alle idee, ai programmi o allo spirito non solo del romanticismo italiano, quale è rappresentato dalla tradi­zione lombarda che corre dagli uomini del "Conciliatore" fi­no a Manzoni, ma anche del romanticismo europeo, e più in particolare tedesco. Al proposito disponiamo, rispettiva­mente, di due testimonianze del tutto esemplari, fra le mol­te che si potrebbero allegare. L'una è rappresentata da un pensiero poco citato e poco noto del 1829, che colpisce con altissima precisione la manzoniana "poetica del vero", an­che se nessun nome viene espressamente avanzato:

Dello stesso secolo è mancare di poesia, e volere nella poesia sopra ogni cosa l'utile, il linguaggio del popolo; bandirne l'eleganza; pri­varla della maggior parte del bello, ch'è la sua essenza; o, contro la propria natura di essa, subordinare il bello (e quindi il sublime, il grande ecc.) al vero, o al così detto vero. È naturale e conseguente che un secolo impoetico voglia una poesia non poetica, o men poetica ch'ei può; anzi una poesia non poesia (Zib. 4497: 2 Maggio 1829).

L'altra, contenuta in una riflessione del 1821, sul potere conoscitivo dell'immaginazione e della lirica, nega drastica­mente qualsiasi valore, sotto qualsiasi profilo, al sistema ro­mantico tedesco, contrapposto alla rivoluzionaria filosofia di Cartesio, Galileo, Newton e Locke:

Speculando profondamente sulla teoria generale delle arti, i tede­schi ci hanno dato ultimamente il romanzo del romanticismo, si­stema falsissimo in teoria, in pratica, in natura, in ragione, in me­tafisica, in dialettica, come si mostra in parecchi di questi pensieri (Zib. 1857: 5-6 Ottobre 1821).

Del resto, fin dal luglio 1816, in una nota della Lettera ai sigg. compilatori della Biblioteca italiana, Leopardi si era pre­murato di condannare un testo che, a rigore, avrebbe dovu­to suscitare il suo interesse, se non addirittura la sua appro­vazione: quelle Conjectures on Original Composition di Young (1759) che, esaltando il genio poetico come ispirazione innata, ori­ginale e divina, frutto della natura e non della cultura, dello studio e dell'imitazione, sembra accordarsi con la visione espo­sta nella Lettera stessa. "Niuno aspetti", scrive invece Leo­pardi, "che io citi il Trattato della Composizione Originale di Young. Altri che io lo vanterà". E, più in generale, si era dichiarato contrario agli "scrittori del Nord", rappresentati da Ossian.

Ma, se l'obiettiva estraneità e anzi opposizione di Leopardi al romanticismo italiano risulta evidente e completa fin da­gli inizi, e non ha nessun bisogno di essere dimostrata, la sua inconsapevole affinità ideale con alcune delle concezioni ti­piche del romanticismo europeo, in particolare tedesco, è un fatto non meno certo che sorprendente. Esso meriterebbe di essere indagato anche sul piano storico-biografico, al fine di stabilire se Leopardi, che non sapeva il tedesco, come la maggior parte degli scrittori italiani contemporanei, avesse altre vie di accesso alla conoscenza della scuola di Jena e, più in generale, della cultura tedesca di fine Settecento-inizi Ot­tocento, che non fossero quelle rappresentate dagli scritti di Madame de Staël e di August Wilhelm Schlegel. Senza escludere altre possibilità, che restano tuttavia abbastanza oscure e labirintiche, osserviamo per il momento che a un genio della qualità di Leopardi bastavano poche e minime. sollecitazioni per arrivare a esiti speculativi radicali, in ar­monia con quello Zeitgeist nel quale bisognerà riconoscere qual­che cosa di più che un semplice mito storiografico. D'altra parte, sarebbe davvero singolare che il nostro massimo pensatore-poeta moderno non avesse niente in comune con il fenomeno originario e costitutivo della modernità stessa, rappresentato per l'appunto dalla rivoluzione romantica te­desca e, secondariamente, inglese. Neppure lui, intanto, poteva negare che certi temi della sua poesia e del suo pensie­ro, come quelli dell'infinito, dell'antichità, della rimembranza e della analogia appartenessero di diritto al romantico. Infat­ti, in questo senso, l'aggettivo ricorre almeno quattro volte nello Zibaldone e sempre in un'accezione positiva. "Alle vol­te l'anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni ro­mantiche. La cagione è [...] il desiderio dell'infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l'immaginazione e il fanta­stico sottentra al reale" (Zib. 171). "L'antico è un principa­lissimo ingrediente delle sublimi sensazioni, siano materiali, come una prospettiva, una veduta romantica ec. ec. o sola­mente spirituali ed interiori. Perché ciò? Per la tendenza del­l'uomo all'infinito" (Zib. 1429: 1 Agosto 1821). Ancora: "Per­ché il moderno, il nuovo, non è mai, o ben difficilmente romantico; e l'antico, il vecchio, al contrario? Perché quasi tutti piaceri dell'immaginazione e del sentimento consistono in rimembranza. Che è come dire che stanno nel passato anzi che nel presente" (Zib. 4415: 22 Ottobre 1828). Infine: "[...] un luogo ci riesce romantico e sentimentale, non per sé, che non ha nulla di ciò, ma perché ci desta la memoria di un al­tro luogo da noi conosciuto, nel quale poi se noi ci trovere­mo attualmente, non ci riescirà (né mai ci riuscì) punto ro­mantico né sentimentale" (Zib. 4471). Ma non sono queste "situazioni romantiche", del resto notissime a tutti i lettori dei Canti, che intendo mettere in luce dietro l'antiromanti­cismo di Leopardi; sono precisi concetti filosofici ed estetici.

