ALDO CARPI |
Diario di Gusen(1944-1945) |
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Il
Diario di Aldo Carpi nasce direttamente nel Lager di Gusen (che dipendeva
da quello di Mauthausen), entro il quale l'autore era riuscito a
ritagliarsi una piccolissima speranza di sopravvivenza per via delle sue
doti di pittore. In esso Carpi racconta, con la forza dell'immediatezza e
l'intensità di una coscienza ricca di umanità, l'esperienza spaventosa
del campo di concentramento così come egli la vive giorno per giorno,
nell'incertezza d'una precarietà assoluta, costantemente ad un passo
dalla morte. L'autore trova nella fede la forza di resistere a quella terribile condizione, ed insieme lo stimolo ad andare oltre il dramma, nella direzione di una umanità umiliata e violentata. Egli vive momento per momento l'angoscia e la disperazione dell'evento tragico, che mette alla prova anche le più radicate convinzioni religiose, riuscendo però a trovare quella scintilla, quell'impulso, quella piccolissima ragione, che spingono l'individuo alla vita, che affermano anche nella condizione estrema il suo valore di umanità.
Spunti
per la riflessione 1.
Cosa significa nel linguaggio del campo Vergasung? 2.
Il dramma della morte vissuto e raccontato da Aldo Carpi subisce una
svolta improvvisa di fronte a quel morente nudo, solo, isolato. Perché?
Cosa rappresenta quell'uomo? 3.
Il protagonista legge nello sguardo del morente "una domanda di
pietà, di misericordia, di Grazia". Cosa intende dire? 4.
Perché il protagonista si sente "vile" di fronte al
morente?
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Vergasung
Si
sentiva l'atmosfera greve, un'agitazione pervadeva il campo: le notizie
vere e false correvano come il baleno, si smentivano con la rapidità del
baleno: un'ora di speranza e sollievo e dieci, quindici giorni di
oppressione al cuore. Ma in quel giorno pareva che tutto fosse carico di
elettricità, come l'ora che precede l'uragano. Andai
a letto alla sera che era già scuro, e non potevo dormire. Troppo spesso
io non potevo dormire, ma quella sera mi pareva di dover attendere
qualcosa. Le luci erano tutte spente, perciò si era in stato di allerta.
Si vedeva il basso, perverso faro rosso del reticolato nel grigiore verde
della notte lungo il muro di cinta. Passano di là soldati, una piccola
pattuglia. Poi ne passa uno solo che grida ripetutamente una frase in
tedesco, un segnale, già udito da lontano, mentre una voce dall'altro
lato risponde. Si capisce che è un segnale sinistro. Io mi sporgo perché
dormo vicino all'ultima finestra della Stube, presso il reticolato,
e vedo il soldato che passa, e poi un altro, che lanciano lo stesso
segnale. Capisco che succede qualcosa di grave, e mi ritiro perché mi
può essere tirato un colpo di fucile. Si sentono delle altre grida,
diverse, dolorose, rabbiose, ultima difesa del misero, si ode alto e
deciso il segnale, l'avvertimento del soldato, poi tre quattro scariche
secche di moschetto, e silenzio. Qualche mormorio, poi più nulla. Il
mattino, domandai. Tutti avevano udito; nessuno allora dormiva nel grande
silenzio che ascolta. Due prigionieri con carte geografiche della guerra
fucilati per ordine del capo del lager. C'erano
state delle revisioni o perquisizioni, allora, che si susseguivano ora qui
ora là, vicine e lontane. Qualche giorno prima c'era stata un'altra
fucilazione, quella di un russo, per parole dette sulla guerra: avevano
tentato di obbligarlo ad andare verso il reticolato elettrico, cosí la
sentinella avrebbe dovuto sparargli. Il russo gridò alla sentinella
alcune frasi nella sua lingua natale. Anche la sentinella oltre la rete
era russa, un ucraino al servizio dei tedeschi, lo udì e pare abbia detto
al prigioniero di fermarsi perché non avrebbe sparato. Cercarono di
obbligarlo ad avanzare facendolo condurre da nuovi gendarmi, prigionieri
travestiti; ma questi sentirono la sentinella caricare il fucile e si
fermarono. Il russo fu ucciso ugualmente subito dopo e la sentinella fu,
col permesso del comandante, linciata dai compagni col metodo di un colpo
a testa, in fila, uno dopo l'altro. Questi fatti ci diedero la sensazione
che la complessa impalcatura tedesca aveva cominciato a sfasciarsi. Cosí
si arriva alla notte tra il 21 e il 22 aprile, alla notizia della Vergasung,
all'uccisione col gas degli inabili al lavoro e dei malati gravi, al
massacro preannunciato per tutti, ai trasporti misteriosi di centinaia di
compagni, di cui poi non si sapeva piú nulla. Correvano delle voci, ma di
coloro che erano partiti non era possibile sapere con certezza se erano
ancora vivi o se erano stati uccisi. Quella
notte ero a letto e sentii tutto un sussurrare di ordini nel buio, e poi
grida, gemiti, voci lamentose e ordini di muoversi, di far presto. Un
piccolo russo mi si avvicina e mi dice: “Massimo auch Vergasung jetzt”.
