I placiti cassinesi (960)

In quattro pergamene scritte tra il marzo 960 e l'ottobre 963, compare per la prima volta una lingua che intenzionalmente viene usata "al posto" del latino. Prendiamo in esame la prima di queste quattro pergamene, il placito di Capua del marzo 960, pubblicato per la prima volta nel 1734 dall'abate Erasmo Gattola.

Il giudice Arechisi deve decidere, in una controversia tra Don Aligerno, abate del monastero di Montecassino e un privato, Rodelgrimo di Aquino,  sul possesso di alcune terre. L'abate sostiene che appartengono al monastero per diritto di usu capione (principio ancor oggi valido: chi possiede e utilizza senza contestazioni da alcuno, un certo bene, per trenta anni, ne diventa l'effettivo proprietario). Don Aligerno è d'accordo col giudice Arechisi: la formula della testimonianza sarà Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte sancti Benedicti. Interverranno poi tre testimoni a favore del convento e ripeteranno la formula prescelta. Per questo motivo, sulla pergamena del marzo 960, la formula compare, identica, quattro volte. I tre testimoni, Teodomondo diacono e monaco, Mari chierico e monaco, Gariberto chierico e notaio, devono giurare di fronte a Rodelgrimo ponendo la mano sul documento da lui prodotto. Il giuramento deve essere pronunciato e scritto in una lingua compresa non solo dal monaco benedettino ma anche dai testimoni e dalla parte avversa. L'atto del notaio è scritto, come di regola, in latino.

 

[+ In nomine domi]ni nostri Iesu Christi, bicesimo primo anno principatus domni nostri Landolfi gloriosi principis, et septimo decimo [anno principatus domni] Pandolfi, quam et secundo anno principatus domni Landolfi, excellentissimis principibus eius filiis, [...] die stante mense martio, tertia indictione. Dum nos Arechisi iudex.....

Ideo nos qui supra iudex iudicabimus et per nostrum [iu]dicium eos guadiare fecimus tali tenore, quatenus ipse qui supra Rodelgrimus plicaret se cum lege, et ipse [qui] supra Aligernus benerabilis abbas pro pars memorati sui monasteri faceret ei per testes talem consignationem se[cun]dum lege, ut singulo ad singulos ipsi testes eius teneat in manum supradictam abbrebiaturam, quam ipse Rodel[grim]us hostenserat, et testificando dicat: "Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, [t]renta anni le possette parte sancti Benedicti"; et firmarent testimonia ipsa secundum lege per [sa]cramenta.

 

 

Sao al posto del  latino scio o sapio. Da sapio deriverà  la forma dialettale campana saccio

 

 

 

ko al posto del quod latino

 

 

 

 

Caduta delle desisenze (terras, fines)

kelle deriva da eccu[m] illae e si trasformerà poi nell'italiano quelle.

ki deriva da eccu[m] hic e si trasformerà poi nell'italiano qui.

 

Un testo di epoca e luogo non lontani dai placiti cassinesi mostra quale sia la formula latina corretta e  documenta il fatto che i giuramenti dei Placiti di Montecassino sono l'eccezione in volgare e non la norma in latino. Nel Chronicon Vulturnese (936), in una causa del giudice Ausenzio, tra un tale Maione di Capua e Rambaldo abate di San Vincenzo al Volturno, compare la formula:

Formule simili sono riportate negli altri tre placiti di Sessa Aurunca (marzo 963), Teano (luglio 963) e ancora Teano (963).

Sessa Aurunca marzo 963   Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro, que ki contene, et trenta anni le possette.   So che quelle terre, per quei confini che ti mostrai, furono di Pergolardo, e qui sono contenuti e per trent'anni li possedette.
         
Teano luglio 963   Kella terra, per kelle fini que bobe mostrai, sancte Marie è, et trenta anni la posset parte sancte Marie.   Quella terra per quei confini che  a voi mostrai è di Santa Maria e per trenta anni l'ha posseduta la parte di Santa Maria.
         
Teano ottobre 963   Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe mostrai, trenta anni le possette parte sancte Marie.   So che quelle terre per quei confini che ti mostrai per trent'anni le ha possedute la parte di Santa Maria.