1. Il primo aspetto che consente di iscrivere il pensiero di Leo­pardi in un orizzonte insieme romantico ed europeo, in net­ta e irriducibile opposizione all'orientamento della "scuola lombarda", è il concetto della poesia non più come imitazio­ne, secondo una tradizione estetica che risaliva a Platone e ad Aristotele, ma come creazione o espressione della pura soggettività. Tra il 1817, quando in alcune note dello Zibaldone denuncia ancora una concezione mimetica (poesia come imitazione), e il 1826-29, quando teorizza l'autonomia poetica dell'io, Leo­pardi compie per proprio conto una "rivoluzione copernica­na" che non trova altro esempio in Italia e che riproduce in­vece l'itinerario intellettuale di tanti scrittori e critici euro­pei tra Sette e Ottocento. Per la verità, già la citata Lettera ai sigg. compilatori della Biblioteca Italiana (1816), in quanto definisce la poesia "scintilla celeste, e impulso soprumano" e in quanto dichiara che "il più grande di tutti i poeti è il più antico, il quale non ha avuto modelli", si collocava al di fuori di una rigorosa economia mimetica della rappre­sentazione. In ogni caso, nella sua riflessione sulla natura della poesia, Leopardi ripercorre solitariamente ma puntual­mente l'evoluzione compiuta dalla cultura estetica tedesca e inglese fra Sette e Ottocento, che giunse alla dissoluzione della teoria imitativa dell'arte attraverso il primato rico­nosciuto per un verso alla musica, per l'altro alla lirica. Benché appartenesse a un mondo che ignorava o rifiutava i prodigi della nuova musica da Haydn fino a Beethoven, im­merso com'era nella grande tradizione melodrammatica, Leo­pardi capì ed espresse la natura extraconcettuale del suono negli stessi termini in cui essa venne formulata da Wacken­roder, Tieck, E.T.A. Hoffmann e da tutti gli altri esponenti della metafisica romantica della musica strumentale: arte "pura", che non rappresenta, non imita e non significa nul­la, in quanto – a differenza della parola e dell'immagine – non può essere riferita in nessun modo alla realtà obiettiva proprio per questo, consente di afferrare immediatamente l'infinito e l'ineffabile del sentimento.

Le altre arti imitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento, ma la musica non imita e non esprime che lo stesso senti­mento in persona, ch'ella trae da se stessa e non dalla natura, e così l'uditore. [...] La parola nella poesia ec. non ha tanta forza d'esprimere il vago e l'infinito del sentimento se non applicandosi a degli oggetti, e perciò producendo un'impressione sempre secon­daria e meno immediata, perché la parola, come i segni e le immagi­ni della pittura e scultura hanno una significazione determinata e finita (Zib. 79-80).

La critica ha segnalato da tempo questa straordinaria coincidenza fra il pensiero di Leopardi e la filosofia romantico-tedesca della musica. È naturale chiedersi quale parte abbiano avuto in tale risultato le parole della Staël che Leopar­di cita dalla Corinne (IX, 2) nel passo appena ricordato ("De tous les beaux arts c'est [la musique] celui qui agit le plus immédiatement sur l'âme. Les autres la dirigent vers telle ou telle idée, celui-là seul s'adresse à la source intime de l'exi­stence, et change en entier la disposition intérieure") o quelle che potrebbe aver letto nell'Allemagne (III, 9). Le opinioni al riguardo possono essere diverse; in ogni ca­so sembra difficile ricondurre a Madame de Staël una osser­vazione come quella che "ogni assoluta novità in fatto di mu­sica contiene e quasi consiste in un'apparenza di stuonazio­ne" (Zib. 1873-1874: 9 Ottobre 1821); che "un'assoluta no­vità in musica non può esser altro che disarmonia, perché sarebbe sconvenienza dalle assuefazioni generali" (Zib. 1875: 9 Ottobre 1821).

