Nell’antica Roma vivono comunità formate da ebrei della diaspora. Questa parola, la cui radice greca significa “dispersione", evoca la situazione degli ebrei fuori del loro paese d'origine. Molto presto nella loro storia, e per ragioni diverse, economiche e politiche, gli ebrei hanno lasciato la Giudea. Fin dalla fine del IV sec. a.C., si installano nella parte orientale del bacino mediterraneo, in Egitto, in Mesopotamia, in Siria, in Asia minore; in epoca ellenista, si costituiscono comunità in Grecia e in Italia. I conflitti tra Roma e la Giudea – la conquista da parte di Pompeo nel 63 a.C., la guerra del 66-74 d.C. condotta da Tito, quella del 132-135 sotto Adriano – fanno affluire verso Roma diversi ebrei, prigionieri, schiavi o emigrati volontari. La prima attestazione dell'esistenza di ebrei a Roma risalirebbe al 139 a.C., data nella quale, se bisogna credere allo storico Valerio Massimo, il pretore Cornelius Hispanius si scaglia contro il culto di Jupiter Sabazius (egli confonde Sabazios, una divinità originaria della Asia minore, con il dio degli ebrei Yahvé Sabaoth):
La letteratura conserva traccia della presenza ebraica nella vita quotidiana della città. Orazio e Ovidio menzionano una certa familiarità della società romana con le pratiche ebraiche. Il primo, mentre racconta un aneddoto (Sat. I, 9,60-74), non trova utile precisare cos’è lo shabbat (il sabato ebraico); Ovidio si prende gioco delle donne attirate dalla religione ebraica: se se ne vuole incontrare una bella, non bisogna trascurare di assistere ai culti a cui partecipano; così consiglia ai seduttori:
Dopo il II sec. d.C., i testi non ci illuminano più sulla situazione degli ebrei. Ma i resti archeologici attestano la presenza a Roma e dintorni di molte sinagoghe. La meglio conservata è quella di Ostia.
A Roma, alcune iscrizioni scoperte nelle catacombe forniscono anche informazioni preziose sull'identità ed il lavoro degli ebrei che vi sono sepolti: molti, per esempio, portano nomi greci – gli ebrei della diaspora sono in gran parte ellenizzati e la loro lingua è spesso il greco. Le catacombe ebraiche sono modeste e prive lusso - così come sono modesti i lavori indicati sulle iscrizioni funerarie. Gli ebrei sono spesso schiavi, liberti, stranieri o appartengono alla plebe. Giovenale menziona due volte (Sat. VI, 542-547) la miseria degli ebrei residenti a Porta Capena:
«Nunc sacri cedimenti nemus e delubra locantur Iudaeis, quorum cophinus fenumque supellex». (Sat. III,13-14)
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Come tutti i popoli dell'impero, gli ebrei – o meglio, per i Romani, Iuadaei, abitanti della provincia di Judea – hanno il diritto di osservare le loro abitudini e praticare la loro religione, quando non sono in contrasto con le leggi romane. I peregrini – cioè, gli stranieri che vivono a Roma – hanno la stessa possibilità. Inoltre, alcune deroghe permettono agli ebrei di rispettare gli imperativi della loro fede e delle loro pratiche cultuali.
Claudio assume infatti un atteggiamento più misurato. Nel 41, scrive agli abitanti di Alessandria in conflitto con gli ebrei della città; certamente, la situazione degli ebrei di Alessandria è molto diversa da quella degli ebrei di Roma – gli antagonismi religiosi sono numerosi e virulenti –, ma la lettera è rivelatrice dello stato d'animo dell'imperatore e della sua preoccupazione di mantenere la pace salvaguardando sia le pratiche tradizionali degli ebrei – pur limitando l'aumento della loro popolazione in città – sia gli interessi di quelli che si oppongono loro. Lo stesso anno tuttavia adotta contro di loro un decreto d'espulsione, testimoniato allo stesso tempo da Svetonio («Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantes Roma expulit», Vita dei dodici Cesari, Claudio 23,4) e da un passo degli Atti degli apostoli, in cui si dice che «Claudio aveva ordinato a tutti gli ebrei di lasciare Roma». Ci si chiede tuttavia se questo decreto non riguardi i cristiani provenienti dall’ebraismo e se questa decisione non abbia avuto un effetto limitato. I molteplici movimenti di sommossa che insanguinano la Giudea, la rivolta del 66 d.C., la guerra che ne segue fino alla conquista di Gerusalemme da parte di Tito nel 70, hanno certamente esercitato un'influenza sulle relazioni tra ebrei e Romani, e, si può presumere, sulla vita degli ebrei di Roma. Con la distruzione del tempio di Gerusalemme – che segue la presa della città nel 70 –, simbolo della presenza del Dio degli ebrei, crolla un elemento dell'identità ebraica e della coesione tra i membri della diaspora. Per i Romani, la nazione ebraica diventa una nazione sconfitta; la loro vittoria si scrive sulle pareti della città: gli oggetti del culto ebraico sono rappresentati come trofei di guerra sull'arco di trionfo costruito in onore di Tito. D'altra parte, il successo militare consolida i Romani nella sensazione della loro superiorità e del loro buon diritto: se hanno vinto, è perché gli dèi sono dalla loro parte e perché il Dio degli ebrei ha abbandonato i suoi fedeli – si tratta di punto di vista corrente che si trova nell'antichità non soltanto presso gli autori pagani, ma anche, per altre ragioni, presso gli autori cristiani. Il conflitto non sembra aver condotto all'abolizione della libertà religiosa né dei diritti specifici per gli ebrei in vigore dal tempo di Cesare e Augusto; ma la violenza dei confronti militari non è certamente estranea all’animosità virulenta di Tacito verso gli ebrei e le loro abitudini.