[Anche Massimo a gasare]. Il colonnello Massimo, del porto dell'isola
d'Elba, è passato anche lui col gruppo dei morituri ed è entrato nel Bahnhof
del blocco 31. Al mattino andai alla finestra e vidi tirar fuori dalla
porticina della cameretta centinaia di morti che venivano buttati là,
l'uno sull'altro. Un grande camion con rimorchio era tutto pieno di
cadaveri, e poi non so quanti trasporti han fatto col piccolo carro a
mano. Sui corpi nudi si vedeva il segno rosso del gas dove la coperta di
lana non li aveva protetti. Molti avevano perso sangue dal naso, dalla
bocca e avevano ferite sulla testa: questi ultimi erano quelli che
occupavano i letti piú elevati, dai quali erano stati fatti precipitare
per portarli fuori. Alcuni medici e infermieri erano incaricati di questo
lavoro e sul viso dei migliori si leggeva il disgusto e l'orrore. Non
potevano far diversamente: dovevano far presto per lasciare il posto ad
altri disgraziati nella notte successiva. Il
terrore si diffuse nel campo, specialmente tra gli inabili e tra gli
ammalati dell'ospedale. Di qui molti vollero uscire e tornare ai loro
blocchi, ossia al lavoro. Molti di questi morirono perché, privi di
forze, non poterono sostenere la fatica. La stagione era ancora inclemente
e la raccolta delle patate, sotto la pioggia gelata e nel fango, costò
molte altre vite. Si
seppe che nella prima notte della Vergasung i prigionieri chiusi
avevano tentato di forzare le finestre e le porte. Uno di essi morí con
la bocca schiacciata contro i vetri della finestra. La mattina dopo le
finestre furono chiuse dall'interno con tavole e la porta rinforzata con
traverse di legno. La notte anche le nostre finestre furono tappate con
coperte da letto perché non vedessimo: ma sapevamo che non era il caso di
tentar di vedere perché la proibizione e il pericolo inerente erano
evidenti. Si
sentirono voci d'uomini che comandavano: “Presto, presto ” . Se ne
riconobbe qualcuna. Si sentí trascinare un corpo già evidentemente morto
e cercarne il numero di matricola. Poi voci sussurrate e uno scalpiccio.
Un principio di lamenti... un coro di lamenti; e poi urla, proteste con
voci di pianto, grida di un ragazzo, acute, poi silenzio. La porta era
stata chiusa, sprangata. Il colonnello Scuri Tavazzari, I'avvocato Matteis
di Torino, Vergani di Varese e piú di cento altri italiani là dentro.
Alla mattina non vidi, non andai a vedere. I ragazzi russi mi dissero:
“Quasi duecento morti portati via ”. Il
terrore nel campo si faceva piú greve: molta altri che non lavoravano
andarono a lavorare, gli inabili si dichiararono abili al lavoro: cosí
altro dolore, altri morti. Durante
la notte seguente un ragazzo russo che venne a chiedermi l'accendisigari
mi disse: “Proféssor, senti? Gusen 2 viel Kaputt [tanti morti]; due ore
sentire gridare ”. Mi aprí la finestra e nella notte grigia udii quel
lamento diffuso, la voce di spavento dei miseri massacrati a colpi di
mazza e di bastone al di là del nostro muro. Richiusi la finestra. Che
fare? I miei camerati il giorno dopo videro scaricare, dal grosso carro di
Gusen 2, i morti con la testa e il corpo sanguinanti. Io non andai a
vedere. Erano cose che avevo già veduto e, pur non volendolo, dovevo
vedere ancora in seguito. Come
vidi ieri caricare su un grosso camion con rimorchio dei poveri cadaveri
ridotti cosí male e sporchi che sembravano carogne di topi di chiavica.
Erano morti di qui e di Gusen 2, e resti del “transport” da Lipsia a
qui. Diciotto giorni di viaggio chiusi in carro bestiame in mezzo a
escrementi e a cadaveri già in putrefazione. I pochi residui di esseri
viventi, carichi di grossi pidocchi e pulci sulla pelle nuda chiazzata,
arrivarono al Bahnhof del blocco 31, ultimo porto. Ma
vidi un morto ieri: lo credetti morto ma era solo un moribondo; arrivato
dopo il “transport” da Steyr: tutto attorno a lui, seduti, erano
esseri vivi avvolti in coperte e stracci, simili assai ai prigionieri dei
serbi ch'io vidi a Valona nel I9I5 . Visi di dolore, grigi come le
coperte, visi sfiniti quasi di dementi, miserabili e sporchi. Quando
ripassai da quella camera tutti erano stati portati via tranne il
moribondo del centro. Egli era ora solo, nudo, disteso al suolo al centro
della stanza, visibile da quattro porte. Agonizzava e aveva il leggero
singulto del respiro difficile, quando il cuore rallenta. Le braccia aveva
ripiegate sul petto e il viso riteneva ancora un'espressione di vita. Un
dolore infinito diffuso sulla faccia di colui che morendo si sente da
tutti abbandonato, da nessuno accarezzato. Due occhi piccoli neri
guardavano in alto e luccicavano sotto le palpebre: c'era del pianto,
sotto, pianto senza lacrime. Una bocca semiaperta nel volto abbronzato,
pareva parlare tutto il viso pareva parlasse, non a noi, non a nessuno, a
Dio, raccomandando se e qualcuno del suo paese: era una preghiera, una
domanda di pietà, di misericordia, di Grazia. Mi venne la voglia di
abbassarmi e di fargli il segno della croce sulla fronte. C'erano altri,
eravamo nel lager non ebbi il coraggio e ne ho il rimorso. Doveva essere
uno di quei semplici contadini russi, semplici come si vedono nei libri di
Tolstoj. Era solo, disteso sul pavimento della stanza vuota, e Cristo
moriva con lui. E io mi sentii vile nell'anima davanti a lui. [Aldo
Carpi, Diario di Gusen, Torino, Einaudi, 1993] |