2. Se la musica è quasi l'essenza del romanticismo, in quan­to arte dell'interiorità e della soggettività assoluta nella qua­le, come dice Wackenroder, "sentiamo il sentimento", nell’ambito della parola poetica il genere che si avvicina di più alla condizione e alle caratteristiche della musica è il lirico. Refrattario alla riduzione e alla sistemazione mimetica, tan­to da non avere un posto definito nella teorica tradiziona­le, il genere lirico acquista un'importanza crescente nel cor­so del Settecento fino a identificarsi con la poesia stessa e a diventare "l’elementare tratto fondamentale dell'arte romantica" (Hegel). È esattamente ciò che avviene anche in Leopardi, con tutte le modalità e le conseguenze che la riduzione della poesia alla lirica comporta: illegittimità della distinzione classica dei generi letterari, recupero del ruolo delle passioni nella loro vivacità e attualità, riconoscimento dell'intensità quale criterio di valore poetico, esclusione del­le forme oggettive o lunghe, considerate rispettivamente co­me tradimento o rarefazione dell'impulso lirico.

Tuttavia la lirica non è soltanto, in Leopardi, l'essenza e il culmine della poesia:è addirittura una forma superiore di conoscenza. Essa si avvale –per poter cogliere il tutto– non della precisione distinta dell`”analisi”, ma dell'immediatez­za simultanea del “colpo d'occhio”, che deriva "dall'imma­ginazione e da ciò che si chiama genio in tutta l'estensione del termine":

La minuta e squisita analisi, non è un colpo d'occhio: essa non iscuo­pre mai un gran punto della natura; il centro di un gran sistema; la chiave, la molla, il complesso totale di una gran macchina. [...] Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifesta­re il vero poeta lirico, vale a dire l'uomo infiammato del più pazzo fuoco, l'uomo la cui anima è in totale disordine, l'uomo posto in uno stato di vigor febbrile e straordinario (principalmente, anzi quasi indispensabilmente corporale), e quasi di ubbriachezza? Pindaro ne può essere un esempio: ed anche alcuni lirici tedeschi ed inglesi ab­bandonati veramente, che di rado avviene, all'impeto di una viva fantasia e sentimento (Zib. 1852 e 1856: 5-6 Ottobre 1821).

3. Ma l'attribuzione di una tale capacità gnoseologica alla li­rica presuppone, naturalmente una visione altrettanto romantica della natura, concepita non più come semplice, inerte e meccanica res extenxa, sottoposta all'opera sezionatrice della ragione, ma come un tutto organico e vitale, che solo l'im­maginazione poetica è in grado di penetrare.

Si può con certezza affermare che la natura, e vogliamo dire l'uni­versità delle cose, è composta, conformata e ordinata ad un effet­to poetico, o vogliamo dire disposta e destinatamente ordinata a produrre un effetto poetico generale; ed altri ancora particolari; relativamente al tutto, o a questa o quella parte. Nulla di poetico si scorge nelle sue parti, separandole l'una dall'altra, ed esaminan­dole a una a una col semplice lume della ragione esatta e geometri­ca: nulla di poetico ne' suoi mezzi, nelle sue forze e molle interiori o esteriori, ne' suoi processi in questo modo disgregati e conside­rati: nulla nella natura decomposta e risoluta, e quasi fredda, mor­ta, esangue, immobile, giacente, per così dire, sotto il coltello ana­tomico, o introdotta nel fornello chimico di un metafisico che niun altro mezzo, niun altro istrumento, niun'altra forza o agente im­piega nelle sue speculazioni, ne' suoi esami e indagini, nelle sue operazioni e, come dire, esperimenti, se non la pura e fredda ra­gione. Nulla di poetico poterono ne' potranno mai scoprire la pura e semplice ragione e la matematica. Perocché tutto ciò ch'è poeti­co si sente piuttosto che si conosca e s'intenda, o vogliamo anzi dire, sentendolo si conosce e si intende, né altrimenti può essere conosciuto, scoperto ed inteso, che col sentirlo. Ma la pura ragio­ne e la matematica non hanno sensorio alcuno. Spetta all'immagi­nazione e alla sensibilità lo scoprire e l'intendere tutte le soprad­dette cose [ossia le cause, le forme e i fini della natura]; ed elle il possono, perocché noi ne' quali risiedono esse facoltà, siamo pur parte di questa natura e di questa università ch'esaminiamo; e que­ste facoltà nostre sono esse sole in armonia col poetico ch'è nella natura; la ragione non lo è; onde quelle sono molte più atte e po­tenti a indovinar la natura che non è la ragione a scoprirla. E sic­come alla sola immaginazione ed al cuore spetta il sentire e quindi conoscere ciò ch'è poetico, però ad essi soli è possibile ed appar­tiene l'entrare e il penetrare addentro ne' grandi misteri della vi­ta, dei destini, delle intenzioni sì generali, sì anche particolari, della natura (Zib. 3241-3243: 22 Agosto 1823).