Gli ebrei non possono più raccogliere denaro per il tempio di Gerusalemme; sono costretti ad un pagamento obbligatorio, il fiscus Iudaicus. Alla fine del I sec., Domiziano rivolge contro alcuni convertiti dell'alta società, in particolare un console ed un membro della sua famiglia, l'accusa di ateismo ed li fa condannare a morte o all'esilio, come pure alla confisca dei loro beni: queste conversioni nell'ambiente dell'imperatore stesso non piacciono affatto. Dal 132 al 135, sotto il regno di Adriano, una nuova sommossa scoppia in Giudea; essa fa seguito alla decisione di ricostruire Gerusalemme e di trasformarla in una colonia. Questa ribellione viene duramente repressa; Gerusalemme viene vietata agli ebrei – come pure la Giudea –, viene ribattezzata Aelia Capitolina e si costruisce un tempio pagano. Evidentemente, la potenza romana vuole porre fine all'esistenza, in oriente, di una nazione ribelle all'ordine che vuole instaurare. Nello stesso periodo, Adriano avrebbe fatto proibire la circoncisione. Tuttavia, questa misura non riguarda soltanto gli ebrei, ma tutti coloro che, nell'impero, praticavano questa abitudine rituale, i sacerdoti egiziani ad esempio. I Romani consideravano infatti quest'atto come una vera e propria mutilazione, che assimilano alla castrazione. Antonino Pio ristabilirà la legalità di questa pratica per i soli ebrei e i loro discendenti (e questo esclude la possibilità da circoncidere i convertiti):
«la circoncisione (è) vista come una mutilazione contraria alle leggi stabilite e permessa ai soli ebrei» (Origene, Contro Celso, II, 13)
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a. Interesse ed ignoranza Cosa sapevano i Romani della religione ebraica? Autori greci (p.es. Strabone e Plutarco) e romani (Plinio il Vecchio e Tacito) si interessano al paese d’origine degli ebrei della diaspora, alla storia o alla geografia della Giudea, alle abitudini ebraiche; riconoscono anche che il giudaismo è una religione molto antica che la rende rispettabile (Origene, Contro Celso V,25). Ma i Romani interpretano le pratiche ebraiche in funzione della cultura greco-romana e le loro fonti sono più spesso testi greci che testi ebraici o prove dirette che non sembrano avere sollecitato: nei Discorsi a tavola di Plutrarco, un commensale assimila le cerimonie ebraiche a delle feste in onore di Dioniso. Tacito, pur esprimendo dubbi su questo accostamento tra il Dio ebraico e Dioniso, afferma tuttavia che gli ebrei hanno costruito nel loro tempio l'effigie di un animale che li aveva guidati nel deserto. Secondo Svetonio, l'imperatore Augusto scambia il sabato per un giorno di digiuno:
b. Stereotipi I Romani hanno una visione a volte molto stereotipata dei popoli stranieri con i quali coabitano; queste rappresentazioni sono spesso legate a resoconti leggendari sulla storia di questi popoli: nell'antichità, i miti delle origini hanno un'importanza fondamentale. Tale visione si fonda anche sulle peculiarità più visibili, ripetute al punto da diventare caricaturali: i Galli sono pelosi, i Germani sono guerrieri temibili, gli Alessandrini sono effeminati... Gli ebrei non sfuggono a questo punto di vista riduttivo. Una versione greco-alessandrina dell'esodo. I Romani non offrono uno sguardo nuovo sull’ebraismo. Hanno subito, su questo argomento, come su molti altri, l’influenza della Grecia ellenistica, in particolare alessandrina. Una leggenda spesso attestata da autori greci, molti originari dall'Egitto, del III sec. a.C. fino al I sec. d.C., offre una versione, spesso di un'ostilità manifesta verso gli ebrei, del resoconto biblico dell'esodo: gli ebrei sarebbero stati cacciati dall’Egitto poiché erano impuri, o colpiti dalla lebbra, quindi sarebbero partiti per abitare una regione dove avrebbero fondato la città di Gerusalemme, tenendosi lontano dagli altri popoli e respingendo ogni forma di religione eccetto la credenza in un dio unico. Gli autori greci formulano anche accuse di misantropia e di empietà. Echi di questi resoconti e delle obiezioni che vi sono enunciate si trovano in Tacito (Storie, V). Le abitudini rituali ebraiche – astinenza dal maiale, riposo del sabato, circoncisione – lasciano i Romani perplessi o propensi a satire. Per esempio, il divieto di mangiare maiale sembra loro tra i più strani (questa carne costituisce una parte importante della loro alimentazione). E si sente tutta l’irritazione di un Filone di Alessandria che deve avere sentito molte volte delle osservazioni a questo riguardo quando racconta del suo incontro con Caligola:
Quanto al riposo del sabato, è assimilato da Giovenale alla pigrizia:
c. Fascinazione Resta però il fatto che il monoteismo ebraico esercita, durante i primi due secoli della nostra era, un’autentica seduzione, anche negli strati più elevati della società, che hanno probabilmente accesso alla Bibbia tradotta in greco (si tratta della traduzione dei LXX). Le conversioni all’ebraismo non hanno nulla di eccezionale. Orazio nota – a proposito di poeti – che gli ebrei possono, come loro, esercitare un potere d'attrazione certo :
Iudaei cogemus in hanc concedere turbam» (Sat. I, 4, 142-143)
d. Preoccupazioni identitaires e reazioni di rifiuto Di fronte a questo fenomeno, in una città che diventa sempre più cosmopolita, l’elite intellettuale e politica romana manifesta la sua preoccupazione. Cicerone nel 59 a.C. assume la difesa di Lucio Tiberio Flacco, imputato di avere intascato l’oro raccolto dagli ebrei della provincia dell'Asia per il tempio di Gerusalemme. In occasione di questo processo, Cicerone presenta gli ebrei di Roma come un vero e proprio gruppo di pressione (Pro Flacco 66-69). Bisogna vedere nelle sue opinioni un’antigiudaismo esplicito, un’esagerazione oratoria o l’eco del conflitto che lo oppone a Cesare, popolare fra gli ebrei? Resta il fatto che egli presenta il culto ebraico come una «barbara superstitio». Un timore ancora più marcato si manifesta in Seneca (citato da Agostino, La città di Dio VI, 11), quando afferma, riprendendo un luogo comune che Orazio aveva applicato ai greci:
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I Romani furono antisemiti? Il termine in se stesso costituisce un anacronismo; i Romani non manifestano la loro ostilità fondandosi esplicitamente su criteri razziali. La loro animosità, così come si esprime attraverso testi letterari, si basa su ragioni religiose e politiche, sul rifiuto di ciò che è straniero, o sul timore di vedere la loro identità minacciata in un mondo in piena trasformazione. Non si notano, a Roma, rifiuti istituzionali duraturi, divieto politico della pratica religiosa ebrea, persecuzioni (persecuzioni che sono effettive altrove nell'impero romano). Le misure adottate alla fine della Repubblica ed all’inizio dell’Impero tengono conto della fede e dei riti ebraici. Le misure più tardive hanno piuttosto come scopo di contenere una religione che, per alcuni, ha troppi successi.
L’atteggiamento dei Romani verso il giudaismo è complesso: «vi scorgiamo – a cominciare da Cicerone e Seneca, per raggiungere il culmine con Giovenale e Tacito – un'ambivalenza fra ostilità e paura, critica e rispetto, attrazione e repulsione, che riflette la particolare combinazione di esclusivismo e di successo che caratterizza l’ebraismo agli occhi degli autori romani. La minaccia, profondamente sentita, che la superstizione ebraica potesse riuscire a distruggere definitivamente i valori culturali e religiosi della società romana costituisce la vera caratteristica dell’ostilità romana contro gli ebrei. (…) Nel complesso, la peculiarità dell’atteggiamento romano verso gli ebrei sembra meglio espressa dal termine giudeofobia nella sua ambivalente combinazione di paura e odio. Si potrebbe sostenere, naturalmente, che anche il termine antisemitismo racchiude in sé, e ha sempre racchiuso, un elemento di paura. Questo è vero, ma la paura romana risulta particolare non solo perché proietta sugli ebrei un’irrazionale sensazione di essere minacciati da una misteriosa cospirazione, ma anche, e principalmente, perché rispecchia la reale affermazione ebraica all’interno della società romana, che è l’eco distorta dell’ammirazione» (Peter Schaefer, Giudeofobia. L’antisemitismo nel mondo antico, Carocci, Roma 1999, pp. 289-290). |
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