Senza essere sorretto da premesse idealistiche di sorta, Leopardi elabora in alcune pagine dello Zibaldone, scritte fra il 1821 e il 1823, un'estetizzazione della natura e della conoscenza che non può non richiamare quella operata dai pensa­tori del romanticismo tedesco (da Novalis a Schelling), co­me pure inglese (da Coleridge a Shelley). Solo per questa via mi pare si spieghi, fra l'altro, la dichiarazione del 1 Set­tembre 1828, che riabilita sorprendentemente il ruolo della natura nel processo poetico, ma al di fuori di ogni cornice mimetica: "Il poeta non imita la natura: ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. I' mi son un che quando Natura parla, ec. vera definizione del poeta" (Zib. 4372). Pope aveva detto la stessa cosa, quasi con le stesse parole, di Shakespeare. Nella Prefazione alle Opere del poeta inglese (1725) Pope scrive che Shakespeare è, piuttosto che un imitatore, uno strumento della Natura; e non è tanto giu­sto dire che egli parla attraverso di essa, quanto che essa par­la attraverso di lui. Analogamente, Rudolf Haym dirà di Goethe che "la sua attività era come quella della natu­ra" e che "la natura poetava in lui". Il richiamo analogico al dettato d'Amore dantesco rafforza l'idea, in Leopardi, di quella sorta di automatismo poetico, superiore alle regole e ai modelli così come alla coscienza, che fu predicato dai romantici. Ma vi sono altre implicazioni. La natura è organizzazione e attività estetica, «la natura ha istinto artistico», come diceva Novalis; inversamente l’arte costituisce un equivalente o un prolungamento della creazione naturale. La cosa curiosa è Leopardi rivolga tali concezioni contro quei “tedeschi” che ne erano i creatori. Scrive nel 1821: “Colui che ignora il poetico della natura, ignora una grandis­sima parte della natura, anzi non conosce assolutamente la natura, perché non conosce il suo modo di essere. Tale è sta­ta ed è una grandissima parte de' più acclamati filosofi dal Seicento in poi, massime tedeschi e inglesi" (Zib. 1835: 4 Otto­bre 1821). E ancora nel 1823: "Chiunque esamina la natura delle cose colla pura ragione, senz'aiutarsi dell'ímmaginazione né del sentimento, né dar loro alcun luogo, ch'è il procedere di molti tedeschi nella filosofia, come dire nella metafisica e nella politica [...]" (Zib. 3237: 22 Agosto 1823). Ma la co­sa si spiega per l'appunto con la sostanziale ignoranza che della filosofia romantica tedesca si ebbe in Italia almeno fi­no alla metà del secolo.

4. Coerente e solidale con la concezione estetica e organica, ossia romantica della natura e della conoscenza or ora accennata è l’affermazione dell’unità vivente e inseparabile di idea e parola, contenuto ed espressione, pensiero e stile, con­divisa a Leopardi con una tradizione che si estende da Her­der fino a Gentile e a Croce. Nel 1822, quasi a coronamento di una serie di riflessioni intorno al concetto che "non si pensa se non parlando" (Zib. 2212: 3 Dicembre 1821), Leopardi scrive: "Nelle parole si chiudono e quasi si legano le idee, come negli anelli le gemme, anzi s'incarnano come l'ani­ma nel corpo, facendo seco loro come una persona, in mo­do che le idee sono inseparabili dalle parole, e divise non sono più quelle, sfuggono all'intelletto e alla concezione, e non si ravvisano, come accadrebbe all'animo nostro disgiun­to dal corpo" (Zib. 2584: 27 Luglio 1822). E l'anno pre­cedente aveva argomentato che le parole sono "non la ve­ste, ma il corpo de' pensieri" (Zib. 1694: 13 Settembre 1821). La sintonia con la cultura romantica europea è, anche in que­sto caso, perfetta. Essa si manifesta nel ricorso non solo allo stesso concetto ma anche alla stessa metaforica, quel­la della "veste", che ritroviamo tal quale in Herder come in De Sanctis, in Wordsworth come in De Quincey e in Carlyle. L'affinità ideale col romanticismo si manifesta ancora in una serie di aspetti più particolari, che vanno dall’intraducîbilità dello stile classico (ma, a rigore, dello stile tout court) alla descrizione dei caratteri della tragedia antica, dalla polemica antiutilitaria nella letteratura e nel­la cultura all'inversione dei tradizionali rapporti fra etica ed estetica, dal richiamo della malinconia all'elogio della flânerie.

5. Ma l'intero pensiero di Leopardi è incardinato su un pro­blema fîlosofico-storico che è lo stesso da cui si genera, e su cui riflette il romanticismo europeo: quella differenza abissale tra antico e moderno, come differenza tra natura e pensiero, di cui la dîstinzione fra poesia d'immaginazione e poesia sentimentale, sul piano teorico, e il rimpianto delle favole an­tiche, sul piano lirico, sono un riflesso. In un certo senso, tutta l'opera leopardiana non è che un commento al fenomeno della spiritualizzazione. Di nuovo, la somiglianza con un pensatore e poeta che non fu propriamente romantico, ma risultò fon­damentale per il romanticismo tedesco, lo Schiller del saggio Über naive und sentimentalische Dichtung, balza all'occhio. Ma Leopardi sembra aver meditato questa questione, che fonda l'intera modernità e ancora oggi non si può dire esaurita, in modo più costante e radicale degli stessi tedeschi, forse perché, a differenza di tutti loro, non credeva nella possibilità della conciliazione dialettica. Egli non avrebbe mai potuto sottoscrivere l'atto di fede di Schiller, che prefigura la speranza tenacemente coltivata da tutti i romantici tedeschi: "La natura fa l'uomo una sola cosa con se stesso, l'arte lo separa e lo scinde, per mezzo dell'ideale egli ritorna all'unità". Diversamente da Schiller, Leopardi intende l'opposizione dell'ingenuo e del sentimentale in modo strettamente storico e non è affatto disposto, in linea di princi­pio, a riconoscere al secondo lo stesso valore del primo. Non c'è per lui alcuna possibilità di recuperare, su un piano diverso e superiore, quello della riflessione, la natura perdu­ta. "La verità è questa, Plotino" scrive nel Dialogo di Ploti­no e di Porfirio (1827). "Quella natura primitiva degli uomi­ni antichi, e delle genti selvagge e incolte, non è più la natu­ra nostra: ma l'assuefazione e la ragione hanno fatto in noi un'altra natura; la quale noi abbiamo, ed avremo sempre, in luogo di quella prima”.

Se "nel romanticismo tutto si spiega col fatto che le con­traddizioni e la molteplicità del reale vengono assorbite in qualcosa di superiore, come scrive polemicamente Carl Schmitt, Leopardi, per questo aspetto, non si può certo di­re un romantico. Ma se il fenomeno consiste ugualmente nella contrapposizione della poesia e dell'arte alla scienza, nell'in­clinazione al primitivo, nel rifiuto del presente e dell'attua­le, nella nostalgia della possibilità irrealizzata, indetermina­ta e illimitata, nel "divino ondeggiamento d'idee confuse, e brillanti di un indefinibile romanzesco" - per adoperare una formula dello Zibaldone (100: 8 Gennaio 1820), per questi altri aspetti Leopardi è addirittura un ultra-romantico.

Non so se dalla frattura profonda e insanabile del reale, dall'impossibilità della sua ricomposizione e della sua sintesi si possa derivare immediatamente la scrittura frammentaria e infinita dello Zibaldone, di cui, ancora una volta, non ci sono equivalenti nell'Italia contemporanea. Certo è che leopardi non poteva riconsiderare l’intera sua opera in modo più romantico di quello che documenta la lettera commovente scritta a Napoli, verso la fine della vita, ad un giovani francese: “[…] malgré le titre magnifique d’opère que mon libraire a cru devoir donner à mon recueil, je n’ai jamais fait d’ouvrage, j’ai fait seulement des essais en comptant toujours préluder, mais en carrière n’est pas allée plus loin” (Lettera a Charles Lebreton, fine giugno 1836).